TFR E FONDI PENSIONE: NON FACCIAMOCI INCASTRARE
Si avvicina la scadenza del 30 giugno e con essa la necessità di effettuare la scelta se mantenere il TFR o consegnarlo ai Fondi Pensione. La campagna di vendita è partita in grande stile e diventa urgente esprimere il nostro orientamento in merito a questa importante decisione.
La CUB ha sempre ribadito la propria opposizione alla previdenza integrativa privata ed in particolare il rifiuto al conferimento del TFR per motivazioni fondamentali che qui è bene richiamare:
– il conferimento del TFR capovolge il rapporto contributivo esistente nella previdenza pubblica (8% lavoratore – 25% azienda) per trasformarlo in un meccanismo quasi totalmente a carico del dipendente (nella maggior parte dei settori il lavoratore versa il 6,91% corrispondente al TFR + un contributo attorno all'1% – l'azienda un contributo di circa l'1%);
– la disponibilità del TFR è totale alla fine del periodo lavorativo, mentre il Fondo pensione può essere riscattato come capitale solo al 50%, mentre l'altro 50% diventa rendita vitalizia; solo i "vecchi iscritti ai vecchi fondi" conservano la possibilità di riscattare tutto;
– i fondi pensione vengono proposti come parte di una strategia mirata all'abbassamento delle pensioni obbligatorie;
– la supposta crisi della previdenza pubblica viene usata come argomento per aprire il business a banche, assicurazioni, fondi negoziali gestiti dai sindacati di stato;
– la previdenza integrativa privata assume caratteri di forte discriminazione sociale, aumenta le differenze, costruisce una società sempre più diseguale e non rappresenta una risposta efficace ai problemi reali dei lavoratori più deboli, precari, discontinui;
– il rendimento dei Fondi Pensioni non è garantito, non si discosta significativamente da quello del TFR per profili d'investimento a basso rischio, spesso ne risulta notevolmente inferiore anche su periodi di tempo prolungati e può talvolta rendere di più solo a fronte dell'assunzione di un elevato livello di rischio;
– la prestazione finale dipende in modo rilevante dai costi amministrativi e gestionali che pesano sul montante durante tutto il piano di accumulo; costi che potrebbero essere alquanto più contenuti nell'ambito di una gestione pubblica a capitalizzazione che invece la legge esclude esplicitamente.
In sintesi, possiamo dire che l'atteggiamento delle istituzioni riguardo alle pensioni dei lavoratori è simile a quello di chi, dopo averti tagliato una gamba, ti propone la vendita di una protesi per continuare a camminare come prima, anzi peggio di prima. Non esiste una crisi ineluttabile del sistema di previdenza pubblica, perché gli interventi effettuati dal 1992 in avanti da governi di vario colore hanno "messo in sicurezza" i conti pubblici addossando totalmente ai lavoratori l'onere dell'aggiustamento.
L'indurimento dei requisiti minimi per il pensionamento, l'allungamento dell'età pensionabile, la riduzione delle prestazioni e soprattutto il passaggio al sistema contributivo (legge Dini del 1995) hanno abbassato il livello delle prestazioni pensionistiche, con effetti che potremo sperimentare a pieno a partire dal 2015 (prime pensioni con sistema misto) e ancora di più dal 2035 (prime pensioni con il contributivo totale).
Senza interventi correttivi e una inversione di tendenza (che possono derivare soltanto da una ripresa della mobilitazione sociale), ci potremmo trovare di fronte a situazioni molto critiche. Il tasso di sostituzione, cioè il rapporto tra la prima pensione e l'ultimo stipendio, potrebbe in alcuni casi ridursi a meno del 30%, con un effetto catastrofico sul reddito disponibile per la sopravvivenza delle fasce più deboli del lavoro dipendente. Eppure anche il governo in carica si ostina a martellare sulle pensioni e chiede di fare partire l'ennesimo negoziato concertativo in materia con la revisione dei coefficienti, un meccanismo previsto dalla Dini che impegna le parti, ogni dieci anni, a verificare l'evoluzione demografica per giustificare un'altra sforbiciata alle prestazioni.
La gravità della questione previdenziale non sta quindi nei bilanci dell'Inps (in ottima forma se scorporiamo interventi assistenziali e uscite al netto delle tasse), o nella dinamica della spesa previdenziale (ampiamente sotto controllo), o nel pericolo della "gobba" pensionistica (il forte aumento del numero dei pensionati che si verificherà forse, per qualche anno, a cavallo del 2040). La gravità sta nella modestia delle prestazioni che vengono garantite ai pensionati del presente e del futuro, sta nel crollo della domanda per consumi che una tale massa di "poveri" finirà per generare, sta nell'invecchiamento della popolazione lavorativa provocato dal continuo allungamento dell'età pensionabile, sta nel basso tasso di sostituzione tra vecchi e giovani, che impedisce a questi ultimi di trovare lavoro e abbassa la produttività complessiva, sta nella forte precarizzazione del lavoro che riduce i contributi totali che affluiscono al sistema pubblico.
La risposta a questi problemi non è necessariamente quella della previdenza integrativa privata. I fondi pensione sono una risposta disperata, alla "Si salvi chi può". Sono in pochi a potersela permettere e i dati di adesione ai fondi pensione, in questi ultimi 15 anni, stanno lì a dimostrarlo. Su 22 milioni di potenziali aderenti, solo tre milioni di lavoratori hanno deciso di aderire.
C'è talmente poco entusiasmo per lo strumento che hanno dovuto inventarsi un meccanismo perverso come il "silenzio-assenso" che in mancanza di una scelta esplicita da parte del lavoratore, finisce per scippargli il TFR destinandolo ad un uso diverso da quello originario!
Noi pensiamo invece che questa scelta debba essere fatta in modo responsabile e consapevole, fornendo ai lavoratori tutte le informazioni utili a farli decidere in piena libertà. Va quindi sgombrato il campo da una serie di luoghi comuni, che spesso vengono usati per forzare la scelta:
1) non è vero che i fondi pensioni rendono sistematicamente di più del TFR;
2) non è vero che le modalità di anticipazione, di riscatto e di prestazione finale sono equivalenti;
3) non è vero che le agevolazioni fiscali previste per i fondi pensione siano destinate a rimanere così allettanti anche per il futuro; circolano già autorevoli ipotesi di parificare la tassazione di TFR e fondi pensioni non appena si sarà chiusa la "finestra" per decidere;
4) non è vero che la previdenza integrativa rappresenta l'unica alternativa alla crisi del sistema previdenziale.
Nel nostro settore sono numerosi i fondi preesistenti, nati cioè prima della Legge 124/1993, i cui aderenti (cosiddetti "vecchi iscritti a vecchi fondi") possono fare parte del Fondo anche senza conferire, in tutto o in parte, il proprio TFR. A questi lavoratori è consentito tenersi il TFR senza per questo rinunciare al contributo aziendale, che in alcuni casi è ben più consistente di quello versato mediamente dai datori di lavoro. Ai lavoratori assunti dopo il 28/4/1993 (nuovi iscritti), obbligati a versare il 100% del TFR al Fondo in caso di adesione, la possibilità di scelta viene di fatto impedita, perché in caso di non adesione dovrebbero rinunciare al contributo aziendale.
Quello che ci preme ribadire è che il futuro delle nostre pensioni dipende dalla tenuta del sistema pubblico, che ogni sforzo deve essere fatto per trattenervi le maggiori risorse possibili, che va combattuta ogni iniziativa tesa a smantellarlo e che dobbiamo porci l'obiettivo di riconquistare un sistema pensionistico retributivo, agganciato ai prezzi e ai salari, basato sulla solidarietà tra generazioni e sull'equità sociale.
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