I DUE VOLTI DELL?ABI
Fa parte del senso comune pensare che una trattativa pesante e complessa come quella su un contratto nazionale di settore parta con una schermaglia, tesa a prendere tempo e studiare le vere intenzioni della controparte. Se poi il settore in questione è quello bancario, in una fase in cui sta succedendo di tutto e di più, possiamo anche pensare che le mosse di avvicinamento siano più lente e studiate del solito. Quello che abbiamo appreso dal comunicato unitario delle 9 sigle sindacali sull'incontro del 18 settembre con l'Abi sembra però superare ogni immaginazione.
Anziché parlare del merito della trattativa, infatti, l'Abi ha aperto l'incontro con un approfondimento sulle conseguenze e le ricadute dell'attuale crisi finanziaria collegata all'esplosione della bolla dei mutui "subprime". Il comunicato non lo dice esplicitamente, ma fonti giornalistiche lasciano intuire che la crisi di borsa in atto potrebbe rendere più difficile per le banche venire incontro alle richieste economiche avanzate in piattaforma che, lo ricordiamo, puntano ad aumento medio lordo di 187 euro, a regime.
Come se non bastasse, l'Abi parla anche di occupazione e mercato del lavoro, sostenendo l'insostenibile, cioè che le politiche di sfoltimento di organico collegate ai processi di fusione degli ultimi anni non hanno ridotto il numero di occupati sul piano "sostanziale" e che l'introduzione dell'apprendistato come principale canale di assunzione non ha aumentato la precarietà.
Se riavvolgiamo la bobina e andiamo indietro di qualche mese, ad esempio al convegno di Palazzo Altieri del maggio scorso, dove venivano presentati i bilanci 2006 dei 38 principali gruppi bancari italiani, scopriamo una realtà ben diversa, raccontata dalla stessa associazione che oggi cincischia per rinnovare un contratto scaduto dalla fine del 2005.
In quella sede si raccontava che le banche avevano fatto nel 2006 qualcosa come 79 miliardi di margine di intermediazione (+8% sul 2005), avevano raggiunto un ROE del 12,6% (12,1% nel 2005), toccato un utile netto di 18 miliardi di euro (+24% sul 2005) e abbassato le sofferenze all'1,4% dell'attivo (1,47% nel 2005).
Le spese amministrative erano salite, è vero, del 4,6%, ma non per aumenti retributivi, bensì per oneri legati agli esodi incentivati ed alla politica di riduzione degli organici e svecchiamento della categoria, cioè per sostituire (in parte, peraltro) lavoratori più costosi con altri pagati molto meno.
Insomma, i bilanci bancari sono strumenti bifronti, a seconda della platea e dello scopo per cui vengono illustrati. Le banche sono "solide, sane, efficienti" quando si tratta di distribuire dividendi agli azionisti o catturare il consenso di analisti e investitori, "non abbastanza competitive" quando si tratta con i sindacati per adeguare gli stipendi.
Del resto sono passati quasi due anni da quando il contratto è scaduto, dopo un 2004 che ha visto aumenti pari all'1,9% ed un 2005 con aumenti pari al 3,9% scaglionati in 3 tranche. La collaborazione dei nove sindacati trattanti è stata encomiabile in questi ultimi 8 anni ed ha consentito alle banche recuperi di redditività e produttività del tutto straordinari. Le quattro principali fusioni in atto hanno già determinato esodi incentivati per circa 15.000 addetti e risparmi operativi dell'ordine di svariati miliardi di euro. Le politiche di risanamento del settore bancario hanno gravato sulle spalle dei lavoratori, non su quelle di azionisti e manager, che hanno incassato dividendi, plusvalenze e prebende di straordinaria entità.
Non vorremmo che l'ennesimo episodio di instabilità finanziaria, crocevia tra calo di borsa, crisi del dollaro e resa dei conti per il credito facile, si traducesse in un comodo alibi per evitare di distribuire, a chi ne avrebbe sacrosanto diritto, una piccola parte degli enormi profitti realizzati nell'ultimo decennio.
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