Il nostro congresso si apre in una fase acuta di crisi finanziaria e di deterioramento dell'attività produttiva, che assume carattere planetario e attacca, prima di tutto, le condizioni materiali di vita dei lavoratori e i loro diritti sindacali. E' bene dunque partire dal contesto generale in cui si colloca il nostro agire, dal centro dell'impero alla sua periferia, per esaminare poi in specifico i caratteri che assume nel nostro paese l'insieme delle politiche conservatrici attuate dal "nuovo" governo e infine le peculiarità del nostro settore di appartenenza, in fase di profonda e rapida trasformazione.

Sarà necessario altresì stendere un bilancio sulla nostra attività sindacale nell'ultimo triennio e tornare a confrontarci su modelli di organizzazione categoriali e confederali, che devono adattarsi a realtà attraversate da cambiamenti epocali, che incidono sui processi produttivi, l'organizzazione del lavoro, le politiche di prodotto e il perseguimento del profitto. Si tratta di ragionare a 360° sulla realtà che ci circonda e sugli strumenti più adatti per mantenere il proprio radicamento nel contesto produttivo, senza rinunciare alla funzione di rappresentanza di diritti e interessi collettivi, di pertinenza dei lavoratori. Adattare al nuovo contesto il proprio modello di rappresentanza sindacale è la vera sfida cui saremo chiamati negli anni che abbiamo davanti.

Nell'attuale contesto di crisi conclamata del modello liberista, le possibilità di ripresa che si aprono al movimento operaio e sindacale sono enormi: riuscire a sfruttarle per costruire una società più aperta, giusta, solidale, compatibile con i bisogni dell'umanità e i limiti della natura, è una sfida politica, intellettuale e culturale di carattere epocale. Lottare perché prevalga una formazione sociale non più basata sullo sfruttamento, sulla violenza, sulla discriminazione di classe, di razza, di sesso, di religione o di opinione politica è inscritto non solo nel nostro statuto, ma nella nostra azione quotidiana, nella nostra tensione militante, nella nostra identità politica e culturale.

Gli esiti di questo sforzo sono però quanto mai incerti: l'unica certezza che ci sta davanti è la consapevolezza che il conflitto sarà aspro, che la crisi genera sempre profondi contrasti sociali, che l'insicurezza favorisce svolte autoritarie e comportamenti collettivi irrazionali. Per dirla in breve, il gioco si fa duro e si rende necessario un supplemento di maturità, intelligenza e compattezza per reggere la situazione. Ma procediamo con ordine.

Il quadro generale

Negli Usa la disoccupazione è salita in ottobre al 6,5%. Negli ultimi 12 mesi hanno perso il lavoro quasi 3 milioni di persone. I prezzi delle case sono scesi mediamente del 18%. Le borse hanno perso quasi il 50%. I risparmi delle famiglie, previdenza inclusa, sono stati falcidiati dalla crisi finanziaria e dall'impennata delle rate di mutuo. Un modello di sviluppo basato sul costante incremento del debito ha toccato i suoi limiti e si è spezzato. La locomotiva Usa, che ha trainato per anni l'economia mondiale, approfittando della propria egemonia militare, tecnologica e scientifica, oltre che del ruolo privilegiato del dollaro, questa volta si è davvero fermata.

L'economia mondiale è a una svolta: la sopravvivenza sarà garantita soltanto dalla capacità di raggiungere equilibri di tipo nuovo. La deriva dei mutui subprime e dei titoli tossici, il fallimento di Lehman e la serie di salvataggi bancari che l'hanno preceduto e seguito, la crisi trasversale dovuta all'eccesso di leva finanziaria, al proliferare dei derivati, alla crescita esponenziale di strumenti fuori controllo, hanno scatenato una crisi sistemica che ha portato in tempi rapidissimi ad una situazione pericolosissima, ad un passo dal collasso e dalla catastrofe.

Il piano Paulson ed il ciclopico sforzo di intervento pubblico nel salvataggio delle banche, delle istituzioni finanziarie fallite e dei paesi sovrani sull'orlo del default hanno spazzato via un sistema di pensiero che aveva dominato la retorica pubblica, l'ortodossia economica e l'ideologia politica negli ultimi 30 anni. La capacità del mercato di autoregolarsi si è dimostrata una patetica frottola, quando  nell'arco di poche settimane tutti i principali stati hanno dovuto stanziare la stratosferica cifra di 1.900 miliardi di dollari per tenere a galla il sistema finanziario mondiale, salvare banche e banchieri, risparmi e stabilità sociale: neanche un centesimo, invece, per miliardi di denutriti che continuano a morire di fame nella più totale indifferenza, come ha ricordato uno che di miliardi se ne intende (George Soros).

Adesso sono tutti keynesiani, invocano interventi pubblici per sostenere la domanda aggregata, acclamano l'intervento dello Stato nell'economia come male minore di fronte allo spettro della catastrofe. Si incentrano le critiche sulla deregolamentazione, responsabile principale dell'irresponsabilità finanziaria e delle sue conseguenze, come la ricerca spasmodica del profitto di breve termine, il ruolo predatorio dei manager, l'immoralità delle stock option e dei meccanismi che generano, la perdita di senso "strategico" della missione aziendale.

Ci si guarda bene dal riconoscere la causa ultima di quanto è successo, cioè la contraddizione di un modo di produzione capitalistico, storicamente dato, che non riesce più a valorizzare il capitale in misura adeguata attraverso la produzione manifatturiera e che eccede nella speculazione finanziaria, come ultimo tentativo di sopravvivere a se stesso, in una fase che alcuni studiosi individuano come lo stadio terminale di un sistema in via di estinzione.

Una crisi di passaggio, da una formazione sociale incapace ormai di darsi una forma stabile di equilibrio sistemico, ad una nuova formazione sociale che ancora stentiamo a decifrare, con centri egemonici plurimi ed una fisionomia ancora indefinita: avremo nuovi centri e nuove periferie, nell'economia mondo, ma potremo vedere un assetto più delineato solo tra qualche decennio.

Nel frattempo, è facile immaginare che le classi dirigenti di questo sistema maturo e decadente cercheranno di sopravvivere, sotto le bandiere e il credo innovatore della nuova amministrazione americana, a spese delle classi sociali subalterne, sia in termini di sfruttamento produttivo più intenso, sia in termini di distribuzione fiscale dei carichi impositivi, richiesti dal nuovo ruolo dello Stato nel sostegno al capitalismo privato. Nell'apparato industriale si darà il via ad una ondata di ristrutturazione radicale, di cui già si intravede il modello nel settore automobilistico, con tagli, chiusure, licenziamenti e delocalizzazioni, per riconquistare competitività attraverso un massiccio abbassamento del costo del lavoro.

Nel sistema fiscale si tratta di prelevare, dalla quota del reddito destinata al lavoro, quelle risorse finanziarie destinate a sostenere, da una parte,  le banche e le aziende in crisi, e dall'altra la spesa sociale di assistenza per garantire le fasce marginali della popolazione.

Un enorme processo di redistribuzione di risorse, a danno degli sfruttati e a favore dei banchieri falliti, sotto il ricatto e la minaccia della caduta verticale della produzione, dell'occupazione, del reddito.

Quanto sta avvenendo negli Usa non può che condizionare il resto del mondo. Anche l'Europa continentale, che aveva perseguito un modello di sviluppo più industriale che finanziario, ha dovuto arrendersi al contagio, ricapitalizzare le proprie banche ed attrezzarsi ad affrontare una dura recessione, con un cambiamento radicale delle proprie politiche monetarie, fiscali, economiche. Archiviata la retorica sugli aiuti di stato, tutti hanno aperto la strada ad interventi pubblici coordinati, in deroga ai criteri di Maastricht e alla rigidità della Bce. Primus vivere, deinde philosophare.

La dimensione planetaria della interdipendenza economica non lascia fuori nessuna zona del mondo. La Cina e l'Estremo oriente, diventati negli ultimi 10 anni la vera "fabbrica" del globo, si chiedono attoniti cosa sarà delle loro riserve valutarie, detenute in dollari, in titoli del governo Usa, e quanto riuscirà ancora ad assorbire, delle loro merci, il mitico "consumatore" americano, adesso che gli ritirano la carta di credito. Anche la Russia se la passa male, dopo il crollo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, così come l'America Latina del Brasile, Venezuela, Argentina (sull'orlo del secondo crack in 7 anni). Persino i ricchi sceicchi del Golfo, che sono intervenuti tramite i Fondi Sovrani nell'azionariato di molte banche europee e americane, osservano perplessi il crollo delle quotazioni e l'assottigliarsi dei propri investimenti, mentre il petrolio passa di mano a metà prezzo, rispetto a tre mesi fa. Una serie di Stati sovrani dalla struttura finanziaria fragile balla sull'orlo del precipizio, mentre il Fondo Monetario Internazionale, per anni emarginato, torna alla ribalta con prestiti e consigli, mentre sforna mensilmente previsioni catastrofiche sull'andamento dell'economia mondiale del prossimo biennio. Intanto l'OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) prevede un aumento di 20 milioni di disoccupati su scala mondiale, con il superamento della soglia dei 200 milioni di persone inattive. Questo per chi non avesse ancora compreso su quali spalle andranno a scaricarsi i "costi dell'aggiustamento".

Il caso italiano

In un'Europa impegnata nella difficile ricerca di un ruolo politico  autonomo dagli Usa e nell'impossibile tentativo di sganciare le proprie sorti dalla debacle economica globale, il nostro paese sperimenta una situazione di particolare difficoltà. La fragilità dei conti pubblici, la maturità dell'apparato industriale, l'arretratezza della dotazione infrastrutturale, il ritardo tecnologico, l'esiguità delle risorse dedicate alla ricerca scientifica, convergono nel produrre un quadro preoccupante rispetto alla capacità di competere sui mercati mondiali e di difendere sul lungo periodo la tenuta del modello sociale vigente. A tutta una serie di difficoltà oggettive, si aggiunge la presenza di un governo (e di un blocco di governo) particolarmente feroce, deciso ad usare il randello e le maniere forti per gestire la lunga fase di aggiustamento strutturale che ci attende.

L'evoluzione politica dell'ultimo triennio rimarca il blocco del sistema e la sua incapacità di ricambio interno, con il fallimento sostanziale del centro-sinistra nel proporre un'uscita dalla crisi italiana alternativa alle proposte del centro-destra. Il panorama politico si è appiattito al ribasso sull'esigenza di garantire la governabilità, la stabilità finanziaria, la riduzione della spesa pubblica e la fluidità del mercato del lavoro; le due coalizioni si sono divise solo sulle modalità di gestione della fase, con o senza il consenso sindacale, con o senza la concertazione, con o senza adeguati strumenti di ammortizzazione sociale.

L'esperienza di governo del centro-sinistra non ha mai potuto contare su una vera maggioranza politica ed ha bruciato velocemente l'esile consenso che era riuscita ad aggregare rispetto alla propria proposta politica: i più disincantati sono stati, fin da subito, i ceti popolari che avevano creduto nel governo Prodi e vi avevano riposto ragionevoli attese di cambiamento. Nessuna di queste speranze ha trovato soddisfazione, perché il governo ha in pratica riconfermato a grandi linee tutta l'impostazione politica precedente. Conferma del ritiro delle truppe dall'Irak, ma rifinanziamento delle missioni militari all'estero. Riforma delle legge Maroni sulle pensioni con eliminazione dello "scalone", ma riconferma dell'impianto di fondo sulla previdenza integrativa e addirittura un peggioramento sui criteri di uscita dopo il 2011.

Nessuna abolizione della legge Biagi, ma rimodulazione delle flessibilità sul mercato del lavoro.
Nessuna tassazione delle rendite finanziarie, ma mantenimento degli impegni sul cuneo fiscale a favore dei padroni e delle imprese.
Nessuna correzione del fiscal drag a favore del lavoro, ma abbassamento delle aliquote sui redditi d'impresa, così come trasferimenti pubblici e sgravi fiscali per le aziende.

La occhiuta sorveglianza dei conti pubblici, l'aumento della pressione fiscale, il taglio dei servizi hanno finito per spezzare quel fragile equilibrio politico su cui si reggeva la coalizione, riuscendo nella non facile impresa di deludere tutti: le classi popolari per il venir meno di ogni speranza di cambiamento sul terreno della redistribuzione del reddito e del mercato del lavoro, i ceti medi per i risultati conseguiti sul terreno della lotta all'evasione fiscale e la fine della logica dei condoni.

I numerosi compromessi digeriti dalla sinistra radicale, appartenente alla coalizione, sono stati fatali nel determinarne la catastrofe elettorale, ma  non sono stati sufficienti a compensare la debolezza intrinseca dovuta a quelle componenti moderate che non erano disposte a tollerare alcuna apertura sociale nel programma del governo. La nascita del P.d. e la svolta veltroniana hanno fatto il resto, minando il governo dall'interno, in direzione di una svolta verso il centro che si è tradotta in una disfatta elettorale senza precedenti, dalle conseguenze di lungo periodo.

Il movimento sindacale si trova quindi a muoversi su un terreno assai deteriorato, con una fallimentare esperienza di governo "amico" ormai alle spalle e con un governo di centro-destra tornato al governo dopo soli due anni, cavalcando temi qualunquisti e razzisti, sfruttando pulsioni emotive dettate dal senso di insicurezza e di paura diffuse e radicate soprattutto in quelle componenti sociali che in teoria dovrebbero votare a sinistra. I primi provvedimenti del nuovo governo confermano le peggiori previsioni possibili sulle reali intenzioni della coalizione.

L'eliminazione demagogica dell'Ici sulla prima casa finisce per drenare risorse a quegli enti locali sempre più indebitati e sempre più in difficoltà nel finanziare la spesa corrente, con l'ovvio preludio ad un taglio dei servizi sociali e all'innalzamento delle loro tariffe. La scure si sta abbattendo sul pubblico impiego ed in particolare sulla scuola, con un attacco frontale alla qualità del servizio pubblico, all'occupazione del settore, alla dimensione delle risorse destinate alla ricerca e all'università.

L'attacco ai "fannulloni" del Ministro Brunetta riassume la concezione del governo rispetto al servizio pubblico, come di un affare da sistemare solo attraverso il ristabilimento della disciplina, più che come riorganizzazione complessiva in funzione dei bisogni di una società complessa.

La posizione del governo rispetto alle tematiche sindacali è ben nota: trattare la riduzione dei diritti con quelle organizzazioni che si candidano al docile ruolo di controparte subalterna, senza preoccupazione alcuna di rompere l'unità sindacale. E' la riproposizione dello schema del "patto per l'Italia" del 2001, con Cisl, Uil (e Ugl) disponibili a firmare (come nel caso dell'accordo ultimo sul pubblico impiego), ed una Cgil divisa al proprio interno tra la necessità di aderire, per continuare a far parte del teatrino sindacale, e la tentazione di resistere, con una conseguente emarginazione dalle trattative. Lo stesso tipo di contrapposizione investe naturalmente il nuovo accordo generale sullo schema della contrattazione: una agenda dettata dalla Confindustria che mira a svuotare il contratto nazionale, reintrodurre le gabbie salariali, riconsegnare alle singole aziende l'ultima parola sulla necessità di contrattare o meno, in base al proprio conto economico, aumenti salariali ricollegabili ad incrementi di produttività.

E' una rottura del modello contrattuale vigente dal 1993: non più la concertazione, che presuppone un quadro dove governo, imprese e sindacato fissano insieme un tasso di crescita dei salari compatibile con l'inflazione e la stabilità finanziaria, ma una cornice molto vaga di diritti elementari minimi che lascia spazio a veri aumenti salariali solo laddove le condizioni di profitto lo consentano, con detassazione di straordinari e premi di produttività fissati a livello aziendale. Una contrattazione estremamente frammentata, fondata sullo svuotamento del contratto nazionale di settore, concentrata nelle sole aziende più grandi, lasciando privo di tutela tutto il segmento della piccola e media impresa, dove si vanno concentrando gli effetti più pesanti della recessione in arrivo (100.000 posti di lavoro persi nell'ultimo anno). Se l'accordo del '93 ha spostato in 15 anni 8 punti del Pil dai salari ai profitti (circa 7.000 euro annui a testa), è facile immaginare che l'azzeramento del CCNL porterà effetti ancora più devastanti sul reddito dei lavoratori.

Le dinamiche di settore

Il settore del credito ha vissuto per 10 anni una stagione eccezionale di profitti, approfittando di condizioni non più ripetibili. L'accordo quadro sul rinnovo contrattuale del 1999 ha portato ad una riduzione strutturale del costo del lavoro, che ha aperto la strada ad una ripresa degli utili in linea con la crescita del settore in Europa. Contemporaneamente è partito un processo di consolidamento che ha portato, soprattutto negli ultimi 3 anni, ad un forte concentrazione del settore, con le fusioni che hanno portato a formare tre grandi gruppi (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps) e tre gruppi medi (Ubi Banca, Banco Popolare, Bnl), che insieme si spartiscono oltre il 70% del mercato italiano, mentre solo Unicredit e, in parte, Intesa Sanpaolo, hanno una caratterizzazione internazionale trans-frontaliera. Questo carattere domestico del sistema italiano l'ha in parte preservato dagli eccessi e dalla crescita a leva che ha invece segnato l'espansione del settore bancario europeo, minandone la capacità di resistere alla crisi in corso. Questo ha fatto sì che le banche italiane fossero un po' meno deboli di fronte alla crisi e, fatto salvo forse il caso Unicredit, possano gestire il miglioramento dei coefficienti patrimoniali in modo graduale, senza l'emergenza del fallimento imminente. Tuttavia esistono, anche nel caso italiano, elementi di debolezza strutturale del settore bancario, che sono ormai sotto gli occhi di tutti:

  • uno Stato che ha già il terzo debito pubblico più ampio del mondo e quindi non ha la capacità di supporto messa in campo, per fare un esempio, da Germania, Francia o Gran Bretagna;
  • una struttura produttiva domestica scarsamente competitiva, con bassi tassi di crescita e difficoltà di riposizionamento nella divisione internazionale del lavoro;
  • una caduta di fiducia da parte dei risparmiatori, frutto delle politiche commerciali aggressive e inadeguate degli anni trascorsi, che si sono tradotte in forti perdite patrimoniali per i clienti, elevato contenzioso e, nel migliore dei casi, portafogli ingessati su prodotti lunghi e poco efficienti;
  • una crisi strutturale del risparmio gestito, che ha rappresentato per anni una importante fonte di introiti, e che conosce un collasso verticale senza alcuna inversione di tendenza (unico caso in Europa);
  • una concorrenza sui mutui molto più ampia e quindi una riduzione dei margini, su volumi peraltro in forte contrazione;
  • una notevole riduzione degli spread sull'intermediazione tradizionale, per la presenza, da una parte, di elevate remunerazioni della liquidità con canali alternativi (conto arancio e i  suoi fratelli), dall'altra di assegnazione di rating in base a Basilea 2 e quindi selezione del credito, con abbassamento dei margini.

L'insieme di questi elementi porta a prevedere la necessità di una totale rivoluzione del modo di fare banca e soprattutto l'inevitabilità di una forte compressione dei profitti, che tenderanno del resto ad allinearsi al ritmo di sviluppo del resto del paese, che è da anni a crescita zero e che si trova ad affrontare una delle crisi più severe della sua storia. Il dimezzamento degli utili tra 2007 e 2008 è il primo segnale forte che salta all'occhio.

Non è pensabile che tutto questo non abbia conseguenze sul modello contrattuale e sui contenuti della contrattazione. In estrema sintesi, possiamo affermare che il processo di consolidamento del settore è stato gestito con strumenti "morbidi" in quanto era collegato a forti risparmi di costo e all'impennata dei profitti. Il patto implicito era che nessuno si sarebbe fatto male: i risparmi sono stati usati per rimpinguare utili e dividendi, ma in parte hanno finanziato il fondo esuberi, che ha accompagnato fuori dal ciclo produttivo decine di migliaia di lavoratori esodati. In questo modo le banche hanno autofinanziato lo svecchiamento e la riduzione degli organici, senza pesare, se non in minima parte, sulle finanze pubbliche e sui bilanci dell'Inps.

Adesso si tratta di capire se questo processo possa ancora essere gestito in questo modo. E' vero che molto lavoro è già stato fatto, che gli organici sono inadeguati e insufficienti e che gli apprendisti e i precari assunti dopo il 2005 possono rappresentare un polmone occupazionale da usare in modo flessibile, da lasciare a casa quando l'emergenza lo richiedesse. Ma è difficile pensare che le aziende abbiano davvero interesse a disperdere il capitale umano già  formato,  che hanno contribuito a  creare: un capitale umano che del resto costa poco, è giovane, flessibile, adatto a farsi "spremere". E' più probabile, e mi rendo conto che è  una ipotesi forte, che le aziende tornino alla carica su tutta la struttura dei costi, vale a dire sull'insieme delle condizioni salariali e normative che tuttora tengono alta la struttura contrattuale della categoria e dei trattamenti aziendali.

Se questa ipotesi venisse confermata, ci troveremmo nell'arco di poco tempo ad un nuovo giro di vite, con richieste aziendali di procedere a nuovi riassetti dell'area contrattuale, nuovi regimi d'orario, nuova struttura retributiva ed incremento della quota salariale variabile, non contrattata e legata ai risultati. Il "secondo tempo", migliorativo, che alcune sigle sindacali vanno promettendo, dopo i necessari sacrifici insiti nelle fusioni, rischia così di rovesciarsi nel suo opposto: una nuova stagione di rinunce e di svendite di diritti acquisiti, per consentire alle banche di reggere di fronte alla crisi in arrivo.

Il sindacato di base, qui ed ora

Sono passati 20 anni da quando sono partite le prime esperienze del sindacato di base e oltre 15 da quando è nata la Cub. Nella nostra categoria il Sallca-Cub è stato formalmente costituito da quasi 10 anni. Non è prematuro tentare un primo bilancio di lungo periodo e interrogarci sulla praticabilità della nostra esperienza, sia come sindacato confederale, sia come esperienza di categoria.

Credo sia condivisibile una opinione largamente positiva sul ruolo propulsivo e storicamente necessario del sindacalismo di base, in questa fase di ripiegamento generale del movimento sindacale. Il patrimonio di lotte, di conquiste, di identità militante di tanti compagni, di tanti quadri del movimento, sarebbe sicuramente andato disperso senza la possibilità di proseguire la propria attività sindacale in un percorso organizzativo esterno alle confederazioni tradizionali, diventate ormai una articolazione del potere statuale, uno strumento di contenimento e di controllo della classe, un terminale subalterno delle direzioni del personale. Raccogliere le forze, le energie, le idee di tanti militanti di base e saldarle dentro uno sforzo collettivo per ricostruire l'organizzazione sindacale dei lavoratori, autonoma dai padroni e dallo stato, è stato ed è il compito principale del sindacalismo di base, oggi come ieri.

Tuttavia dobbiamo riconoscere che il nostro lavoro si scontra con difficoltà oggettive e soggettive di grande durezza. La crescita del sindacalismo di base, pur continua, è stata più lenta e faticosa di quanto si potesse immaginare. La tenuta dei sindacati concertativi è stata maggiore di quanto lasciasse immaginare la portata delle svendite che hanno accettato, senza battere ciglio. La loro capacità di contenimento e controllo dei movimenti di lotta è stata superiore a quella prevedibile.

D'altro canto non sono mancati, nel nostro campo, errori, divisioni e ritardi. Prenderne atto è l'unico modo per cominciare a correggerli e superarli. La grande richiesta che sale dalla base dei nostri iscritti è l'unità tra tutte le principali organizzazioni del sindacalismo di base. Divisioni e contrasti risultano incomprensibili alla maggior parte di coloro che partecipano al nostro movimento senza seguirne direttamente le vicende interne, soprattutto quando tali polemiche appaiono collegate a semplici personalismi.

L'unità nella Cub e la ricerca dell'unità anche con le altre componenti sindacali di base, soprattutto S.d.l. e Cobas, con cui si è già siglato un patto di consultazione, ci appaiono la strada obbligata per fare crescere il peso, l'autorevolezza, l'efficacia del nostro modello organizzativo.

Se il percorso che va in questa direzione necessita di chiarimenti e dibattiti sul modello organizzativo, sui contenuti, sulle scelte strategiche, si faccia una discussione approfondita ed estesa, con le modalità più democratiche e gli esiti più trasparenti.

Aggirare l'ostacolo per evitare possibili fratture non porterebbe niente di buono, significherebbe solo rimandare i problemi in avanti. La discussione va affrontata e risolta, con la consapevolezza che solo l'unità tra diversi può realizzare e perseguire oggi la costruzione di una alternativa sindacale seria alla deriva dei sindacati confederali e all'allineamento dei sindacati autonomi.

A livello di categoria, abbiamo sperimentato in questo ultimo triennio una crescita lenta, ma costante, in uno scenario profondamente cambiato. Il ciclo delle fusioni ha determinato un elevato numero di esodi, che ha fortemente inciso anche sulla composizione dei nostri iscritti e sulla consistenza del nostro quadro attivo. Molti compagni sono già andati in esodo e molti altri ancora lo faranno presto. La necessità di svecchiare l'organico dei nostri militanti è urgente, pena trovarsi, nell'arco di pochi anni, ad essere una organizzazione di esodati e pensionati. E' un fenomeno che tocca tutte le organizzazioni sindacali, che si trovano svuotate e prive di distaccati capaci e competenti, ma che investe noi in misura ancora più grave. In breve tempo se ne andranno dirigenti con grande esperienza e prestigio e sostituirli non sarà affatto facile. Li invitiamo sin d'ora a continuare a darci una mano, sapendo che il loro aiuto, anche saltuario, può dimostrarsi molto prezioso.

Il bilancio che possiamo trarre dalla nostra attività in questi ultimi tre anni è ampiamente riconosciuto, sul piano delle iniziative, degli interventi, della produzione di materiale di analisi e di elaborazione. Naturalmente non ci soddisfa l'esito che il nostro impegno ha determinato, in termini di crescita organizzativa e di ruolo di rappresentanza. A fronte di uno sforzo e una fatica impareggiabili, quasi sempre a carico di pochi militanti davvero instancabili, raccogliamo spesso risultati deludenti, quasi casuali. Le difficoltà ci hanno temprato a sopravvivere nonostante tutto, ma diventa davvero non rituale la richiesta di maggior impegno da parte di tutti, perché questo non sia un sindacato di delega come tanti altri, ma una organizzazione radicata sui posti di lavoro, su base orizzontale, con meccanismi decisionali democratici, capace di trasferire verso l'alto le istanze che vengono dal basso e nello stesso tempo capace di portare sul posto di lavoro valori esterni e tematiche non corporative.

Questo abbiamo cercato di fare in questo triennio e sarebbe lungo qui fare la lista della spesa. Pur sapendo di correre il rischio di dimenticare qualcosa di importante, proviamo ad enumerare i principali filoni di intervento di cui ci siamo occupati, in grado di illustrare, da soli, la vastità dei temi che caratterizzano il nostro intervento.

Abbiamo fatto innanzitutto un lavoro enorme sulle fusioni bancarie, partendo dal presupposto che hanno come scopo primario quello di realizzare risparmi sui costi del personale. In questo senso abbiamo denunciato puntualmente le conseguenze pesanti sui lavoratori: chiusure di uffici e servizi, mobilità territoriale, cessioni di filiali (compresi i lavoratori), attacco ai diritti pregressi, armonizzazione al ribasso dei trattamenti aziendali. Gli accordi sugli esodi hanno creato seri problemi di vuoto di organico e confuse procedure di integrazione informatica, che hanno peggiorato drasticamente la qualità del lavoro. Tutto questo è stato gestito dai sindacati trattanti senza alcuna procedura democratica, senza piattaforma rivendicativa, senza votazione degli accordi. I lavoratori sono stati  trattati come una merce qualunque, da scaricare o da cedere, un costo fisso che va ridotto, senza poter prendere parola.

Abbiamo svolto un buon lavoro sulla questione previdenza e T.f.r., schierandoci contro l'adesione acritica ai fondi pensione, che significa affidare al mercato le proprie sorti economiche, con esiti che la crisi di questi mesi chiarisce fino in fondo. Nello stesso tempo abbiamo svolto un buon lavoro nelle sedi istituzionali dove siamo stati eletti, catalizzando le energie più disponibili a mettere in discussione l'operato dei soliti noti, per svolgere un ruolo di controllo, di vigilanza, di informazione e trasparenza, in favore di tutti gli iscritti alla previdenza integrativa.

Abbiamo costantemente seguito le vicende relative alla questione della salute e della sicurezza, in particolare sul discorso del rischio rapine. Siamo arrivati a segnalare alla Prefettura le carenze nelle politiche di prevenzione delle banche ed anche a organizzare direttamente gli scioperi nelle filiali rapinate, per sensibilizzare l'azienda e i clienti rispetto ai rischi cui viene esposta la categoria, chiedendo guardie e banconi blindati ovunque si renda necessario.

Abbiamo puntualmente denunciato le politiche commerciali aggressive delle banche, invitando i colleghi alla prudenza, al rispetto della deontologia professionale, alla salvaguardia dell'etica, visto che si sono prevedibilmente dimostrati inefficaci i protocolli etici e sostenibili firmati dalle solite sigle, in assenza di una reale esigibilità in azienda e soprattutto della determinazione nel farli rispettare concretamente, dato che un buon conto economico viene considerato, anche da certi sindacalisti, una solida base per contrattare meglio.

Abbiamo contrastato l'estensione anche al nostro settore della precarietà del lavoro, introdotta dal contratto del 2005 con la disciplina dell'apprendistato e poi cresciuta con un fiorire diffuso di interinale, tempo determinato, contratto di inserimento e così via, arrivando anche, recentemente, ad una proclamazione di sciopero di solidarietà verso colleghi con contratto in scadenza, rivendicandone l'assunzione a tempo indeterminato.

Abbiamo allargato il nostro orizzonte, attaccando la logica delle grandi opere, degli investimenti inutili e degli scempi del territorio: basti pensare alla nostra partecipazione diretta alle lotte No-Tav, ai volantini in occasione delle Olimpiadi di Torino, alla posizione che abbiamo assunto sulla questione "grattacielo". Opere costose ed inutili (la Tav: 20 miliardi di euro per risparmiare 20 minuti), che hanno l'unico effetto di lasciare debiti per generazioni agli enti locali e distruggere comunità e territorio, in cambio di qualche effimero posto di lavoro precario, mentre le opere davvero importanti (es. Metropolitana) stentano a trovare risorse disponibili.

Abbiamo curato anche l'aspetto internazionale del lavoro sindacale, consapevoli che il movimento operaio non potrà mai vincere in un paese solo, ma deve coordinarsi con i lavoratori di altri paesi per poter resistere al dumping sociale, alla competizione da costi, al ricatto del trasferimento delle produzioni nei paesi periferici. Abbiamo partecipato alle varie edizioni dei Social Forum, portando il nostro contributo per la costruzione di una piattaforma rivendicativa alternativa alla C.e.s. e centrata sulla difesa dei servizi pubblici, la lotta alla precarietà del lavoro, la richiesta di orari di lavoro sostenibili,  la crescita della democrazia sindacale e la politica di inclusione di migranti e fasce deboli. Contro la fortezza Europa e la logica del mercato e della concorrenza, occorre costruire una società aperta, solidale,  pacifica, ecologica: una società  a democrazia avanzata.

Infine abbiamo partecipato direttamente alla gara di solidarietà con i lavoratori della Thyssenkrupp di Torino, colpiti dalla spaventosa tragedia del 6 dicembre 2007 e dalla chiusura della fabbrica, seguita al rogo dei loro sette compagni: i fondi raccolti non vanno ad aggiungersi a quelli, pur utilissimi, destinati alle famiglie delle vittime, ma alla associazione "Legami d'acciaio", formata da familiari dei caduti sul lavoro ed operai licenziati dall'acciaieria, che lottano per avere giustizia, per sanzionare i responsabili e perché tutto questo non debba ripetersi. Uno sforzo collettivo dovuto, non solo ai morti della Thyssen, ma alla memoria di tutte le vittime degli omicidi bianchi, che continuano a crescere al ritmo agghiacciante di 4 morti al giorno.

In conclusione, pensiamo che il lavoro svolto dalla nostra organizzazione sia un piccolo granello consegnato al processo di trasformazione del mondo: un contributo magari modesto, ma costato molta fatica, molto impegno, molto coraggio. Se questo granello finirà per fermare qualche ingranaggio nella catena di trasmissione del comando e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, avremo fatto, nel nostro piccolo, qualcosa d'importante. Qualcosa per cui valeva la pena lottare.

Per la Segreteria Provinciale uscente
R.S.

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