E' stato firmato il 2 ottobre scorso l'accordo sul Fondo Sanitario di Gruppo. L'intesa è stata esaltata su tutti i giornali con annessa esibizione della lista dei numeri: 100.000 iscritti, 200.000 utenti, 46 aziende coinvolte, 30 polizze sanitarie sostituite, 3 casse mutualistiche accorpate. Nell'arco di un triennio avranno le stesse prestazioni iscritti in servizio, esodati, pensionati e rispettivi familiari. Nei commenti sembrano avere vinto la solidarietà, il mutualismo, la perequazione dei trattamenti.

Tutti felici? Noi non siamo così sicuri: è soprattutto in questi casi che occorre alzare le antenne. Lavoratori, esodati e pensionati hanno situazioni diverse tra loro e l'accoglienza è stata, a dir poco, tiepida: esaminando nel dettaglio l'accordo ne risultano evidenti le ragioni.

In primo luogo viene stabilita una sola gestione delle risorse del Fondo Sanitario Integrativo di Gruppo (d'ora in avanti FSI), ma con evidenza contabile separata per iscritti in servizio e pensionati; elemento che preoccupa i pensionati, soprattutto ex-Intesa, che prima avevano una gestione unica.

In secondo luogo FSI ingloba le riserve di Cassa Intesa, Cassa Sanpaolo e Fia Cariparo, suddividendole tra iscritti in servizio da una parte e pensionati dall'altra, in proporzione al numero degli iscritti; elemento che indispone i pensionati, tutti, perché ritengono giustamente di aver contribuito alla formazione delle riserve in misura proporzionalmente maggiore e temono di trovarsi presto con i conti in dissesto.

In terzo luogo la contribuzione prevista sale per tutti, iscritti in servizio (1%), pensionati (3%), familiari non a carico (0,90%), con la sola eccezione degli iscritti in servizio Cariplo (che prima pagavano l'1,1%). Per gli iscritti in servizio,  l'incremento è notevole (+0,90% ex-Comit, +0,70% ex-Bav, +0,70% / +0,80% ex-Sanpaolo, +0,50% ex-Cariparo). Per loro l'aumento verrà compensato con un versamento aziendale di uguale misura nel fondo pensione: comunque sia, il salario diretto si riduce. Per i pensionati ex-Intesa l'aumento è a totale carico dell'iscritto (+0,70%), mentre per i pensionati ex-Sanpaolo l'effetto è incerto (pagavano 0,80% più un fisso di 878 euro, quindi ora chi ha pensioni  basse risparmierà, gli altri no).

 In quarto luogo il percorso di avvicinamento al FSI per i lavoratori oggi coperti da una polizza sanitaria,  da casse sanitarie con prestazioni inferiori, o privi del tutto di copertura, richiederà un periodo transitorio (da 2 a 3 anni), in cui l'azienda pagherà 900 € annuo di premio per una polizza unica negoziata dal Fondo. Il lavoratore pagherà un contributo dello 0,50% al fine di costituire una riserva, da portarsi dietro come dote al momento dell'accesso alla prestazione diretta. I beneficiari della polizza ex-Banco Napoli manterranno l'attuale polizza, accantonando anche loro lo 0,50%, per confluire nel FSI tra due anni.

Detto questo, occorre riconoscere che, a regime, le prestazioni saranno uguali  per tutti e in generale un po' migliorative rispetto alle attuali previsioni (soprattutto per chi aveva solo la polizza). Non mancano però, per alcuni, piccoli ritocchi al ribasso, come sul massimale previsto sulle cure dentarie per gli ex-Sanpaolo (compensate dalla reintroduzione della laserterapia per difetti visivi) e sensibili aumenti delle franchigie per gli ex-Intesa, così come l'introduzione della quota di rimborso differita (per loro una novità).

Ci preme tuttavia sottolineare alcuni aspetti dell'accordo che nessuno sembra intenzionato ad evidenziare:

  1. l'azienda ottiene il risultato sperato di inglobare le riserve precedentemente accumulate dai lavoratori durante l'attività lavorativa, riserve che si sono formate in tempi e modalità decisamente diverse e quindi davano origine a diritti soggettivi molto differenziati tra loro;
  2. la solidarietà intergenerazionale è un valore indubitabile, ma viene tirata in ballo solo quando serve a fare un'operazione gradita alle imprese, ridistribuendo tra lavoratori (in servizio o non) vantaggi e sacrifici, senza gravare sul conto economico aziendale, soprattutto in prospettiva;
  3. unificando gli attivi e i pensionati in una sola gestione (pur suddivisa in due evidenze contabili separate) l'azienda attribuisce ai lavoratori nel loro insieme la responsabilità di fare quadrare i conti e si svincola dal pericolo di doverli in futuro riequilibrare con nuovi apporti.
  4. l'accordo passa sulla testa della stragrande maggioranza dei pensionati, che qualche diritto ad usufruire in modo adeguato dei propri apporti contributivi pur ce l'avevano. La loro opinione in proposito è rimasta totalmente inascoltata, nell'indifferenza più completa dei sindacati trattanti, che pur ne accettano volentieri le iscrizioni e le trattenute.

Alla fine sapremo come funziona davvero soltanto fra qualche anno. Gli eventuali squilibri che dovessero verificarsi nei primi tre anni saranno infatti coperti, in prima istanza e in modo paritetico, attraverso l'utilizzo delle riserve (non oltre il 10% del patrimonio) e con l'abbattimento della quota di rimborso differita. Solo dopo le parti si incontreranno per stabilire il da farsi, prevedendo sin da ora come prima misura da adottare la suddivisione della perdita proporzionalmente in capo agli iscritti attraverso l'aumento dei contributi. Solo dopo il primo triennio, forse, si proverà a convincere l'azienda a mettere sul piatto qualche soldino in più.

 Francamente non ci sentiamo di condividere l'ottimismo imperante: è giusto che l'azienda paghi le spese amministrative (corresponsabili dello squilibrio ultimo della Cassa ex-Intesa), ma l'equilibrio della gestione pensionati è chiaramente a rischio, nonostante i (modesti)  trasferimenti di solidarietà dalla gestione iscritti in servizio (4% della contribuzione annuale, più il giroconto della dotazione di quelli che vanno in pensione).  

L'unificazione dei trattamenti è certamente un risultato pregevole, ma non si può ignorare che il finanziamento avviene a spese di coloro (tanti) che accampavano maggiori diritti sulle riserve, a favore di altri (relativamente di meno) che  migliorano di poco la propria situazione. L'unificazione dei diritti, a nostro avviso,  deve avvenire al rialzo, non facendo la media del pollo per garantire all'azienda il contenimento dei costi, tanto più che spesso si è rinunciato a quote di aumenti salariali per consentire all'azienda di sfruttare i vantaggi fiscali legati alla contribuzione assistenziale.

C'è poi un discorso generale, legato al deterioramento della qualità del servizio sanitario pubblico. Intesa Sanpaolo ha infatti usato di recente questo accordo aziendale per proporre al sistema politico un modello generale di sanità integrativa, che vede banche ed assicurazioni come candidati ideali a gestire un passaggio epocale dalla sanità pubblica alla sanità privata, esattamente come da tempo accade nella previdenza complementare. L'azienda propone la mutualità integrativa come prodotto da vendere chiavi in mano, da un lato finanziando gli investimenti dei privati e dall'altra gestendo i patrimoni raccolti dalle mutue aziendali.

Deve essere ben chiaro che questo modello, al pari di quello proposto per i fondi pensione, non sarebbe in grado di reggere senza un forte e solido pilastro pubblico, che le casse sanitarie aziendali possono solo integrare. Il FSI privilegia il ricorso al sistema sanitario, ma si appoggia anche pesantemente alle strutture convenzionate private, con dinamiche di spesa che possono minare la tenuta dei propri saldi d'equilibrio.

Questo accordo deve  comunque superare alcuni importanti ostacoli:

  • la cassa sanitaria Intesa può essere sciolta solo con il ricorso al referendum, che deve vedere la partecipazione di almeno il 50% degli iscritti e vincere con la maggioranza del 50% dei votanti.
  • la cassa Sanpaolo non ha previsioni statutarie per lo scioglimento, ma sarebbe opportuno che la consultazione degli iscritti per via assembleare si completasse comunque con un  referendum.

Evitare questi due passaggi sarebbe una vera e propria rapina in pieno giorno!

Inoltre va detto che il nuovo Fondo verrà provvisoriamente gestito, per i primi due anni, da organi statutari non eletti democraticamente, ma nominati dalle parti che hanno siglato l'accordo. Nella nomina i sindacati firmatari hanno del tutto ignorato i membri eletti precedentemente dai lavoratori, azzerando la presenza di eletti indipendenti, ad esempio, nel Consiglio Direttivo della Cassa Sanpaolo. I lavoratori hanno eletto dei rappresentanti per gestire le casse esistenti, non per scioglierle!

Non è questa la democrazia con cui devono essere gestiti gli enti bilaterali

e per questo noi invitiamo i lavoratori a non approvare questo scempio!

L'equiparazione dei trattamenti tra lavoratori è un irrinunciabile obiettivo sindacale, così come la solidarietà e la salvaguardia dei diritti dei pensionati, che si trovano per ragioni oggettive ad avere maggiori esigenze di prevenzione e cura. Sarebbe stato giusto perseguire questi obiettivi non attraverso l'aumento del prelievo sul  salario diretto dei lavoratori in servizio  e sulla pensione di quelli in quiescenza, ma attraverso l'aumento della contribuzione aziendale, per condividere non solo a parole i "vantaggi da fusione"…

C.U.B.-S.A.L.L.C.A.
INTESA SANPAOLO

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