Il 5 aprile scorso Intesa Sanpaolo ha deliberato il piano d'impresa 2011-2013 (con proiezioni al 2015) e l'aumento di capitale da 5 miliardi di euro, fortemente consigliato da Draghi e Tremonti. Si tratta di un documento molto corposo, presentato agli analisti e ai sindacati, alla comunità finanziaria e al mercato. Come lavoratori abbiamo certamente titolo e interesse a capirlo e interpretarlo, per intravedere le future mosse aziendali e prevenire le ricadute più pesanti sulle condizioni di lavoro.

E' evidente che il piano d'impresa si muove su piani diversi e mira ad obiettivi multipli, a seconda dell'interlocutore cui si rivolge: per alcuni è rassicurante e promettente, per altri vagamente minaccioso.

Da una parte ci sono gli azionisti di riferimento, i rappresentanti dei fondi e la comunità dei risparmiatori, che dovranno materialmente tirare fuori i soldi per l'aumento di capitale. Un aumento che fino all'ultimo mese è stato ostinatamente negato dal management, per poi arrendersi alle pressioni dei "regolatori" e ai requisiti previsti da Basilea 3: chi si muove per primo può pensare di trovarsi meglio in un mercato che sarà in breve tempo subissato da richieste di capitalizzazione. Per addolcire la pillola, la banca si impegna a restituire la somma nei prossimi tre anni attraverso 5,3 miliardi di dividendi, che diventeranno addirittura 13,5 miliardi di euro nel periodo 2011-2015. Promesse mirabolanti per vendere il prodotto!

Dall'altra parte ci sono le autorità monetarie e lo stato: la banca garantisce di continuare ad erogare credito all'economia e soprattutto promette di continuare a pagare un flusso di tasse piuttosto corposo (8 miliardi nel triennio e addirittura 16 miliardi nel quinquennio).

Ci sono poi i fornitori, destinatari finali del flusso di acquisti e investimenti, anche qui rilevanti, sebbene la minaccia di severe politiche di contenimento dei costi dovrebbe a rigor di logica perlomeno impensierire chi è oggi nell'albo fornitori.

Infine ci sono i lavoratori e le rappresentanze sindacali, che alla fine della lista saranno chiamati a pagare il conto di tutta l'operazione, attraverso un forte recupero di produttività e una incisiva politica di taglio dei costi. Questa è la parte del piano che maggiormente ci interessa.

Qui ci vengono in soccorso i numeri, che assumono una logica spietata, in un programma di guerra.

Le ipotesi base usate per definire volumi e obiettivi sono ovviamente variabili esogene indipendenti, che possono alterare in modo significativo la credibilità del progetto. Basti pensare, a tale proposito, al forte scostamento tra piano industriale precedente (2007-2009) e i risultati ottenuti e alla sostanziale impossibilità di formulare, finora,  un nuovo piano d'impresa, nel contesto della crisi verticale scoppiata con i subprime e la Lehman. Nessuno può essere certo quindi che Intesa Sanpaolo raddoppierà gli utili dal 2010 al 2015 o che vedrà, in quel periodo, salire i suoi proventi operativi netti da 16,4 a 21,7 miliardi. I rischi di esecuzione, a differenza di quanto sostiene il piano, sono alti e inevitabili: la crisi economica non è alle nostre spalle e i dati sull'occupazione di febbraio lo esplicitano in modo evidente.

Il piano però espone anche altri numeri, che non sono dati di mercato o di scenario, ma sono un programma di lavoro, cioè il frutto di politiche di gestione del personale e di accordi sindacali per renderle effettive. I numeri che la direzione d'impresa mette nero su bianco riguardano la riduzione del rapporto costi/ricavi dal 56,1% del 2010 al 46,7% del 2013, per arrivare al 43,00% del 2015; annunciano risparmi di costo per circa 770 milioni di euro; prevedono la riduzione degli organici complessivi di 3.000 persone in soli 3 anni; puntano ad una soppressione di 8.000 posti di lavoro nel settore amministrativo, con parziale riconversione professionale di 5.000 addetti in ruoli commerciali.

Qui il piano d'impresa assume obiettivi concreti che vanno al cuore delle relazioni industriali e che ci fanno presagire forti tensioni e sofferenze per i lavoratori, soprattutto se lette alla luce della disdetta, da parte dell'Abi, del protocollo sul Fondo Esuberi. Una disdetta che punta all'introduzione dell'esodo obbligatorio ed altre amenità che vengono in parte già "anticipate" nel piano industriale, prima ancora di essere state ottenute al tavolo negoziale Abi. Si cita addirittura l'"avvio di un innovativo piano di Solidarietà tra generazioni, attraverso la progressiva estensione del part-time per accompagnare il passaggio dalla piena attività alla quiescenza, valorizzando esperienze e conoscenze e favorendo equivalente nuova occupazione".

Lo scarto tra fantasia e realtà si coglie a pieno quando si legge la disponibilità aziendale ad "incentivare i congedi parentali per contribuire ad un maggior equilibrio nella ripartizione del lavoro" e ancor di più quando auspica "l'introduzione di maggior flessibilità negli orari di lavoro, incentivando l'adozione del part-time verticale e orizzontale". Involontaria ironia, se uno pensa alla difficoltà di questi mesi ad ottenere il rinnovo dei part-time esistenti, per non parlare della concessione dei nuovi….

Sulle pressioni commerciali e sulla ricerca ossessionante di utili a breve in conto economico, basta leggere l'accenno all' "introduzione di nuove metriche di misurazione dell'attività commerciale basate sull'intensità e sull'efficacia della relazione con il cliente", oppure ancora la linea di drastica riduzione delle deroghe nelle politiche di pricing, che rischia di allontanare molti clienti. Altro che incremento di redditività…

Sulla rete e sulla spasmodica ricerca di inquadramenti contrattuali più risparmiosi, sono "promettenti" gli impegni a mettere mano a 1.000 filiali, con circa 400-500 tra chiusure e accorpamenti  ed evoluzione delle filiali minori da full a basic branch (senza cassa).

Si tratta dunque di un progetto ambizioso, inserito in un contesto economico incerto, ricco soltanto di incognite. Un progetto però che intende proseguire e rafforzare una dimensione organizzativa e commerciale totalitaria, in cui le esigenze dei lavoratori e dei clienti vengono piallate e ricondotte a semplici variabili del modello di funzionamento aziendale. Un progetto in cui la stessa contrattazione "sarà orientata alla flessibilità e al miglior utilizzo delle strutture", perché le organizzazioni sindacali devono ridursi ad appendici subordinate all'azienda e deve esserci sempre "necessaria coerenza e stretta correlazione tra gli andamenti economici del Gruppo e la variabilità del salario". In questo contesto il modello manageriale deve "orientare stili e comportamenti delle risorse e favorire il raggiungimento degli obiettivi del Piano".

E' quanto mai necessario assumere la sfida che Intesa Sanpaolo, al pari delle banche concorrenti, lancia ai lavoratori e ai loro rappresentanti. Il modello aziendale si nutre di fantasia, ma propone una sola realtà: quella totalizzante della estrazione di valore dal lavoro subordinato. Deve trovare sulla sua strada una risposta adeguata al livello della sfida.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A.
Intesa Sanpaolo

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