Quando il compianto Dottor Jannacci s'inventò questa bellissima canzone correva l'anno 1968, e non mancavano certo spunti di tensione sociale. Trascorsi quarantacinque anni essa è ancora tremendamente attuale: quasi non passa giorno, soprattutto ultimamente, che qualche ricco e potente individuo pianga miseria per crisi reali o immaginarie che, di fatto, lo toccano ben poco, presentando poi un conto salatissimo a chi non è ricco né potente.

In UniCredit questo concetto è diventato una specie di religione del paradosso. Il 2012 è stato un anno tutt'altro che semplice: se qualcuno se ne fosse per caso dimenticato circa 10 mesi fa ci si interrogava sul futuro della moneta unica e il famigerato spread svettava a livelli doppi di quelli attuali. Eppure i risultati a dicembre, e perfino quelli del primo trimestre 2013, sono stati lusinghieri, ben oltre le aspettative, al punto che l'Alto Management si profonde in ringraziamenti e complimenti. Ma se dalle parole si scende alla sostanza, dato che tutti i "grazie" del mondo non pagano una rata di mutuo né una bolletta della luce, le cose non vanno proprio benissimo.

O meglio, non vanno proprio benissimo per alcuni. Partiamo dal famigerato contratto prontamente firmato da un compatto fronte di sigle sindacali senza consultare nessuno, e successivamente propinato in assemblee il cui risultato, a un anno di distanza, ancora non è stato possibile conoscere in una forma diversa da "abbiamo vinto noi". Sembra monotono e ripetitivo parlare sempre delle stesse cose, ma, è il caso di ricordare, non è ancora passato un anno, gli unici modesti impegni previsti in modo vago e assolutamente non vincolante a carico dell'azienda (per esempio assumere) sono stati tranquillamente ignorati, mentre le conseguenze negative cominciano a dispiegarsi in modo evidente (cominciano anche da noi allusioni all'estensione dell'orario, per chi se le fosse perse).

C'è stata poi la trattativa sul VAP, in cui la forza negoziale delle sigle firmatarie si è dispiegata in tutta la sua terribile potenza. Volantini roboanti, una giornata di sciopero con adesione pressoché totale, risultato: un premio dimezzato (non è serio considerare il versamento sul fondo pensione, per chi ce l'avesse, e molti non lo hanno). Vale la pena di ricordare che siamo forse l'unica grande realtà del credito italiano in cui il VAP viene trattato di anno in anno a stralcio sulla base di una specie di mercato delle vacche che si è SEMPRE tradotto in una riduzione, negli ultimi anni, crisi o no. Giusto perché stiamo arrivando al fatidico momento in cui, incredibili dictu, ci diranno che anche quest'anno non ci sono soldi per pagarlo. Nonostante i meravigliosi risultati di cui sopra.

In mezzo c'è stato un altro passaggio di pessimo gusto sui premi di rendimento. Di questi le sigle firmatarie non si sono mai curate più di tanto, a parte generici discorsi sull'equità e sulla disincentivazione di pratiche commerciali scorrette. Il fatto che abbiamo un sistema incentivante che somiglia a uno slalom speciale su un campo minato, più che a una pagella, o a qualsiasi forma di valutazione ragionevole, viene derubricato dalle trattative come se il
premio fosse una liberalità dell'azienda, che quindi può permettersi di elargirlo come vuole. E l'azienda non si fa attendere: per chi, per sbaglio o per fortuna fosse arrivato in fondo allo slalom, il premio è stato elargito un mese dopo (con motivazioni che hanno a che fare più con l'astrologia che con una qualsiasi spiegazione razionale) e decurtato di appena il 70%, per ragioni di "solidarietà con il perimetro Italia" (che non esiste in nessuna forma a livello aziendale se non come voce di bilancio aggregato).

Ma le insidie sono ben altre. Se i colleghi in rete vedono scomparire il salario variabile e aumentare in modo esponenziale richieste, problemi, carichi di lavoro, vedendosi ridotti a commessi di un "punto vendita" che adesso tratta anche gadget elettronici (senza che peraltro nessuno si prenda la briga di spiegare come funzionano, a cosa servono, o anche solo fornirne UNO per agenzia, giusto per capire come siano fatti), quelli di sede, in molti casi, sono direttamente estromessi dall'azienda e "scaricati" in newco (aziende satellite) in cui UniCredit ha una partecipazione minoritaria, e dall'altra parte ci sono blasonati nomi della consulenza come Accenture (a cui, è bene ricordarlo, paghiamo per il disturbo fatture di molti milioni di euro). Questo, si dice, per ridurre i costi: come se trasformare lo stipendio di un dipendente in una fattura per un servizio a una società esterna fosse un'operazione totalmente neutra, un po' come prendere in leasing un'auto invece che comprarla.

La cosa più divertente (si fa per dire) è che calcolando le fatture multimilionarie pagate alle società di consulenza, gli emolumenti dei dirigenti assunti dalle stesse per gestire i progetti di ristrutturazione e ovviamente i costi dei servizi, si viene spesso a scoprire che i costi AUMENTANO. Una persona malevola potrebbe domandarsi se davvero non siamo capaci a fare i conti… o se bolle in pentola qualcosa di più pesante. Eutelia insegna.

E c'è dell'ironia ancora maggiore nel fatto che, dopo aver trattato i propri dipendenti come cespiti obsoleti da scaricare dal bilancio, UniCredit si fregi del prestigioso titolo di "top employer 2013", titolo condiviso con altre 45 aziende italiane, fra cui diverse banche, e rilasciato da CRF, altra società di consulenza, previo versamento di una quota spese. Se interessa saperlo, l'89% delle aziende che ne fanno richiesta e pagano vengono certificate…

Verrebbe da domandarsi in questo contesto come siano (o meglio, come SI siano) trattati i manager. Il taglio del 70% sui bonus colpisce anche loro (nel caso delle figure "top", perché altri 115 manager del gruppo hanno una riduzione del 50%); peccato che le cifre residue siano comunque misurabili a centinaia di migliaia di euro (e in alcuni casi passino tranquillamente il milione). Il paragone con il re della canzone, che piangeva per aver perso un trentaduesimo del suo patrimonio immenso, è piuttosto calzante.

Ma tutto questo è presentato come una necessità storica ineluttabile. Non si può fare niente, recitano come un mantra da anni le sigle firmatarie, anzi, dobbiamo ancora ringraziare ed essere contenti (si ricorda che il nostro pianger fa male al re…).

E su questo in parte hanno ragione: prima di ragionare su cosa fare, si può ragionare su cosa non fare più:

  • non si possono più sostenere nostri sedicenti rappresentanti che non trattano, trattano al ribasso o permettono con un'opposizione inconsistente che le tutele e gli stipendi dei lavoratori siano smantellati ogni giorno un po'. Noi non siamo una categoria di parassiti, e probabilmente senza il nostro contributo molte vicende nazionali e aziendali recenti avrebbero avuto sviluppi largamente peggiori. Di chiamate alla responsabilità ne abbiamo avute un po' troppe, e il nostro potere contrattuale è forte quanto può esserlo quello della categoria che gestisce il risparmio dei privati e il credito alle aziende;
  • non si possono fare più regali a un'azienda che ci vede unicamente  come costi da tagliare. Straordinari non retribuiti, responsabilità non previste, soluzioni a problemi che non abbiamo creato, attività e modalità commerciali non conformi alla normativa e alle prassi etiche che lo stesso istituto sbandiera, sono tutte cose che non ci competono. Lavorare con responsabilità non significa immolarsi né lasciarsi sfruttare, minacciare e dequalificare.
C.U.B. – S.A.L.L.C.A.
GRUPPO UNICREDIT

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