RINNOVO CONTRATTUALE: L’ACCORDO CHE NON RISOLVE NULLA
Le assemblee sul rinnovo del contratto del credito si sono concluse. L’ipotesi di accordo è stata approvata quasi ovunque con un consenso plebiscitario: i SI hanno superato il 96%. Deludente il tasso di partecipazione: su 284.000 bancari, hanno espresso il loro voto poco più di 67.000 colleghi. Meno di un lavoratore su quattro ha concorso a determinare il risultato finale e occorre quindi fare la tara alle affermazioni perentorie dei sindacati firmatari che sostengono di aver raggiunto un livello di consenso che non ha precedenti. I dati, forniti in modo aggregato a livello regionale (e solo in taluni casi provinciale), non consentono particolari verifiche o analisi di dettaglio, anche se questa volta (ci mancherebbe) non è certo in discussione l’esito finale.
Come temevamo, il forte dissenso registrato all’interno di alcune sigle sindacali e in molti territori (al direttivo nazionale della Fisac, come noto, i voti contrari erano stati circa il 33%) non è stato portato, per amore o per forza, all’interno della categoria. Lo dimostrano in particolare i dati di Liguria e Lazio, dove il SI ha comunque vinto (rispettivamente con l’84% ed il 90%) seppure con percentuali più basse del dato nazionale.
Tutto questo si è verificato a fronte di un accordo che noi continuiamo a definire largamente deludente, un’occasione mancata nel doveroso tentativo di recuperare qualcosa dopo il disastro del 2012.
Pur nella piena consapevolezza dell’impossibilità di sostenere da soli una battaglia nazionale per il NO (anche la Unisin-Falcri si è totalmente allineata per rientrare al 1^ tavolo), ci siamo assunti il compito di fornire, laddove presenti, una corretta informazione ai lavoratori denunciando puntualmente le bugie e le omertà che le relazioni sindacali contenevano. In Intesa San Paolo, a Torino, nostra tradizionale roccaforte, il NO ha superato il 25% (più un 10% di astenuti), un risultato molto significativo anche se, indubbiamente, la maggioranza dei colleghi ha approvato il contratto.
Tornando ai risultati complessivi, com’è possibile che rispetto ai livelli di critica espressi dalla categoria nel 2012 si sia verificato un arretramento così rilevante? E com’è possibile che i lavoratori siano così rassegnati e passivi, di fronte a quello che sono costretti a subire quotidianamente? Verrebbe da chiedere: a che punto è la notte?
Dopo il varo di una piattaforma che sembrava promettente, nonostante lo sviluppo di una vertenza che ha visto esprimere i lavoratori in lotte compatte, di fronte ad una controparte delegittimata da scandali e malversazioni, i sindacati firmatari si sono nuovamente assunti la responsabilità di chiudere un contratto senza risultati tangibili.
E questa scelta non ha neanche visto una reazione adeguata da parte dei lavoratori e dei delegati di base. Siamo davvero di fronte a cambiamenti epocali e la dimensione della sconfitta è fortemente radicata nella coscienza collettiva.
Appare ridicolo il trionfalismo di certe affermazioni: come si fa a sostenere che l’ABI ha dovuto subire una sconfitta strategica e quindi ha perso? Le banche hanno preferito accontentarsi di quello che già hanno ricevuto dal governo, tra agevolazioni fiscali, rivalutazione delle quote di Banca d’Italia, esenzioni IRAP e provvedimenti sul mercato del lavoro. Jobs Act e decontribuzione assicurano vantaggi economici inaspettati, i nuovi assunti costano pochissimo, esodi e taglio dei costi proseguono senza tregua. Con il tempo potranno essere capitalizzati anche i risultati ottenuti con questo rinnovo.
Innanzitutto l’allungamento del contratto fino alla fine del 2018, la decorrenza degli aumenti rinviata all’ottobre 2016, la delimitazione del perimetro su cui calcolare TFR e previdenza integrativa: economicamente il contratto si chiude per le banche a costo zero. In secondo luogo la revisione degli inquadramenti, preceduta da nuovi modelli di servizio che hanno svuotato di significato la normativa precedente, creando i presupposti per una forte riduzione dei riconoscimenti professionali e gerarchici. Entro un anno i progetti dell’ABI rientreranno dalla finestra tramite la commissione di lavoro sul tema. In terzo luogo i riassetti societari e gli scorpori, che non troveranno certo ostacoli insormontabili nelle vaghe formule con cui è stata “presidiata” l’area contrattuale o il nulla che è stato definito in merito agli appalti.
Tutto l’impianto sul nuovo modello di banca è stato ignorato, più che rigettato, e l’esplosione del problema indifferibile delle pressioni commerciali dimostra che nulla è stato risolto in questi anni di pure chiacchiere, ma anzi il fenomeno si è incancrenito, diventando strutturale e connaturato al “vecchio” modello di banca, l’unico ammesso e consentito.
Del resto non c’è nulla da pretendere da un sindacato che si pone come unico obiettivo quello di contrattare il piatto di lenticchie, cioè una misera parte dell’incremento di produttività e redditività ottenuto, in misura più o meno ampia, dalle aziende, proprio attraverso quei metodi commerciali aggressivi e pressanti che a parole si dice di voler contrastare. Anziché mettere in discussione metodi, strumenti, e obiettivi, i sindacati chiedono solo che il frutto di questo delirio venga redistribuito con criteri meno squilibrati, in modo da lasciare qualche briciola anche alla truppa e alla manovalanza, anziché concentrare tutto su manager ed azionisti.
Ci sembra ben poca cosa rispetto alla misura drammatica che ha assunto lo sfruttamento del lavoro nel ciclo produttivo (anche) bancario, la quota di lavoro non pagato, la dimensione totalizzante del budget commerciale, il decadimento del clima di lavoro, l’inasprirsi delle tensioni con la clientela, l’irraggiungibilità degli obiettivi e la scarsità quantitativa delle risorse impiegate, a partire dagli organici.
Sono nodi che il contratto lascia del tutto irrisolti e che certamente interessano anche quel 96% di lavoratori che, a differenza nostra, ha giudicato l’accordo il male minore di fronte al quale conveniva piegare la testa.
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