ACCORDO DI SECONDO LIVELLO IN INTESA SANPAOLO – LA GRANDE BRUTTEZZA
L’accordo sul contratto di secondo livello firmato in Intesa Sanpaolo il 7 ottobre 2015 è stato definito “storico” dal segretario Uilca Massimo Masi. Il capo delegazione di ISP, Eliano Omar Lodesani, è ad oggi il più probabile candidato a prendere il posto di Alessandro Profumo come presidente del CASL, cioè come capo delegazione dell’ABI. La “qualità innovativa” dell’accordo siglato e l’estensione del suo ambito di applicazione (65.000 dipendenti sui 300.000 bancari italiani) lo candida ad essere un punto di riferimento per l’intera contrattazione nazionale, in particolare per quanto riguarda il nuovo sistema degli inquadramenti, dei ruoli e dei percorsi professionali.
L’utilizzo di parole grosse e l’enfasi con cui viene esaltato l’accordo non deve distrarci da quello che è consigliabile e doveroso fare in questi casi: l’attenta disamina del merito del contenuti e del percorso che ne ha segnato la conclusione. Su questo specifico punto non si può tacere della totale mancanza di rispetto di qualunque elementare regola democratica: la trattativa si è svolta integralmente su iniziativa aziendale, non c’è mai stata una piattaforma sindacale, meno che mai discussa, condivisa o votata dai lavoratori.
I sindacati trattanti hanno agito privi di qualsiasi mandato, dall’inizio alla fine della trattativa. Il nuovo modello di servizio, varato dall’azienda in modo unilaterale (come già era accaduto per l’applicazione degli orari estesi), con il radicale azzeramento del sistema contrattuale degli inquadramenti precedenti, ha così trovato la sua validazione sostanziale e formale, lasciando sul terreno molte macerie.
Ma andiamo con ordine e proviamo a vedere le varie parti dell’accordo (i testi degli accordi sono disponibili cliccando qui). L’azienda ha ottenuto il varo della nuova struttura degli inquadramenti, dei ruoli e dei percorsi professionali. Dopo avere sospeso, nel 2012, il precedente accordo di armonizzazione del 2009, l’azienda ha contribuito attivamente a scrivere la contro-piattaforma ABI del 2013, che poneva l’elevato livello medio degli inquadramenti nel settore come causa primaria dell’eccessivo costo del lavoro. Come si ricorderà, nel CCNL 2015 si è stabilito di aprire un cantiere di lavoro a livello nazionale per rivedere gli inquadramenti; nello stesso tempo si apriva alla possibilità di fare accordi aziendali che anticipassero le conclusioni nazionali. Quello in ISP è quindi un accordo che segnerà la linea in tutto il settore ed ha come principale obiettivo quello di dare validazione al nuovo modello di servizio, che ha destrutturato, al di fuori delle norme contrattuali vigenti, tutto l’impianto preesistente.
Anziché riconoscere la professionalità dei lavoratori, come strombazzato dall’accordo, ci sembra più appropriato parlare di vera mortificazione: il nuovo modello di servizio ha distribuito le figure e le competenze professionali in filiere separate, ma ha imposto ad ogni ruolo cosi ricostruito una complessità di mansioni e di competenze richieste molto superiore a prima. Il lavoro è diventato più penoso e complesso, ma con il nuovo accordo l’azienda riesce a pagarlo di meno, con una struttura degli inquadramenti posizionata a livelli molto inferiori a prima.
Scompare la distinzione tra gestori retail, personal e small business: le uniche differenze saranno dettate dalla complessità dei portafogli, tarate su criteri e pesi del tutto opachi e unilaterali. Lo stesso vale per il ruolo di direttori e coordinatori, che non avranno più diritto ad un inquadramento corrispondente alla mansione, ma si vedranno riconosciuta un’indennità di ruolo (correlata ad un inquadramento minimo) che potrà essere revocata e/o modificata in caso di assegnazione ad altro ruolo. Questa indennità si consoliderà solo dopo 24 mesi ed al verificarsi di determinate condizioni: solo in casi molto rari e selettivi sarà possibile godere di un consolidamento anticipato. Vale la pena ricordare che l’indennità non rientra nella base di calcolo del TFR.
I criteri che presiedono alla classificazione di filiali e portafogli sui diversi livelli di complessità sono estremamente aleatori e poco trasparenti: si consegna all’azienda un forte potere discrezionale che sarà utilizzato per perseguire consistenti risparmi di costi. Nell’immediato saranno pochissimi i fortunati che si vedranno riconosciuti vantaggi effettivi, mentre la gran parte del personale scoprirà di essere sovra-inquadrato rispetto al ruolo che ricopre e quindi destinato a subire molti “assorbimenti” di miglioramenti futuri. In tendenza la struttura dei costi, legati ai livelli, sarà enormemente più “risparmiosa” rispetto alla struttura precedente, consentendo all’azienda quel salto decisivo (verso il basso) che non era riuscita ad ottenere neanche nell’ultimo CCNL.
E’ partito sempre da esigenze aziendali il percorso concordato per arrivare alla fusione dei Fondi Pensione del Gruppo, tema su cui abbiamo chiamato i lavoratori alla massima vigilanza. A differenza di quando accaduto per il Fondo sanitario, il processo rispetterà le norme regolamentari (svolgimento dei referendum ove previsti), nonché i diritti pregressi di tutti i lavoratori interessati. Anche in questo caso i vantaggi sono solo a favore dell’azienda che continuerà a sostenere gli oneri relativi al personale, ai locali e alle spese amministrative, ma non più quelli relativi a consulenze finanziarie e spese legali. Ancora una volta si è persa l’occasione di recuperare su un terreno, quello della previdenza complementare, già duramente penalizzato a livello generale con la contrazione della base imponibile. I pochi miglioramenti, quale l’aumento della percentuale di contribuzione aziendale minima per i più giovani, non sono certo sufficienti a giustificare un’operazione che consentirà sensibili risparmi all’Azienda. D’altronde senza una posizione forte a favore di un referendum degli aderenti anche nei fondi che non lo prevedono espressamente (la fusione non è un aspetto solitamente normato) è ovvio che la controparte non ha alcuna necessità di mettere qualcosa sul (nostro) piatto della bilancia … Sarà ovviamente cura dei consiglieri della CUB- SALLCA eletti dai lavoratori seguire con grande attenzione l’attuazione del percorso, garantendo trasparenza e correttezza nelle decisioni da assumere di volta in volta.
Novità interessanti sono racchiuse nell’accordo sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Adeguandosi a previsioni di legge e arricchendo di molto il menù, viene introdotta la “Banca del Tempo” con dotazione aziendale di 50.000 ore e incremento previsto in base alle donazioni dei colleghi, per aiutare dipendenti in particolare situazione di difficoltà personale e familiare (che potranno avere fino a 15 giorni l’anno di permessi retribuiti, una volta finite ferie e banca ore). Analogamente viene ripetuta la sospensione volontaria dell’attività lavorativa, fino a 15 giorni l’anno, retribuiti e coperti al 35% a carico dell’azienda. Viene introdotto un plafond di 12 gg /anno per consentire ai lavoratori affetti da gravi patologie di prendere permessi retribuiti utilizzabili per visite mediche specialistiche. Apprezzabili tutte le norme che rafforzano la tutela della maternità e della paternità, nonché la facoltà di poter frazionare tre giorni di ferie in permessi della durata minima di 15 minuti.
Sul conguaglio del VAP è stata acquisita una cifra accettabile per quanto riguarda gli importi erogati a chi è sotto i 35.000 euro lordi di RAL (700 euro di premio sociale oppure 600 euro in contanti). Non è così per chi supera quel livello di RAL, perché 460 euro di premio sociale o 395 euro in contanti rappresentano una cifra oggettivamente troppo modesta per essere ritenuta adeguata all’impegno e alla produttività espressa dai lavoratori interessati. Garantire un maggior recupero salariale ai giovani sotto-inquadrati ha un senso, farne pagare il costo agli altri lavoratori decisamente meno.
Sul premio variabile di risultato l’azienda accoglie la richiesta dei sindacati firmatari che già dal disgraziato CCNL 2012 premevano per unificare VAP e sistema incentivante. L’illusione di poter così recuperare spazi di discrezionalità in mano all’azienda ci sembra però svanire ai primi vagiti della neonata creatura. Il PVR sarà una percentuale del valore di budget del “Risultato corrente al lordo delle imposte” del Gruppo, ma sarà l’azienda, come è ovvio, a stabilire il budget e quindi determinare le condizioni per l’erogazione. La sua suddivisione in tre distinte quote (base, aggiuntivo, eccellenza) fa sì che venga destinata alla quota base solo il 30% della cifra disponibile (con un importo indicativo di 355 euro lordi o 455 euro lordi a seconda della RAL). Se il budget non viene raggiunto, ma il risultato corrente è positivo, ai lavoratori va l’80% di questa misera quota base (e questa resta l’unica quota in qualche modo “garantita”, sempre a patto che un utile ci sia). Per il resto il 45% del bonus viene destinato alla quota aggiuntiva, ma dipende dai risultato della Divisione (torna la logica dei “cancelletti”). Il 25% va invece a premiare l’eccellenza di chi supera in media i “concorrenti”, con una logica fortemente selettiva, ed un moltiplicatore importante che agisce come leva per fare decollare la somma di quota base e quota aggiuntiva fino a 4,5 volte per i lavoratori di ”supporto”, fino a 6 volte per i gestori e fino a 8 volte per i coordinatori. Si potrebbe dire che “è qui la festa”, ma noi, che siamo ideologicamente contrari ai sistemi incentivanti (e lo diciamo senza giri di parole), continuiamo a pensare che questo contrasti con qualunque regola deontologica e professionale (soprattutto nel nostro settore) e quindi siamo contrari. Dopo anni di guasti e di effetti perversi causati dalla presenza di sistemi incentivanti che hanno avvelenato il clima aziendale, accresciuto la competizione interna e spesso scatenato conflitti deleteri e comportamenti sbagliati, bisognava dire basta. Invece si è data legittimità alle scelte aziendali, varando un sistema che non si discosta per nulla da quelli precedenti, per farraginosità, opacità, utilizzo di parametri oscuri e termini incomprensibili.
Strettamente connesso al punto precedente è l’accordo sulle politiche commerciali e clima aziendale, che altro non è che la risposta che era necessario fornire sul terreno delle pressioni commerciali, un tema prima latente, ma che è esploso come una vera e propria emergenza drammatica con banca estesa e nuovo modello di servizio. Lo dimostra il livello di utilizzo diffuso di psico-farmaci e ansiolitici, in una rete investita da richieste di dati su obiettivi impossibili, in un contesto di mercato ormai sfavorevole alle performance strabilianti che i nostri manager pretendono a prescindere. Una volta sfrondato il testo dell’Accordo dalla retorica grondante che si autocelebra, citando deontologia, etica, professionalità, dignità del personale, soddisfazione della clientela, spirito di squadra e collaborazione tra i colleghi, resta ben poco di “esigibile” sul piano concreto.
L’accordo indica la necessità di azioni positive nei comportamenti da adottare, nella reportistica richiesta e nella formazione dei responsabili, ma elude i nodi fondamentali della problematica: la definizione di un piano industriale, declinato in budget annuali, incompatibile con la situazione di crisi del nostro paese; l’assegnazione alla rete di obiettivi irrealistici; l’adozione di politiche commerciali che spingono a vendere alla nostra clientela prodotti che sono al limite rispetto al profilo di rischio effettivo; l’utilizzo di un metodo che include controlli invasivi della prestazione lavorativa; il ricorso a pressioni personali che non escludono minacce di ritorsioni e toni ricattatori.
Di fronte a tutto questo si “conquista” solo il diritto alla ”segnalazione di comportamenti ritenuti non coerenti”, come se tutto dipendesse solo da qualche responsabile particolarmente scatenato nel voler fare il primo della classe, oppure incapace di gestire il personale con criteri manageriali corretti. Il modulo di segnalazione da inoltrare al Comitato Welfare andrà utilizzato senza indugio e in misura massiccia per colpire i singoli personaggi che sistematicamente utilizzano mezzi e strumenti insopportabili per mettersi in luce, sulla pelle degli altri, ma non è certo la soluzione strutturale ad un degrado che, da tempo, ha superato il livello di guardia, nella più totale latitanza della direzione aziendale. Il problema va affrontato con ben altra determinazione, se non vogliamo finire tutti in terapia psichiatrica.
Ci troviamo quindi di fronte ad un accordo che globalmente va valutato in modo negativo: le modeste concessioni “d’immagine” sul terreno della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, l’accettabile compromesso sulla fusione dei Fondi pensione, la condivisibile scelta di premiare con il conguaglio del VAP i livelli inferiori, vengono duramente controbilanciate dai deludenti capitoli relativi a premio variabile di risultato, politiche commerciali e ruoli professionali.
Sul terreno delle cose che contano, l’azienda riesce a vincere: circoscrive i danni sul piano delle pressioni commerciali, legittima un sistema incentivante che gli consegna forte discrezionalità, applica un sistema di inquadramenti congeniale al nuovo modello, che riduce al minimo i costi fissi e introduce forti elementi variabili legati alle prestazioni e quindi alla revocabilità delle indennità. Un esito ben diverso da quanto era lecito attendersi da una trattativa che segnava il primo contratto di secondo livello nel principale gruppo bancario del Paese.
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