GRUPPO CARIGE, DOVE VAI?
La recente lettera della BCE, che richiede a Carige un nuovo piano industriale ed una nuova svalutazione dei crediti, impone una riflessione che vada oltre i limiti solitamente imposti dal pensiero dominante.
Le cause della crisi del gruppo sono abbastanza note: una gestione a dir poco incauta (se ci saranno poi risvolti penali lo stabilirà la magistratura) del gruppo dirigente raccolto attorno a Berneschi, fondata sul sottobosco di poteri forti locali e con l’aggiunta del disastroso tentativo di allargare il raggio d’azione della banca con acquisti di sportelli, poco prima della crisi finanziaria del 2008, a prezzi esorbitanti.
A seguito delle indicazioni della BCE ufficializzate a inizio marzo, la Banca ha dovuto svalutare integralmente l’avviamento residuo, pari a circa 57 milioni di euro. Questo ha comportato la rilevazione di una perdita netta per l’esercizio 2015 pari 101,7 milioni di euro anziché di 44,6 milioni (comunicati al mercato in data 11 febbraio 2015).
Dopo il cambio del gruppo dirigente (o almeno con l’avvicendamento sul ponte di comando, con l’allontanamento di Berneschi e l’ingresso come socio “forte” dell’imprenditore Malacalza) si è continuato a navigare a vista, con un contesto nazionale ed internazionale che non ha certamente favorito i tentativi di rimettersi in carreggiata.
Le difficoltà di Carige, come quelle di altre banche oggi al centro delle cronache, richiedono una svolta radicale nella gestione del sistema bancario.
Dubitiamo che questa potrà venire dal nuovo Consiglio di Amministrazione che, probabilmente, sarà nominato il 31 marzo 2016 e, immaginiamo, imporrà ricette conosciute come esternalizzazioni, ulteriori tagli del costo del lavoro, aumento delle pressioni commerciali, riduzione dei giorni e/o delle ore lavorate. Teniamo conto che il Gruppo ha appena utilizzato il Fondo Esuberi e che è stata aperta la strada a contrattazioni individuali finalizzate a nuove uscite anticipate. E’ necessario opporsi al continuo peggioramento delle condizioni normative, va respinta la logica del meno peggio che, arretramento dopo arretramento, rischia di far arrivare anche ai licenziamenti.
Come abbiamo argomentato anche per il caso Monte Paschi, per dare davvero una svolta, è necessario procedere alla nazionalizzazione delle banche più in difficoltà. Quello che proponiamo, però, non è la consueta pubblicizzazione delle perdite, cioè il mettere a carico della collettività i costi delle malefatte dei banchieri privati. La nazionalizzazione, nella nostra visione, deve essere accompagnata da un nuovo modello di banca, tema che era al centro del rinnovo contrattuale di settore e che è stato eluso nella conclusione delle trattative.
Serve una banca che torni a fare la banca, che sia strumento di tutela dei risparmi dei cittadini e di impulso all’economia locale e alle piccole e medie imprese del territorio. Quando diciamo questo non intendiamo certo il ritorno alle pratiche della vecchia gestione, a quella commistione di interessi tra potere politico e potere economico ligure che tanti danni ha prodotto alla banca. Fare banca significa avere un gruppo dirigente di manager non provenienti da società di consulenza, che conoscano davvero il lavoro del settore, che sappiano valorizzare le professionalità e le capacità interne.
Il nuovo modello di banca richiede anche un nuovo modello di sindacato: quello che ha chiuso gli occhi sulle malefatte dei vertici, sperando che alla fine qualche briciola potesse arrivare comunque ai lavoratori, ha fatto il suo tempo. Un sindacato critico e conflittuale, che sappia contrastare le politiche dei vertici aziendali quando sono sbagliate e contrarie agli interessi dei lavoratori, non può che fare bene, oltre ai lavoratori, alla banca stessa.
Naturalmente una proposta come quella che avanziamo non è facile da realizzare. Però è una parola d’ordine su cui si può tentare di mobilitare i lavoratori ed anche la clientela, sensibilizzare l’opinione pubblica, smuovere una dirigenza politica troppo attenta a garantire l’impunità dell’alta dirigenza bancaria che gli interessi collettivi.
Anche la banca può diventare un “bene comune”.
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