BANCA POPOLARE DI BARI: UN PIANO DI SOPRAVVIVENZA DOPO IL DISASTRO.
Si è finalmente voltato pagina nel percorso di salvataggio della Banca Popolare di Bari.
Ancora una volta dopo il fallimento “privato” di una Banca Popolare, gestita da 60 anni dalla stessa famiglia, successione dinastica compresa, con perdite pari a 1,144 miliardi di euro, deve intervenire il sistema bancario, nel suo complesso, ed il settore pubblico, in via prevalente, per evitare il baratro.
La messa in sicurezza dipendeva dall’adesione dei 70.000 soci, che dovranno rassegnarsi a recuperare le briciole.
I lavoratori pagano errori e reati altrui, con un accordo sindacale che produce 650 esuberi e 91 filiali da chiudere.
Oltre ai tradizionali strumenti utilizzati in tali casi (esodi ed incentivi al prepensionamento), qui ci sono rilevanti novità, ovviamente peggiorative, data la situazione.
Si incentivano i lavoratori a licenziarsi di propria iniziativa, si riduce l’orario di lavoro (ma anche le paghe…), si trasformano rapporti di lavoro a tempo pieno in rapporti a tempo parziale, si avviano trasferimenti passivi pesanti, più tutta una serie di misure che realizzeranno, nel complesso, risparmi per 67 milioni di euro.
Mentre la magistratura prosegue il suo corso, resta da spiegare come l’assenza di una seria vigilanza istituzionale e la latitanza di uno stringente controllo sindacale, abbiano potuto produrre un simile disastro, dove i lavoratori devono accettare condizioni capestro, sotto il ricatto occupazionale.
Buona lettura.
Banca Popolare di Bari.
Un piano di sopravvivenza dopo il disastro.
I soci della Banca Popolare di Bari hanno approvato nell’assemblea del 30 giugno, la trasformazione della banca in Spa e la consegna del controllo societario a Medio Credito Centrale e Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, i due soggetti che ricapitalizzando la banca per un totale di 1,6 miliardi di euro, la possono salvare dal fallimento e metterla in sicurezza.
Per i soci che avevano partecipato agli aumenti di capitale 2014-2015 la perdita quasi totale del capitale investito sarà compensata, in misura molto parziale, dall’indennizzo transattivo di 2,38 euro ad azione (valevano 9,50 euro nei tempi andati…) e dalla attribuzione di un warrant, a valere su una ipotetica e futura ripresa dei corsi delle azioni. Perché la delibera di salvataggio fosse valida, doveva votare a favore il 50% dei soci, rappresentanti almeno il 60% del capitale sociale. Come già per Carige nello scorso settembre, ci sono stati dubbi ed incognite fino al voto finale, ultima spiaggia per prevenire un fallimento totale: il sì ha vinto con il 97% dei votanti.
Propedeutico all’esito positivo della vicenda, doveva esserci l’accordo con i sindacati, per tagliare i costi e realizzare i necessari risparmi, su costo del lavoro ed altri costi operativi: condizione essenziale posta dai Commissari, dall’esecutivo e dai vertici di Bankitalia per finanziare il salvataggio. E l’accordo è arrivato nei tempi e nei termini previsti, come avremo modo di vedere.
Ma prima di arrivarci, converrà fare un po’ di storia, per ricostruire il percorso che ha portato all’ennesimo clamoroso fallimento in campo bancario, con un costo per il bilancio dello stato che è salito ormai, a conti fatti dopo tutti i salvataggi realizzati, ben oltre i 10 miliardi di euro. Risorse che avrebbero potuto essere impiegate diversamente; senza contare le decine di miliardi perdute dai risparmiatori, il più delle volte del tutto incolpevoli.
Fondata nel 1960, cresciuta in modo esponenziale a partire da inizio anni ’90, controllata da sempre dalla famiglia Jacobini, gestita per periodi alterni anche da Vincenzo De Bustis (ex. d.g. del MPS e presenza costante nei crack bancari più noti), la Banca Popolare di Bari ha commesso alcuni errori che sono poi risultati fatali. Tra essi gli acquisti a caro prezzo di 43 sportelli ISP nel 2007 e le 43 filiali di C.R. Orvieto nel 2008, seguiti dalla rovinosa acquisizione della Tercas (che controllava Caripe) nel 2014, dietro autorizzazione di Banca d’Italia e con il sostegno del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, che intervenne con 330 miliardi di euro, fondi in seguito censurati dalla Commissione Europea come aiuti di stato in violazione della normativa Antitrust: l’inizio della fine.
Un’indagine partita nel 2017 in seguito ad una denuncia di un dipendente (ora si direbbe un whistleblower) porta allo scoperto le false informazioni sociali fornite nei prospetti per gli aumenti di capitale del 2014 e del 2015. I vertici vengono sanzionati pesantemente e si comincia a fare luce sui veri conti della banca. Il bilancio 2018 chiude con 420 milioni di perdite e la crisi è ormai conclamata.
In questo susseguirsi di azioni concitate, per dissimulare il reale stato di salute della banca, non si può tacere del ruolo a dir poco imbarazzante dei sindacati trattanti. Almeno due episodi meritano di essere citati.
Nelle 400 pagine dell’ordinanza del GIP del Tribunale di Bari per il rinvio a giudizio dei vertici della banca per falso in bilancio si legge, precisamente a pag. 371 e seguenti, l’intercettazione tra due dirigenti aziendali a proposito dell’accordo del 2017 per i 514 esuberi della C.R. Orvieto e si legge testualmente, a proposito di un’opera di persuasione della BPB nei confronti dei sindacati: “”in guerra come in guerra… si è comprato i sindacati... non si possono comprare pure l’anima e l’affetto (sembra dire) di tutti quanti mo’ vedremo…”. Poi tra i 9 esponenti aziendali rinviati a giudizio non ci sono sindacalisti, quindi non risulta emerso nulla di penalmente rilevante, ma certo il contenuto del discorso finito nell’inchiesta apre forti dubbi sull’indipendenza dei rappresentanti dei lavoratori.
L’altro episodio è meno generico ed esplicitamente targato Fabi, come riporta la cronaca locale: ”A questo proposito c’è il caso di Carmine Iandolo, iscritto alla Fabi dal 2016 (prima era in Fisac, n.d.r), fino a pochi mesi fa responsabile dell’Organo di coordinamento del gruppo Bpb e Cari Orvieto. In un congresso sindacale del 2017 Iandolo dichiarò che la Popolare “è gestita magistralmente dal nostro grande presidente Marco Jacobini con la collaborazione dei suoi figli“. L’affermazione pare abbia lasciato basito lo stesso Segretario Generale Lando Maria Sileoni, che era presente, e che a frittata ormai fatta ha dovuto ammettere che ” La banca non aveva gli anticorpi. Anche i sindacati di Bari hanno la responsabilità di non aver saputo quello che stava accadendo”. Peraltro non la sola Fabi aveva un atteggiamento condiscendente verso il vertice della BPB, se è vero quanto afferma lo stesso Sileoni: “Aggiungo però una cosa che mi è stata riferita da alcuni colleghi: fino ad alcuni anni fa quando le persone venivano assunte in banca, insieme alla lettera di assunzione gli veniva presentata la tessera di due organizzazioni sindacali. Fra queste non c’era la tessera della Fabi”.
In ogni caso il degrado dei conti della Banca porta al Commissariamento da parte della Banca d’Italia in data 13.12.2019 e poi all’arresto di Marco e Gianluca Jacobini nel gennaio 2020, dopo un ultimo tentativo di distrazione di fondi per milioni di euro, dai conti della banca a favore di conti personali. Il 16 luglio 2020, presso il Tribunale di Bari, partirà il processo penale nei loro confronti, rispettivamente ex presidente ed ex condirettore della Banca Popolare di Bari, accusati di 14 capi d’imputazione tra cui i reati di falso in bilancio, falso in prospetto e false comunicazioni.
Per quanto riguarda i lavoratori, come dicevamo, si è aperta la procedura di confronto che ha portato all’accordo sindacale lo scorso 10 giugno. La gravità della crisi ha prodotto un accordo che chiude 91 filiali (su circa 350) e riduce i costi di circa 67 milioni di euro, portando l’individuazione degli esuberi dai 900 inizialmente richiesti dalla banca ai 650 definiti dall’accordo. Ampia, innovativa e in alcuni casi anche peggiorativa è la gamma degli strumenti utilizzati o utilizzabili. Visto che nel settore tutto rappresenta un “precedente”, sarà bene analizzare nel dettaglio le novità, che potranno essere copiate, in futuro, in situazioni analoghe.
I lavoratori che possono andare in pensione entro il 2021 con “quota 100” avranno un incentivo che va da due ad otto mensilità nette, in relazione ai mesi di anticipo rispetto alla finestra ordinaria.
Le colleghe che accetteranno di andare in pensione con “opzione donna” avranno un incentivo pari a nove mensilità nette.
Avranno la possibilità di andare in esodo con il Fondo di Solidarietà tutti i lavoratori e le lavoratrici che matureranno il diritto alla pensione entro il 31.12.2029. Possono presentare richiesta anche i lavoratori che intendono avvalersi del riscatto degli anni di laurea e che maturerebbero i requisiti nel 2030 e 2031 (il costo del riscatto sarebbe a carico del Fondo).
Le tempistiche di uscita avverranno, con modalità diverse, tra il 30.09.2020 ed il 31.12.2024. I lavoratori che maturano il trattamento di pensione entro il 31.12.2027 cesseranno dal servizio gradualmente, in modo da permanere nel Fondo per 36 mesi. I lavoratori che matureranno il trattamento tra il 31.12.2027 ed il 31.12.2029 usciranno non più tardi del 31.12.2024 (in questi casi si potrà restare nel Fondo per periodi maggiori, fino a 60 mesi).
Qui c’è la prima importante novità: chi sta nel Fondo per più di 36 mesi vedrà dal 1.1.2022 trasformarsi il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, con orario non superiore al 70%. Rientrerà a tempo pieno solo nel mese precedente l’accesso al Fondo.
Inoltre, ed è una seconda novità, i lavoratori che aderiscono alle tre opzioni (quota 100, opzione donna, esodo), assegnati a filiali in chiusura e passibili di trasferimento oltre i 70 km, potranno richiedere di essere collocati in aspettativa parzialmente retribuita al 60% per il periodo che va dalla chiusura della filiale alla data di cessazione del rapporto di lavoro.
Sia per gli uni che per gli altri (cioè chi passa al part-time con il 70% e chi va in aspettativa pagata al 60% della retribuzione) l’azienda verserà a previdenza complementare aggiuntiva il 10% della differenza netta, cioè della perdita retributiva subita.
Una terza importante novità rappresenta la previsione, per chi NON ha i requisiti per accedere né al Fondo di Solidarietà né al trattamento pensionistico, di risolvere il proprio rapporto di lavoro (cioè di licenziarsi) per accedere alla parte emergenziale del Fondo. In questo caso, come sappiamo, il Fondo prevede un’integrazione al trattamento ASPI differenziato (fino all’80% – 70% – 60% dell’ultima retribuzione, in base alla fascia di reddito). Questo trattamento ha una durata di 24 mesi totali. E’ previsto poi un periodo di 12 mesi in cui l’azienda fornisce un servizio di “outplacement” (sostegno alla ricerca di un nuovo lavoro, anche attraverso corsi di riqualificazione), secondo quanto previsto dal Regolamento del Fondo.
Ai lavoratori che accettano questa soluzione viene offerto un incentivo pari a 12 mensilità nette.
Sono previste poi ulteriori misure tese a ridurre i costi.
La principale rappresenta un vero “contratto di solidarietà”, inteso come meno orario e meno salario. Fino al 31.12.2024 l’orario di lavoro viene ridotto per tutti a 35 ore settimanali con corrispondente riproporzionamento della retribuzione rispetto all’orario settimanale di lavoro di 37,5 ore. La riduzione può essere distribuita su base settimanale (7 ore al giorno di lavoro), oppure cumulata in giornate intere mantenendo in questo caso immutato l’orario giornaliero di 7,5 ore (e cumulando 2,5 ore di riduzione per ogni settimana di effettivo servizio).
E’ previsto fino al 2024 un contributo di solidarietà per tutti coloro che hanno percepito nell’anno precedente una RAL superiore alla retribuzione tabellare prevista dai CCNL per il relativo inquadramento. La percentuale del contributo varia dal 5% al 20% in proporzione all’entità della quota eccedente.
Sempre nell’arco di validità del piano, cioè fino al 31/12/2024:
- È sospesa l’erogazione del premio di rendimento eccedente lo standard di settore;
- Il contributo aziendale a previdenza complementare non può superare il 2%;
- Il Tfr per i dirigenti è calcolato su una base imponibile circoscritta allo stipendio ed eventuale ad personam.
- Non verrà consentito lavoro straordinario e quello eccezionalmente autorizzato confluirà in banca delle ore.
In conclusione possiamo dire di essere in presenza di un accordo figlio dei tempi e della situazione estremamente deteriorata della banca.
L’azienda cercherà entro la fine del 2020 di vendere le 94 filiali indicate come possibile oggetto di chiusura, ma qualora non riuscisse a trovare compratori interessati, procederà alla chiusura di 91 sportelli, con potenziali e pesanti ricadute in termini di mobilità del personale. Il trattamento di mobilità giornaliera è limitato ad una distanza superiore ai 30 km e ad una durata di 36 mesi.
Resta come interrogativo come si sia potuto arrivare fino a questo punto senza che nessuno sia intervenuto per prevenire la catastrofe o porre rimedio ad uno stato d’avanzata decomposizione quando i dati hanno iniziato ad essere noti.
A perdere sono le finanze pubbliche (perché nessun privato si è azzardato a rischiare un euro per salvare il salvabile), l’economia del meridione in generale (dove la presenza di soggetti creditizi si fa sempre più labile) ed i lavoratori (che devono contribuire pesantemente in termini di posti di lavoro e di taglio allo stipendio).
Come sempre si interviene quando i buoi sono scappati, fino al prossimo giro di giostra…
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni
questo post è stato letto1612volte
Devi accedere per postare un commento.