Archivio Carige
Nelle scorse settimane si è finalmente risolta la lunga peripezia di Banca Carige, che ha trovato come acquirente la Banca Popolare dell’Emilia Romagna.
Dopo la fallimentare gestione Berneschi e gli infruttuosi tentativi di salvataggio (e sciacallaggio) privati, era intervenuto il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (vale a dire il consorzio delle altre banche) per traghettare la banca verso nuovi lidi.
Ora l’azienda entra a far parte di un Gruppo che aspira alla quarta posizione in Italia, con la velata ambizione di salire prima o poi sul podio, come terzo gruppo.
Sia per i lavoratori della banca acquisita, che per quelli della banca acquirente, con la fusione si rischia di non vedere cambiare nulla, anzi di subire nuove pressioni per recuperare masse, volumi, redditività.
Nell’allegato il nostro commento alla vicenda.
CUB-SALLCA Credito ed Assicurazioni
Dopo il commissariamento da parte della BCE a inizio anno, il salvataggio da parte del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi e l’assemblea di settembre che ha approvato l’ingresso come nuovo socio di riferimento di Cassa Centrale Banca, è pronto a partire l’aumento di capitale da 900 milioni di euro per mettere definitivamente in sicurezza CARIGE.
Prima però di metterci i soldi, i nuovi soci vogliono garanzie sulla ripresa di redditività e sul ritorno degli investimenti. E’ l’ora di tagliare i costi in modo strutturale e si parte sempre dai lavoratori, come già è stato in questi sette anni di disgrazie e tribolazioni. L’accordo siglato in data 20.11.2019 taglia altri 680 posti di lavoro e ricalca le orme di altri casi simili, chiudendo decine di filiali. Come sempre accade in queste situazioni, i lavoratori con i requisiti si precipitano “volontariamente” verso l’esodo, mentre la sorte che attende i lavoratori che restano è tutt’altro che invidiabile.
I nuovi padroni chiederanno risultati strabilianti per recuperare il capitale investito e le pressioni sui dipendenti saliranno ulteriormente: vietato lamentarsi perché già si deve essere contenti per aver salvato il posto di lavoro!
Alleghiamo un commento all’accordo scritto da chi lavora in Carige e una scheda tecnica di sintesi che può essere utile ai lavoratori che hanno diritto all’uscita. Invitiamo comunque gli interessati a leggere attentamente l’accordo nei dettagli e contattarci in caso di necessità.
CUB-SALLCA Gruppo Carige
SULLA VICENDA CARIGE, RITENIAMO UTILE PUBBLICARE UN CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE DI CLAUDIO BETTARELLO, DEL DIRETTIVO NAZIONALE DELLA CUB-SALLCA.
In questi giorni, attorno alla vicenda Carige si sta alzando un gran polverone.
Sembra quasi che il punto principale, certo quello che appassiona di più, sia la misura del grado di continuità tra i provvedimenti annunciati dal governo gialloverde e quelli messi in campo dai precedenti esecutivi di centrosinistra.
I commentatori economici mainstream ironizzano perché la furia iconoclasta dei grillini nei confronti dei banchieri si sarebbe rivelata l’ennesima eresia a scadenza elettorale; il PD, attraverso il ghigno di Renzi, chiede addirittura le scuse ufficiali; il governo (ed i 5stelle in particolare) provano a fare spallucce sparando la solita bordata di frasi ad effetto. Del resto, quando si costruiscono spettacolari fortune politiche in un certo modo è davvero difficile non pensare che, appena possibile, gli avversari ti rendano pan per focaccia.
Ma anche “a sinistra” siamo messi piuttosto male se si osservano i commenti e gli slogan che sui social ricevono i maggiori consensi. Naturalmente è del tutto comprensibile la voglia di mettere alla berlina un governo complessivamente indecoroso e democraticamente pericoloso ma per questo forse sarebbe sufficiente la fulminante ironia del post “Comunque vi avevamo chiesto di salvare una barca. Una baRca, con la R.”
La mia opinione è che oggi (ripeto oggi) sia del tutto prematuro esprimere un giudizio ponderato sulla politica bancaria del nuovo Governo (ricordiamoci che siamo di fronte a pallisti seriali di nuova generazione) e ancor di più valutare se le modalità di intervento in Carige segnino una continuità non solo formale ma sostanziale con le politiche a guida PD. Nel merito siamo ancora in una fase interlocutoria e, comunque, tra le due esperienze esistono vistose asimmetrie che rendono difficile istruire un paragone.
Il centrosinistra, come noto, porta sulle proprie spalle la maggior parte della responsabilità politica e storica per quello che è oggi il sistema bancario italiano.
Sin dagli inizi degli anni novanta è stato l’alfiere dei processi di integrale ed affrettata privatizzazione del settore, il sostenitore convinto di tutte le direttive europee in materia (che certo non hanno avuto un impatto neutro sui diversi sistemi nazionali), il difensore interessato delle autorità di controllo spesso distratte e talvolta colluse. Tra i banchieri ha sempre annoverato moltissimi amici e se ne è sempre ricordato.
Per limitarci ad analizzare un pochino più approfonditamente la fase nella quale tuttora ci troviamo (quella apertasi nel 2015 quando l’onda lunga della crisi globale del 2008-09 e le conseguenze delle politiche austeritarie europee iniziano a colpire pesantemente il sistema bancario italiano) i governi Renzi-Gentiloni si sono trovati ad affrontare un’impressionante serie di crisi aziendali oltre tutto all’interno di un contesto sistemico di elevata fragilità.
Lo hanno fatto accumulando molti errori di valutazione e gravi ritardi e cercando di utilizzare, alternativamente o in collegamento, tutti gli strumenti a loro disposizione in un quadro di regole europee che non si voleva (poteva) mettere in discussione.
A fine 2015 si comincia con la “risoluzione” di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara attraverso una complessa operazione che prevedeva anche il recepimento accelerato ed improvviso, nel nostro paese, della normativa sul bail-in. La scelta si rivela disastrosa soprattutto per il crollo di fiducia che determina nei confronti dell’intero sistema creditizio e che colpisce prioritariamente, aggravandone la situazione, le banche già più deboli.
Nei mesi successivi, sempre cercando soluzioni più o meno “di mercato”, si creano originali strumenti di sistema (basati su capitali privati) ma si impiegano anche fiumi di risorse pubbliche per provare a stabilizzare (invano) la situazione di Popolare Vicenza, Veneto Banca e, soprattutto, Monte dei Paschi.
Alla fine per le due banche venete arriva il “cavaliere bianco” (Intesa Sanpaolo) che, in cambio di garanzie e lauti finanziamenti, ne rileva solo le parti sane. Un’operazione da manuale in materia di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti.
E apro una breve parentesi per sottolineare come in tutti questi casi (più in altri minori) nessuna delle banche “in crisi” sia stata effettivamente “salvata”: in poco tempo di loro non è restata traccia alcuna. Si dovrebbe parlare semmai di “liquidazione ordinata”. E anche per quanto concerne i posti di lavoro (ma non c’è tempo per parlarne in questa sede) è tutta da fare una valutazione obbiettiva sulla percentuale di quelli effettivamente salvaguardati.
Tornando alla cronaca, l’ultima partita (quella più rilevante e anche più dolorosa visto che si gioca più che mai “in casa” del centrosinistra) si chiude, dopo molti ritardi, con l’intervento pubblico diretto e la conseguente nazionalizzazione (e salvataggio) del Monte dei Paschi; una conclusione però che arriva più “per contrarietà” che per convinzione e senza alcuna volontà politica di sperimentare una gestione “diversa”.
Come ho già detto in passato “Finché il ruolo del Pubblico rimane emergenziale e sussidiario poco cambia, a ben vedere, nel cedere subito ad Intesa il cuore sano delle due banche venete o farlo tra dieci anni per quello di MPS a vantaggio di qualche fondo d’investimento internazionale o di qualche banca cinese (tanto per dire).”
A differenza di questa lunga (e chiarissima) storia, il governo gialloverde si trova invece a dover affrontare la sua prima crisi bancaria ed a doverlo fare in un contesto che presenta anche una significativa novità.
Carige è infatti la prima banca italiana a manifestare gravi difficoltà gestionali dopo essere passata sotto la sorveglianza diretta della BCE in base ai meccanismi previsti dall’Unione Bancaria. Non appena ne ha avuto l’occasione, la vigilanza europea si è mossa con tempestività commissariandola ma, nel contempo, confermando sul ponte di comando i due principali manager da tempo alla ricerca di “soluzioni di mercato”. Una chiara “indicazione” al governo italiano di quale fosse la direzione da intraprendere e l’urgenza del farlo.
Da questo punto di vista, al di là delle facili ironie, il fatto che ci siano voluti solo pochi minuti per approvare il decreto “salvacarige” non mi sembra certo un fatto negativo visto che mai come in questi casi il tempo è davvero denaro.
Le caratteristiche del provvedimento sono ormai note ed è inutile tornarci sopra nel dettaglio. Emerge abbastanza chiaramente la volontà di preannunciare la possibile messa in campo di una pluralità di strumenti e di significative risorse finanziarie con la finalità di stabilizzare la situazione della banca nel breve periodo frenando, per quanto possibile, la fuga dei depositi.
Se a ciò si aggiunge la disponibilità di SGA a rilevare un significativo pacchetto di crediti deteriorati e l’impegno del governo a supportare i commissari nella ricerca di una (difficile) soluzione interna o in quella di un possibile acquirente mi sembra che l’armamentario sia completo.
Sono gli stessi strumenti utilizzati di volta in volta o nel loro insieme dagli ultimi governi di centrosinistra? Certo, del resto non è mica facile inventarsene di altri. Il decreto è una scopiazzatura di quello Gentiloni su MPS? Probabile, ma non mi sembra una questione centrale al di là delle polemiche su coerenza e dintorni.
Quello che si può dire è che, al momento, siamo di fronte all’apertura di un ventaglio di possibili soluzioni molto ampio, all’interno del quale ci sono certo quelle più apprezzate dai Mercati e più favorevoli ai banchieri che dovessero farsi avanti ma anche quelle che nel nostro campo riteniamo essere più positive per l’interesse pubblico quali la nazionalizzazione.
Occorre quindi attendere.
Nel nostro metro di giudizio una cosa dev’essere chiara e mi pare che sia stata ben sintetizzata nel pur stringato comunicato di Rifondazione Comunista dove si afferma che: “Se si metteranno soldi pubblici, lo stato deve entrare nel capitale azionario, e avere un peso diretto nella gestione della banca, tutelando in primis il risparmio e l’occupazione degli oltre 4000 lavoratrici e lavoratori”. Come abbiamo già detto più volte non è una cosa di per se sufficiente a garantire una svolta ma è quanto meno un passaggio necessario.
Questo, naturalmente, se si è tutti d’accordo che la banca vada “salvata” e non si pensi invece che l’elemento di continuità deteriore con il centrosinistra (o con il centrodestra) consista nel solo tentativo di farlo. E’ un dubbio che in questi giorni mi ha assalito spesso e penso che sul punto sia davvero necessario fare chiarezza.
In primo luogo, i comunisti sono sempre stati (ovviamente e giustamente) a fianco di chi lotta per la difesa dei propri posti di lavoro (e di una capacità produttiva) che si tratti di una fabbrica metalmeccanica di 300 operai e impiegati o di una società di servizi di 50 precari.
In questi casi si finisce sempre per sollecitare l’intervento degli enti locali o dello stato. Quando le cose vanno particolarmente male ci si accontenterebbe anche dell’acquisizione da parte di un concorrente più solido o dell’arrivo di un qualche serio padrone straniero, cinese o americano che fosse.
Da questo punto di vista sarebbe davvero incomprensibile che non si ritenga positivo, senza remora alcuna, il tentativo di salvare una banca che occupa più di 4mila persone (oltre all’indotto che anche in questi casi non è trascurabile).
Ma c’è ovviamente di più. Dovrebbe essere risaputo che una banca non è una fabbrica di caramelle (concetto che si ritrova anche nel vecchio motto secondo cui il banchiere è un mestiere troppo delicato per lasciarlo in mano ai privati).
Soprattutto quando ragioniamo di aziende con forte concentrazione regionale (come è il caso di Carige) si creano con il territorio reticoli di relazioni tali che un fallimento non può che avere gravissime ripercussioni sull’economia locale (nel caso poi già duramente provata).
E, naturalmente, ci sono pure i depositanti che certamente sono parzialmente tutelati, sino a 100mila euro a testa, dal Fondo di Garanzia (strumento peraltro gestito dai perfidi banchieri e mai sperimentato su così larga scala) ma ai quali, comunque, non mi sento di augurare di trovarsi di fronte ad uno sportello sbarrato quando volessero prelevare 100€ dal proprio conto.
Chiarito questo punto, io penso che in una vicenda del genere il compito di una forza comunista ed anticapitalista (e dei suoi militanti più preparati) dovrebbe essere quello di provare a spostare l’attenzione popolare dai siparietti politici e dai tecnicismi vari verso due questioni centrali che, se comprese, possono consentirci di fare dei passi avanti nella ricostruzione di una critica e di un’opposizione di massa al sistema attuale.
La prima concerne l’accertamento delle cause e delle responsabilità della crisi di un’azienda come Carige; la seconda verte sul che cosa dovrebbe/potrebbe fare una banca “nazionalizzata”. Naturalmente su entrambi i temi mi limito solo ad alcuni accenni.
Dal primo punto di vista la vicenda Carige (500 anni di storia e prima cassa di risparmio ad essere quotata in borsa nel 1995) è davvero emblematica, un po’ come quella del Monte Paschi. Ripercorrendola si trova di tutto. Gli equilibri imposti dal processo di privatizzazione all’italiana con il pubblico che deve lasciare spazio ai nuovi manager privati; la voracità e infine le malefatte dei piccoli capitalisti nostrani; gli intrallazzi con la politica (qui in primis di centrodestra); i prestiti agli amici degli amici; la folle corsa all’acquisizione di sportelli dei primi anni duemila alimentata dal mondo del business finanziario; il ruolo compromissorio e decadente della Fondazione (che nel 2013 possedeva ancora oltre il 46% del capitale) ma che non può reggere i successivi ripetuti aumenti di capitale (anche imposti dalle regole europee); la debolezza dei soliti manager riciclati alla bisogna e tanto altro ancora.
Sul dominus Berneschi, che ha guidato la banca per vent’anni, è sufficiente riportare (come fa Marco Bersani nel suo recente articolo “Quando la banca chiama non c’è Governo che non accorra”) un passaggio delle motivazioni della sentenza con cui il Tribunale di Genova lo ha condannato assieme al suo braccio destro Menconi, rispettivamente a 8 e 7 anni di reclusione. Vi si legge infatti: “ … Il maggiore gruppo bancario ligure è stato condotto al progressivo depauperamento attraverso un minuzioso e costante disegno truffaldino, architettato da un comitato d’affari occulto, che come obiettivo aveva unicamente l’arricchimento personale. Un vero e proprio gruppo criminale che sfruttava le proprie posizioni apicali, aveva appoggi internazionali e si appoggiava sistematicamente su paradisi fiscali e banche offshore”.
Da vecchio perfido sindacalista mi limito solo ad aggiungere che Berneschi era talmente stimato non solo dalla politica e dalla curia ma dagli stessi suoi colleghi da fare pure una bella carriera in ABI. Era infatti uno dei vice del presidente Mussari (suo degno compare, distruttore di Monte Paschi) quando nel 2012 i banchieri imposero ai bancari (mal difesi) uno dei peggiori rinnovi contrattuali nella storia della categoria, chiedendo loro ulteriori pesanti sacrifici nell’interesse supremo (e comune) del rilancio del settore e del paese. Amen.
Ancora più importante, secondo me, è aprire una discussione sulla seconda questione, il che fare oggi di una banca commerciale sotto controllo statale. Fallimenti e ruberie delle gestioni private hanno infatti riaperto uno spazio nel contesto neoliberista e la possibilità di un ragionamento sul ruolo della finanza pubblica a partire dal quale occorrerebbe saper incalzare (e contestare) il governo gialloverde.
Marco Bersani nell’articolo già citato (e che pure non condivido integralmente) conclude correttamente così: “Ma oltre a tutto quanto detto sopra, resta una considerazione di fondo: quando si inizierà ad accompagnare ai salvataggi con soldi pubblici delle banche private, una strategia politica che rimetta il sistema bancario e finanziario dentro l’interesse generale e il controllo democratico e popolare?”
Interloquisce indirettamente un passaggio di un comunicato sulla vicenda Carige della Cub-Sallca, il sindacato di base dei bancari: “Una banca pubblica dovrebbe caratterizzarsi per un diverso modello di banca, che sia davvero utile alla collettività, che conceda credito a chi lo merita, che tuteli i risparmi dei clienti e non li saccheggi, dove il ruolo del bancario abbia un contenuto professionale qualificato, di reale consulenza al servizio dell’utenza e non sia quello di piazzista”.
Come ho già avuto modo di affermare in relazione alla vicenda MPS, ritengo che alcune coordinate d’azione possono essere individuate nella definizione di un “patto strategico” (tra azienda, lavoratori, sindacati e clienti) finalizzato alla cessazione delle pressioni commerciali e della vendita di prodotti inadeguati; nella conseguente ridefinizione della gamma di offerta (in primo luogo per quanto concerne i prodotti di risparmio e di tutela); nell’utilizzo preferenziale della banca pubblica per la canalizzazione dell’attività di Cassa Depositi e Prestiti e del flusso di finanziamenti agevolati di matrice nazionale o europea.
Tornando a Carige, spero sia stata definitivamente accantonata l’idea un po’ balzana che fosse MPS ad acquisirla. Ciò non toglie che, nel caso di nazionalizzazione, una regia pubblica (degna di questo nome) potrebbe facilmente individuare, nell’immediato futuro, interventi di razionalizzazione delle reti (sono due banche a radicamento territoriale contiguo) e messa a fattor comune di servizi che potrebbero aiutare entrambi i gruppi a risollevarsi.
Fermo restando che, a quel punto, gli utili resterebbero pubblici.
Torino, 10 gennaio 2019
Claudio Bettarello
DA SEGRETERIA NAZIONALE CUB SALLCA
A iscritti/e, lavoratrici e lavoratori
Il decreto con cui il governo ha deciso di offrire la garanzia pubblica sulle obbligazioni emesse da Carige è una scelta utile e necessaria, peraltro in linea con gli ultimi salvataggi bancari.
L’esigenza principale in questo momento è garantire la continuità aziendale, per tutelare i diritti dei lavoratori e i loro posti di lavoro, insieme agli interessi dei risparmiatori e di una realtà sociale già provata da altre tragedie
Attendiamo, quindi, i prossimi passaggi. Riteniamo che l’intervento pubblico non possa essere solo finalizzato a mettere a carico della collettività i danni prodotti dai banchieri. Se intervento pubblico deve essere, lo sia fino in fondo, con la nazionalizzazione della banca e la possibilità per lo Stato di incassare anche gli utili futuri della banca risanata.
E’ una linea che abbiamo già caldeggiato nel caso di Monte Paschi. Come già abbiamo scritto più volte, l’intervento dello Stato deve anche essere qualitativo.
Una banca pubblica dovrebbe caratterizzarsi per un diverso modello di banca, che sia davvero utile alla collettività, che conceda credito a chi lo merita, che tuteli i risparmi dei clienti e non li saccheggi, dove il ruolo del bancario abbia un contenuto professionale qualificato, di reale consulenza al servizio dell’utenza e non sia quello di piazzista.
Come sindacato di base auspichiamo che si possa arrivare ad un radicale cambio di rotta: i disastri degli ultimi anni sono in buona misura i frutti della furia privatizzatrice partita nel 1990 e delle politiche austeritarie imposte dalle regole europee.
La preoccupazione dei lavoratori per la sorte della Banca è forte e le difficoltà non possono certo essere nascoste, tuttavia è necessario ragionare con calma e lucidità sulla linea da seguire.
Sono usciti due comunicati della Fisac aziendale che manifestano valutazioni diverse tra i sindacati della Banca: non vogliamo entrare nel merito di questa polemica e restiamo in attesa di conoscerne meglio gli sviluppi, ma riteniamo che alcuni punti fermi vadano affermati.
In maniera contraddittoria, l’azienda ha avanzato varie richieste, dall’annuncio della disdetta del contratto integrativo, a proposte sulla mobilità in deroga al contratto nazionale.
L’idea che si vorrebbe insinuare è che, nello sforzo per risanare i conti della Banca, anche i lavoratori debbano contribuire con ulteriori e inevitabili sacrifici.
Riteniamo che questa idea non sia solo iniqua, ma anche sbagliata e fuorviante. I problemi della Banca non derivano da un eccesso di tutele dei lavoratori (che, anzi, a livello di sistema bancario, oramai, sono tra quelli meno retribuiti e maggiormente “precarizzati”), ma dalla sciagurata gestione dei suoi dirigenti e d taluni soci di riferimento, dalla nota collusione, di storica data, tra i poteri forti liguri e la Banca stessa (vedi esponenti politici, sindacati firmatari, imprenditori, coop, ambienti della Curia, rappresentanti di enti pubblici locali, ecc.).
Dire questo è ovvio, ma va anche aggiunto che i risultati della malagestione sono, verosimilmente, irreparabili e che il recente aumento di capitale rappresenta un ultimo, disperato, sforzo che produrrà solo un prolungamento dell’agonia.
E, come se ce ne fosse stato bisogno, le modalità e la tempistica con cui si è arrivati alla costituzione del consorzio per l’aumento di capitale ha provocato un’ulteriore perdita di credibilità, sia agli occhi dei dipendenti, dei clienti che dell’opinione pubblica in generale, non più arginabile.
Accettare accordi peggiorativi non servirebbe in nessun modo a risolvere i problemi di Carige, ma produrrebbe solo un aggravamento gratuito delle condizioni dei lavoratori.
Abbiamo già scritto che solo un intervento dello stato, sul modello di MPS, può risolvere la situazione e siamo convinti che questo sarà l’unico sviluppo possibile.
L’idea migliore, associata allo sciopero del 21 novembre, è stata quella del volantinaggio ai cittadini a Genova. Si deve tentare di costruire un asse tra lavoratori e clienti per tutelare entrambi. Va richiesto con forza che si vada al salvataggio di Carige tutelando i risparmiatori e chi lavora.
Come abbiamo sollecitato anche per MPS, l’intervento dello stato, con l’uso dei soldi dei contribuenti, non deve solo essere finalizzato al salvataggio della Banca, ma deve anche portare ad un nuovo modello di impresa, funzionale agli interessi della collettività e ad una ripresa di redditività sostenibile e socialmente compatibile, che porti, nel lungo termine, anche al recupero dell’investimento pubblico.
Ti proponiamo di operare, anche in Carige, per tentare di costruire un sindacato alternativo e al di fuori delle solite logiche di potere, che da sempre ha dimostrato piena autonomia e coerenza nella difesa dei diritti, in generale, e in ambito lavorativo in particolare.
Il tempo è scaduto. Se sei interessato contattaci.
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Carige
Il 14 settembre Carige ha reso noto un aggiornamento del piano industriale al 2020,
in sintesi una nuova cura “lacrime e sangue”. Altre 63 filiali da chiudere, in aggiunta
alle 58 già chiuse tra il 2016 e luglio 2017. 842 dipendenti in esubero, con la
previsione di scendere dai 4.742 attuali ai 3.900 finali (in pratica uno su cinque
viene messo fuori). Esodi incentivati, part-time e cessione di attività gli strumenti
individuati per portare l’azienda in utile già nel 2018, razionalizzando la rete e
facendo “efficienza operativa”. A latere un taglio delle obbligazioni subordinate di
entità ancora sconosciuta ed un aumento di capitale da 560 milioni di euro dall’esito
incerto, visto che l’esigente famiglia Malacalza, azionista di riferimento dopo i
disastri dell’era Berneschi, ha già perso nell’investimento in Carige 230 milioni di
euro e non sembra intenzionata a mettere altri soldi, né assistere indifferente al
diluirsi del suo 17,8% di quota. Nell’immediato, vendita dei pochi gioielli di famiglia
rimasti, come l’immobile che ospita la sede di Milano e che dovrebbe fruttare oltre
100 milioni di euro, per fare un po’ di cassa a breve.
Persino il segretario della FIRST-CISL si è sentito in dovere di intervenire nella
vicenda Carige:
“Siamo stupefatti che, nell’individuare quale elemento fondamentale di rilancio della
banca la presenza di una base di clienti resiliente e fedele, ci si accanisca contro i
lavoratori, ossia coloro che hanno permesso che questa fedeltà si mantenesse,
rimediando ai danni reputazionali provocati dalle cattive gestioni dei
vertici”.“Volontarieta’ e sostenibilita’ sociale devono essere i punti fermi della
gestione delle ricadute occupazionali – aggiunge Romani -, mentre e’ chiaro che
non ci sono spazi per ulteriori sacrifici retributivi in una banca che ha gia’ un livello
di costo unitario del personale al di sotto della media di sistema in virtu’ dello
straordinario senso di responsabilita’ mostrato in questi anni dai lavoratori e dal
sindacato.Piuttosto – conclude Romani -, osserviamo che ancora una volta ci
troviamo di fronte a stantie formule basate sul taglio di dipendenti e di filiali, sulla
cessione degli npl, su esternalizzazioni di professionalita’ e sulla mera
riorganizzazione dei processi e dei modelli organizzativi, mentre poco o nulla si
innova dal lato dei prodotti e dei servizi”.
Non c’è da stupirsi se viene sempre chiesto ai lavoratori di sacrificarsi: sono l’unico
soggetto che ha una rappresentanza sempre disponibile a cedere. I soci non
accettano di tirare fuori nuovi soldi, le autorità di governo accettano i diktat dell’UE
e le conseguenze del bail-in, le altre banche sono impegnate a tirarsi fuori dai guai
per conto loro, la Banca d’Italia sostiene di aver vigilato bene, il presidente dell’ABI
Patuelli professa ottimismo, sull’onda del mantra ”la crisi è finita”.
Per le sorti di Carige varrebbe la pena prendere in considerazione ipotesi di scenari
avversi e la necessità di puntare su soluzioni istituzionali sul modello Monte dei
Paschi di Siena, per prevenire disastri come nel caso delle banche venete. Anche
tra catastrofi abbiamo dovuto purtroppo imparare a distinguere…
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Carige
La recente lettera della BCE, che richiede a Carige un nuovo piano industriale ed una nuova svalutazione dei crediti, impone una riflessione che vada oltre i limiti solitamente imposti dal pensiero dominante.
Le cause della crisi del gruppo sono abbastanza note: una gestione a dir poco incauta (se ci saranno poi risvolti penali lo stabilirà la magistratura) del gruppo dirigente raccolto attorno a Berneschi, fondata sul sottobosco di poteri forti locali e con l’aggiunta del disastroso tentativo di allargare il raggio d’azione della banca con acquisti di sportelli, poco prima della crisi finanziaria del 2008, a prezzi esorbitanti.
A seguito delle indicazioni della BCE ufficializzate a inizio marzo, la Banca ha dovuto svalutare integralmente l’avviamento residuo, pari a circa 57 milioni di euro. Questo ha comportato la rilevazione di una perdita netta per l’esercizio 2015 pari 101,7 milioni di euro anziché di 44,6 milioni (comunicati al mercato in data 11 febbraio 2015).
Dopo il cambio del gruppo dirigente (o almeno con l’avvicendamento sul ponte di comando, con l’allontanamento di Berneschi e l’ingresso come socio “forte” dell’imprenditore Malacalza) si è continuato a navigare a vista, con un contesto nazionale ed internazionale che non ha certamente favorito i tentativi di rimettersi in carreggiata.
Le difficoltà di Carige, come quelle di altre banche oggi al centro delle cronache, richiedono una svolta radicale nella gestione del sistema bancario.
Dubitiamo che questa potrà venire dal nuovo Consiglio di Amministrazione che, probabilmente, sarà nominato il 31 marzo 2016 e, immaginiamo, imporrà ricette conosciute come esternalizzazioni, ulteriori tagli del costo del lavoro, aumento delle pressioni commerciali, riduzione dei giorni e/o delle ore lavorate. Teniamo conto che il Gruppo ha appena utilizzato il Fondo Esuberi e che è stata aperta la strada a contrattazioni individuali finalizzate a nuove uscite anticipate. E’ necessario opporsi al continuo peggioramento delle condizioni normative, va respinta la logica del meno peggio che, arretramento dopo arretramento, rischia di far arrivare anche ai licenziamenti.
Come abbiamo argomentato anche per il caso Monte Paschi, per dare davvero una svolta, è necessario procedere alla nazionalizzazione delle banche più in difficoltà. Quello che proponiamo, però, non è la consueta pubblicizzazione delle perdite, cioè il mettere a carico della collettività i costi delle malefatte dei banchieri privati. La nazionalizzazione, nella nostra visione, deve essere accompagnata da un nuovo modello di banca, tema che era al centro del rinnovo contrattuale di settore e che è stato eluso nella conclusione delle trattative.
Serve una banca che torni a fare la banca, che sia strumento di tutela dei risparmi dei cittadini e di impulso all’economia locale e alle piccole e medie imprese del territorio. Quando diciamo questo non intendiamo certo il ritorno alle pratiche della vecchia gestione, a quella commistione di interessi tra potere politico e potere economico ligure che tanti danni ha prodotto alla banca. Fare banca significa avere un gruppo dirigente di manager non provenienti da società di consulenza, che conoscano davvero il lavoro del settore, che sappiano valorizzare le professionalità e le capacità interne.
Il nuovo modello di banca richiede anche un nuovo modello di sindacato: quello che ha chiuso gli occhi sulle malefatte dei vertici, sperando che alla fine qualche briciola potesse arrivare comunque ai lavoratori, ha fatto il suo tempo. Un sindacato critico e conflittuale, che sappia contrastare le politiche dei vertici aziendali quando sono sbagliate e contrarie agli interessi dei lavoratori, non può che fare bene, oltre ai lavoratori, alla banca stessa.
Naturalmente una proposta come quella che avanziamo non è facile da realizzare. Però è una parola d’ordine su cui si può tentare di mobilitare i lavoratori ed anche la clientela, sensibilizzare l’opinione pubblica, smuovere una dirigenza politica troppo attenta a garantire l’impunità dell’alta dirigenza bancaria che gli interessi collettivi.
Anche la banca può diventare un “bene comune”.
La strada sembra ormai segnata. Il percorso intrapreso dal Gruppo Carige, come commentato dai quotidiani, sembra aver come possibili sbocchi:
- un nuovo aumento di capitale che romperebbe definitivamente con le logiche del passato. L’ex socio di maggioranza, la Fondazione Carige, non conterebbe più nulla e a quel punto la Banca sarebbe consegnata a nuovi soci privati, o,
- una serie di cessioni di rami d’azienda e/o un’incorporazione a cui conseguirebbe la definitiva eliminazione del Gruppo Carige.
In entrambi gli scenari la nuova dirigenza la fa da Padrona. Nessuna illusione, le facce cambiano ma il sistema è sempre lo stesso: anche Montani & Soci rispondono a qualcuno.
Visti i nomi che vengono a galla e l’attenta supervisione di Banca d’Italia (la cui indipendenza è ormai un ricordo), possiamo ragionevolmente affermare che quel qualcuno appartenga al mondo imprenditoriale e alla finanza internazionale. In altri termini, l’obiettivo, quasi riuscito, è quello di estromettere il controllo para-pubblico a favore di una svendita a privati. Naturalmente, non sta avvenendo solo a livello di sistema bancario, ma anche per altre grandi aziende para-pubbliche (Alitalia, Ansaldo del Gruppo Finmeccanica, le municipalizzate, ecc.)
In questo scenario le OO.SS., come pubblicato su Il Giornale dell’11 novembre 2014, “si schierano con il piano della banca contro le proposte dilatorie di Fondazione e compagni, perché hanno più di un dubbio che il futuro di tutti i dipendenti del gruppo possa essere garantito da una fusione immediata: sia che si tratti di una banca estera che di una banca italiana il costo in termini occupazionali, specie per le sedi, sarebbe invece enorme. Carige è una Banca in difficoltà che sta cercando di risolvere i suoi problemi e dopo il recente aumento di capitale e gli ulteriori interventi ad esso collegati si sta avviando lentamente sulla strada del risanamento”.
Non sappiamo se le OO.SS. facciano finta di non sapere o siano “ingenue”.
La Cub-Sallca non perora la causa della Fondazione e nemmeno quella della nuova dirigenza. Nel primo caso abbiamo già ampiamente sperimentato e subito le conseguenze del sistema clientelare, nel secondo non ci facciamo illusioni, anche educati dall’esperienza di altre aziende italiane che una volta acquisite sono state smembrate, portate al fallimento, strizzate sino all’osso, ridotte ad oggetto di ristrutturazioni e riorganizzazioni permanenti. In altri termini, il nuovo management sembra operare per offrire la Banca a privati/fondi/altri investitori istituzionali, il cui interesse non risiede in un sviluppo sano ed equilibrato del Gruppo nel lungo termine, ma nella speculazione di breve periodo giocata sul taglio del personale. Una volta acquisito il controllo e realizzato lo spezzatino, detti soggetti hanno interesse a cedere la Banca o quel che ne resta per realizzare forti plusvalenze. A loro volta, i nuovi acquirenti cercheranno di recuperare l’investimento con un nuovo ciclo di tagli, riorganizzazioni, ecc., per realizzare nel minor tempo possibile alti profitti, e così via all’infinito o quasi …. sino alla fine.
C’è qualcuno che possa pensare che i summenzionati nuovi soci-privati abbiano a cuore l’interesse della clientela, la sorte dei dipendenti e lo sviluppo del territorio? Cosa mai potrà interessare al fondo statunitense, al Bonomi di turno, ecc., del territorio, della Liguria, del back office di via Isonzo, della professionalità della “Sede”, ecc.?
Nello specifico, ci “suona strano” questo forte interessamento dichiarato dalle OO.SS. per la Sede. Perché non hanno messo la stessa enfasi, la stessa attenzione e la forza di persuasione nei confronti della dirigenza per difendere i colleghi delle assicurazioni, di Banca Cesare Ponti e di Creditis (le possibili prossime cessioni), dei colleghi che sono stati demansionati, per contrastare la chiusura di filiali, ecc.? Forse, in quest’ultimi casi i dipendenti sono ritenuti di serie B?
La Cub-Sallca propone ai lavoratori di tutte le categorie di unirsi per contare di più. La lotta deve avere quale obiettivo la costruzione di un sistema sociale con al centro il lavoratore ed i suoi bisogni come essere umano. Non ci schieriamo con coloro che hanno contribuito a ridurre la Banca in questo stato e nemmeno con coloro che vogliono consegnare il Gruppo a soggetti il cui unico obiettivo è quello di lucrare il più possibile nel minor tempo possibile.
Dobbiamo lottare per un sistema alternativo all’attuale, dobbiamo incominciare a costruire un mondo diverso, dove il sistema economico e le Banche (che ne sono il perno) diventino un mezzo per accrescere il bene comune e il benessere sociale.
Riteniamo prioritario, di fronte al rischio di una deriva rovinosa, un programma ed un piano industriale che assicurino:
- la tutela del posto di lavoro e la creazione di un clima positivo interno all’azienda;
- una politica commerciale che ponga al centro della sua azione i bisogni del cliente e lo sviluppo equilibrato e rispettoso delle caratteristiche socio-culturali del territorio;
- l’agire etico ad ogni livello operativo e commerciale.
Infine dobbiamo impegnarci per ricreare un clima solidale tra i colleghi. I sindacalisti devono ritornare sui luoghi di lavoro, parlare e discutere con i colleghi, informarli, affrontare e risolvere i problemi che si incontrano nella quotidianità lavorativa, raccogliere le esigenze e trasformarle in rivendicazioni. Inoltre, un buon sindacalista non può prescindere dal denunciare le ingiustizie, il malaffare, gli episodi di corruzione, la gestione clientelare della banca. Non pensate che un buon sindacalista dovrebbe agire così? Quanti ne conoscete con queste caratteristiche? Quanti rispondono alle vostre attese?
Vi chiediamo: ricordate qual è l’ultima volta che un sindacalista è passato da voi e vi ha chiesto cosa pensate? Ma se non svolgono questo lavoro, cosa ci stanno a fare, qual è la loro funzione?
La Cub Sallca propone un modello di sindacato e di sindacalista-lavoratore diverso, dove non esiste delega in bianco, ma partecipazione diretta.
Solo ripartendo dalla base, dai lavoratori, sarà possibile contrastare questo attacco ai nostri diritti, all’occupazione, ad un territorio già molto provato.
Contattaci e iniziamo a parlarne insieme.
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Carige
Avevamo manifestato, nei precedenti comunicati, le nostre preoccupazioni per le trattative che erano state intavolate sul piano industriale.
Il contesto era e rimane quello di una banca devastata dai suoi top manager che vorrebbe far pagare il conto dei disastri agli incolpevoli lavoratori.
I sindacati aziendali, reduci da anni di politiche concertative, avevano minacciato mobilitazioni e proteste che non ci sono state ed hanno concluso un accordo che, a quanto pare, non porteranno in assemblea ai lavoratori per essere approvato. Quanto è stato firmato, insomma, andrebbe preso senza discussioni e senza confrontarsi.
L’accordo, come recita il titolo, va valutato in modo articolato.
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Visti i recenti sviluppi nel Gruppo Carige riteniamo utile contestualizzare la crisi del Gruppo.
In altri termini, crediamo che non si possa prescindere, in un momento come l’attuale, dal fornire una lettura alternativa a quella di regime proposta nel volantone di addirittura quattro pagine redatto dalle OO.SS. del Gruppo Carige datato 24 aprile 2014 e intitolato “GIU’ LE MANI DALLE RETRIBUZIONI DELLE LAVORATRICI E DEI LAVORATORI TRATTASI DEL LORO “DENARO FRUSCIANTE”.
In particolare, vi si afferma che sono chiarissime le responsabilità e noti i responsabili della situazione in cui oggi si trova il Gruppo Carige. Concordiamo ma da quando alle OO.SS. firmatarie è così chiara la situazione? Come è arcinoto esse hanno sempre avuto un forte legame con il territorio ligure, la città di Genova e le logiche sottostanti a livello economico e politico. Difficile credere che fossero avulsi dai soliti giochi che da decenni legavano l’ex dirigenza ai poteri forti liguri (sia dal punto di vista politico che economico) e che non fossero a conoscenza delle scelte “a livello di politica bancaria” perseguite dal management in ossequio ai diktat della politica ligure. (altro…)