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L’argomento non è certamente nuovo, ma vale la pena ribadire alcuni concetti e lo facciamo con l’aiuto di un eccellente lavoro (datato 2014, ma è come fosse scritto oggi) della Fabi di Reggio Emilia (vedi allegato).
Le segreterie nazionali dei sindacati firmatari hanno firmato accordi scandalosi, come le oramai tristemente famose assunzioni “miste”, oltretutto senza mai degnarsi di presentarsi in assemblea per ottenere il consenso dei lavoratori.
Hanno anche firmato accordi (nazionali e aziendali) che dovrebbero consentire segnalazioni per le pressioni commerciali esagerate, che non si sono solo rivelati inutili, ma anche dannosi, perchè, a fronte di esposti alle Asl (come giustamente suggerito dal documento della Fabi di Reggio Emilia), che noi non abbiamo esitato a fare, le banche hanno buon gioco a dimostrare la loro “buona volontà” nell’affrontare il problema, mostrando gli accordi firmati o qualche indagine di specialista ben retribuito.
Tuttavia questo documento resta utile e ne consigliamo una lettura attenta e completa (da consigliare anche ai vostri superiori, quando necessario!), anche se vogliamo anticiparvi due frasi chiave:
L’azienda può perciò legittimamente assegnare al lavoratore un budget, ma, nel contenuto della prestazione lavorativa – che il lavoratore è tenuto ad effettuare con la dovuta diligenza e conformandosi, alle direttive impartite dal datore di lavoro così come precedentemente sottolineato- NON E’ RICOMPRESO L’OBBLIGO DI REALIZZARLO.
Inoltre vi è un richiamo opportuno al rispetto delle normative ed a respingere (e documentare, ove possibile) sollecitazioni ad operare in violazione delle stesse per raggiungere gli obiettivi: indurre il lavoratore a non rispettare i principi di deontologia ed etica professionale pur di raggiungere gli obiettivi di budget è chiaramente un comportamento che viola la predetta norma (riferimento all’art 2087 del codice civile, NdR).
Vogliono convincerci che chi lavora in modo corretto è fuori posto.Invece dobbiamo ricordarci sempre che rispettare le leggi e le norme, spiegare bene i prodotti che vengono proposti ai clienti è il MODO NORMALE E CORRETTO DI OPERARE!
Al contrario, chi fa i risultati non spiegando tutto ai clienti, omettendo dettagli o ricorrendo a vari trucchi pur di “vendere” e magari viene portato come esempio da seguire da parte di qualche responsabile, LAVORA IN MODO SCORRETTO, DANNEGGIA TUTTI/E E VA ISOLATO.
Ricordiamo, se mai ce ne fosse bisogno, che raggiungere il budget, nei limiti del possibile, è nell’interesse di tutti, ma forzare per raggiungerlo espone a rischi di provvedimenti disciplinari!
Quindi, non facciamoci schiacciare dalle pressioni commerciali: scriveteci, parliamoci, costruiamo insieme la comunità dei lavoratori e delle lavoratrici bancari che vogliono difendere la dignità del proprio lavoro e non subire imposizioni e pretese illegittime di qualche responsabile, che vorrebbe dimostrarci che siamo noi dalla parte del torto!
Alla fine è avvenuto quello che era largamente prevedibile: le banche venete sono fallite e sono state azzerate, il Monte dei Paschi di Siena è stato nazionalizzato con la procedura di risoluzione e lo stato si fa carico di un disastro senza precedenti.
I venti miliardi stanziati a fine anno per risolvere i casi disperati saranno utilizzati a piene mani per prevenire una crisi di tipo sistemico che avrebbe potuto assumere dimensioni disastrose. Paghiamo anni d’inerzia e d’ipocrisia, di mancanza di controlli, di complicità politiche e storture istituzionali, di latitanza dei sindacati trattanti e di vincoli giuridici assurdi.
Lo Stato e quindi noi, come contribuenti, pagheremo il costo più salato (non meno di 12-15 miliardi), mentre come dipendenti bancari, ancora noi, saremo tutti chiamati a contribuire al risanamento tramite la sopportazione di tagli di costo che devono ancora essere quantificati.
Proviamo a ricostruire come si è arrivati a questa tragica conclusione e quale futuro ci attende per i prossimi mesi.
La crisi delle banche italiane è emersa con ritardo, rispetto al panorama internazionale. Subito dopo l’esplosione del caso Lehman, le banche più grandi del mondo erano così esposte ai derivati e ai mutui subprime da dover fare massiccio ricorso a ricapitalizzazioni statali per restare a galla.
Mentre esaltavano le virtù del mercato e del privato, i grandi colossi della finanza venivano salvati con risorse e garanzie pubbliche, usate per comprare i loro titoli tossici ed evitare un crollo generale. Superato il guado, sono tornate puntualmente le pratiche speculative precedenti, i bonus ai super manager e la prassi delle “porte girevoli”, fino al prossimo giro di giostra…
Come si ricorderà, le banche italiane disdegnarono gli aiuti pubblici, vantando solidità inesistenti derivanti dal proprio modello di business, ancorato al finanziamento dell’economia reale. Chi, come MPS, aveva appena comprato a prezzi stratosferici una banca destinata a svalutarsi nel breve, tentò di camuffare la realtà attraverso derivati leggendari (Alexandria, Santorini, ecc.).
In questo ha pesato anche la dottrina ideologica imperante: mai più lo stato nelle banche, basta lasciare i privati liberi di agire ed ogni problema si risolve in automatico!
Un primo segnale di allarme arrivò con il 2011: la crisi dello spread fece emergere che i bilanci bancari, pieni di titoli di stato in picchiata, non erano poi così solidi di fronte a shock “esogeni”. Ma arrivò Draghi alla BCE e varò prima l’LTRE (che fornì alle banche dell’area euro enorme liquidità a tasso zero, per ricomprare i BTP e titoli simili a prezzi infimi), e poi il Quantitative Easing che riuscì a riportare in alto proprio i prezzi dei titoli in portafoglio. Scampato pericolo!
Intanto il governo italiano prestava qualche aiutino: nel 2013 la rivalutazione delle quote in Banca d’Italia, una nuova disciplina fiscale degli ammortamenti per smaltire le perdite in bilancio in cinque anni anziché diciotto, procedure più rapide per escutere le garanzie sui crediti finiti mali.
Fino alla fine del 2015 sembrava che tutto questo fosse bastato. Persino la borsa italiana (piena zeppa di titoli bancari e finanziari) ci credette e l’anno finì con un +13.9%, l’indice migliore tra quelli dei paesi avanzati. Ma le cose belle sono destinate a finire presto.
Tra il 2013 ed il 2014 era accaduto qualcosa di travolgente. Sulla spinta dei paesi “core” dell’Unione Europea, che avevano già risolto prima i loro casini bancari con capitali e garanzie pubbliche, si era arrivati all’approvazione della direttiva sul bail-in, cioè il divieto di affrontare e risolvere le crisi bancarie con il concorso di risorse pubbliche. L’intento era quello di impedire ai paesi “lassisti” di salvare i risparmiatori a spese dei bilanci statali: il risultato pratico è stato quello di innescare una miccia in grado di attivare una bomba ad orologeria, che è puntualmente arrivata ad esplodere nell’arco di pochissimo tempo.
La normativa sul bail-in viene applicata in Italia per la prima volta con la risoluzione delle banche del centro, nel novembre 2015. Per valutare i crediti deteriorati viene applicato un parametro sorprendentemente basso: il 17%. Se questo parametro venisse applicato a tutte le banche italiane, i trecentosessanta miliardi di sofferenze lorde, o gli ottantacinque miliardi di sofferenze nette, varrebbero molto meno di quanto sia correntemente contabilizzato nei bilanci ufficiali: l’effetto sul patrimonio e sulle quotazioni azionarie è devastante. Nell’arco di poche settimane il valore di borsa delle banche italiane scende di cinquanta miliardi di euro!
Siamo di fronte ad un brusco risveglio: dalla crisi Lehman il Pil italiano è già sceso del 10% ed il prodotto manifatturiero di circa il 25%. Le banche hanno reagito con una contrazione del credito, che non le ha però esentate da una crescita spaventosa di crediti incagliati, crediti dubbi e sofferenze conclamate.
L’abbattimento dei tassi da parte della BCE ha peraltro inferto un colpo durissimo al margine d’interesse, la storica componente principale dei ricavi bancari: l’effetto congiunto dei tassi zero e delle sofferenze a palla ha incrinato definitivamente l’equilibrio fragile su cui poggiavano le banche. Chi non aveva spalle abbastanza larghe, cioè canali di raccolta a basso costo e struttura dei ricavi orientata alla gestione del risparmio, è entrato nella fase della lotta per la sopravvivenza. La crisi di fiducia e la fuga dei depositi dalle banche percepite come “a rischio” ha fatto il resto e precipitato gli avvenimenti.
Il Monte dei Paschi non ha trovato soci privati per il suo aumento di capitale nel 2016, né partner bancari che se la siano sentita di assumerne attività e passività: l’intervento dello Stato al 70% è diventato, obtorto collo, l’unica via.
Per le banche venete è stata adottata una soluzione diversa: parte sana a Intesa Sanpaolo per un euro, bad-bank e cause legali allo Stato. Adesso colti ed incliti gridano allo scandalo, ma nessuno è stato in grado di proporre alternative concrete.
ISP assume nel proprio perimetro cinquanta miliardi di raccolta da garantire e 11.000 lavoratori che avrebbero rischiato moltissimo. I termini sono noti e la trattativa ha già prodotto un primo accordo: 1.000 esodi dalle ex banche venete, su base volontaria e senza incentivi. Saranno coinvolti tutti i dipendenti, dirigenti esclusi, che maturano i requisiti pensionistici entro il 2024 (7 anni). A latere: “superamento” della contrattazione integrativa aziendale, fatti salvi in via transitoria alcuni punti cardine (assistenza sanitaria, previdenza complementare, ticket pasto, condizioni agevolate, ecc.).
Più avanti si comincerà a discutere di taglio dei costi e si porrà il grave problema della mobilità territoriale, inevitabile conseguenza del piano di sostanziale azzeramento della rete distributiva delle ex-banche venete, cui si aggiunge la “razionalizzazione” della rete ISP. Oltre 600 filiali da chiudere non lasciano grandi margini di speranza in regioni di forte insediamento come il nord-est, ma anche Toscana, Puglia o Sicilia non saranno esentate.
A traguardo raggiunto, cioè acquisito il consenso dei primi 1.000 esodandi, partirà la procedura per almeno altri 3.000 dal perimetro ISP, appartenenti ad un bacino che ricomprende 6.500 lavoratori/trici (in questo caso dirigenti inclusi, con requisiti in maturazione entro il 2022). Per gli uni e per gli altri verranno utilizzate risorse pubbliche, con rifinanziamento del Fondo a carico dello Stato.
Entro la fine dell’anno avremo quindi un quadro definitivo delle “partenze”. In questo contesto verrà chiesto dall’azienda un taglio dei costi, che dovrà essere contrattato in un quadro di rapporti di forza ben diverso rispetto a quello precedente: sembrano passati anni luce dai precedenti rinnovi contrattuali. Quello del 2012 (sotto il governo di salute pubblica di Monti-Fornero), in cui la categoria subì un durissimo ridimensionamento in termini di tutele, al punto di bocciare in massa il contratto nelle assemblee (evento che fu arginato con i soliti trucchetti dai sindacati firmatari). Ma anche quello del 2015, quando, dopo quattro scioperi nazionali, si arrivò ad un compromesso transitorio, a costo zero per le aziende, in cui si scambiarono aumenti ridicoli e differiti con ulteriori sterilizzazioni di oneri contributivi su TFR e Previdenza complementare.
Adesso le banche pensano che siano maturi i tempi per mettere mano a quello stravolgimento dell’impianto contrattuale che è da lungo tempo auspicato e su cui si registrano fin troppe disponibilità da parte sindacale.
Lavoro di manomissione che è già cominciato concretamente proprio in quella banca (ISP) che si è fatta carico di risolvere il problema veneto come “banca di sistema” e che ora si candida a modello da seguire, pensando di avere conquistato la credibilità, il prestigio e la legittimità per chiedere e ottenere quello che vuole.
Nell’accordo sulle assunzioni ibride in ISP, del 1^ febbraio scorso, c’è già il modello prescelto per affrontare il nodo della scarsa redditività delle banche degli anni a venire: la condivisione degli oneri con i lavoratori (e con i clienti, aggiungiamo noi).
Infatti è noto che sta per entrare in vigore la MIFID II, che impone agli intermediari bancari di esplicitare ai clienti il totale dei costi cui sono sottoposti nel loro rapporto commerciale con l’azienda. Il recepimento della direttiva (dopo dilazioni e rinvii non più differibili) è previsto in Italia per il 1^ gennaio 2018: non sarà molto diverso, come impatto, da quello che è stato il bail-in.
Ma mentre questo agiva sul livello di affidabilità (reale o percepita) delle banche, la Mifid II avrà un impatto diretto sui ricavi, perché costringerà a ridurre o azzerare le commissioni di caricamento (implicite o esplicite) sui prodotti collocati e dare maggiore visibilità anche alle commissioni di gestione applicate.
Non è difficile pensare alla reazione dei clienti e alla loro prevedibile disaffezione verso modelli distributivi orientati su gamme di prodotti opachi e costosi, che dovranno avere per legge una struttura dei costi molto più trasparente ed esplicita.
Le banche dunque esprimono l’intenzione di muoversi su due piani: da un lato sostituire le commissioni sul gestito con il contratto di “consulenza evoluta” per stabilizzare i ricavi, dall’altra sostituire i contratti di lavoro dipendente con forme di lavoro autonomo, per ridurre i costi in misura correlata al prevedibile calo dei ricavi.
Non è altro che la richiesta del 2013 di ridurre la componente fissa del salario e la pressione per spostare sui lavoratori il rischio della variabilità dei risultati, in modo da condividere l’imprevedibilità del mercato, E nello stesso tempo si rafforza, in automatico, la responsabilità, la disciplina, l’autosfruttamento (diremmo noi!) del lavoratore. Le pressioni commerciali diventerebbero finalmente superflue, perché incorporate nel meccanismo di funzionamento del sistema. A questo punto si può anche fare a meno di una buona dose di capetti, che ora hanno il solo compito di controllare i vari fogli excel (non previsti dalle procedure aziendali) per poi redarguire chi non riempie a sufficienza le caselle.
Come categoria abbiamo quindi di fronte il rischio gigantesco di arretrare in modo sensibile su tutto l’impianto contrattuale, a coronamento di una fase in cui abbiamo già perduto molto: il controllo sull’orario di lavoro effettivo, il potere d’acquisto, la dignità professionale, la vivibilità del clima aziendale.
La difesa dell’occupazione, che ovviamente resta la priorità assoluta in una fase di forti turbolenze come l’attuale, non deve fare perdere di vista la necessità di difendere anche i diritti normativi e le condizioni retributive.
Si tratterà sotto ricatto e avremo pressioni enormi per cedere in via definitiva diritti fondamentali. Tutto rischia di avvenire nel più totale distacco tra rappresentati e rappresentanti, senza alcun rispetto delle più elementari norme di democrazia e di partecipazione. Cercheranno di calarci dall’alto accordi impresentabili e vorranno imporli senza discussione. Dipende da noi subire ancora una volta, o provare a cambiare strada.
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni
Secondo un articolo pubblicato sul quotidiano La Repubblica, dal titolo fin troppo evocativo[1], nei prossimi anni da qui al 2020 sono previsti 20-25mila esuberi nel settore. In un altro articolo[2], che illustra le linee di un accordo tra l’ABI e il governo per gestire le prossime ristrutturazioni, il numero dei tagli al personale arriva ad ipotizzare 50mila esuberi. Al di là delle cifre ballerine, l’elemento strutturale su cui convergono gli articoli menzionati e le voci dei più informati osservatori, è che siamo alla vigilia di un processo che cambierà radicalmente le caratteristiche del comparto. Nulla di nuovo potrebbero affermare i diretti interessati, i lavoratori. Alle svolte epocali, alle trasformazioni dal sapore quasi apocalittico, l’orecchio dei bancari è ormai avvezzo. Così come forse uno sbadiglio potrebbe strappare l’ennesima discussione sul nuovo modello di banca, che si trascina ormai da lungo tempo, tema che viene trattato in stretta correlazione con l’annuncio dei forti dimagrimenti di cui sopra. Mai fidarsi però dell’apparente fluire degli eventi, lasciandosi cullare dall’ipnotica ripetitività di quelli che ci appaiono sfibranti deja-vu.
Per la prima volta, stando alle notizie di stampa, l’accordo tra governo e parti sociali includerebbe un sostegno economico pubblico per rendere possibile un esodo di tali proporzioni bibliche. Questa novità seguirebbe quella di carattere normativo che ha permesso di allargare la possibilità dei prepensionamenti da 5 a 7 anni prima della maturazione dei requisiti per andare in pensione. Finalmente potrebbe dire qualcuno. Era ora.
Ma l’illusione dura il tempo di una lettura che non ha bisogno neanche di andare a cercare troppo tra le righe, potendo soffermarsi già semplicemente su quanto alcuni attori del dibattito, non si fanno scrupolo neanche più di mascherare con le consuete sottili formule linguistiche, di chi è abituato a propinare tempeste con le parole di chi annuncia il sereno. Può succedere allora di trovarsi di fronte ad un mondo alla rovescia, in cui Eliano Omar Lodesani, Chief Operating Officer del Gruppo Intesa Sanpaolo e presidente del Comitato Affari Sindacali e del Lavoro di Abi, arrivi a richiedere, con un accorato appello da sindacalista, l’ascolto del governo per trovare le possibili soluzioni nell’interesse dei…lavoratori, mentre Lando Sileoni, segretario generale della Fabi, si soffermi, con l’afflato avveniristico del più rampante tra gli amministratori delegati, sul programma d’azione che per lui deve prevedere un “riprendersi funzioni, fare consulenza fiscale, previdenziale, conquistare nuove attività. Come del resto succede nel modello americano”.
Ma come si fa a diventare americani? Niente paura, ce lo spiega Andrea Airoldi, che dobbiamo ringraziare per la solidarietà che dimostra fin dall’uso dei verbi riflessivi che lo dipingono come uno di noi, nonostante sia senior partner della società di consulenza Roland Berger (i cervelloni che elaborano i piani industriali e il nostro futuro, sgravandoci di simili preoccupazioni): “Non ci sono alternative: bisognerà ridursi e trasformarsi”- dice il nostro solidale consulente – “da qui a dieci anni mi aspetto che le filiali siano meno della metà e anche molto del personale in rete e al centro adibito all’operatività sarà superfluo, sostituito da processi digitalizzati e da clienti sempre più indipendenti. Sta per partire una rivoluzione del lavoro in banca come quella nell’industria italiana degli anni ’70-80.”
Oltre al solito mantra della mancanza di alternative, un passaggio importante il nostro consulente ce lo offre quando avanza un’analogia con le ristrutturazioni industriali degli anni 70-80. Interessante notare innanzitutto che questa analogia è anche sulla bocca degli esperti del settore, che nell’introdurre la necessità del sostegno statale, parlano di “una misura straordinaria per un momento straordinario visto che il comparto sta attraversando una crisi paragonabile a quella vissuta dal manifatturiero alla fine degli anni Settanta”.
È bene ricordare, che le ristrutturazioni richiamate, rappresentano l’avvio di un processo di deindustrializzazione che ha condotto alla distruzione di gran parte del tessuto produttivo del nostro Paese, senza che ai piani lacrime e sangue seguisse un suo successivo rilancio. Se fossimo psicoanalisti parleremmo di lapsus freudiano. Ma non possiamo credere che l’obiettivo sia l’affossamento del settore e la sua totale subordinazione ai capitali di provenienza estera. Non siamo malpensanti. Anche perché se fosse così, potremmo farci un’idea realistica di quella che sarà la nostra vita di bancari, dalle parole che uno dei rappresentanti del capitale globalizzato, l’azionista Bnp Paribas ha riservato alla partecipata Bnl. Non tanto per i numeri pur significativi (700 uscite, 12 giornate di solidarietà, chiusura di altri 100 sportelli, ecc…), ma per la motivazione addotta, che configura la natura dei cambiamenti di cui tutti parlano: la necessità di alzare la redditività.
Con un passaggio magistrale dal punto di vista politico, la questione degli esuberi viene sganciata dal suo contesto naturale, lo stato di crisi, per essere vincolata alla accettabilità o meno del livello dei profitti. Questo principio, che viene introdotto con un cavallo di Troia ideologico di quelli destinati a segnare le coordinate dei rapporti tra capitale e lavoro dei prossimi anni, sarà la fonte primaria, la Costituzione verrebbe voglia di dire, su cui poi si costruiranno contratti collettivi e aziendali, fino ad arrivare alla più minuta delle disposizioni idonee ad avere un impatto sulla realtà lavorativa. Tutto dovrà uniformarsi ad un livello arbitrario e variabile di profitto. In barba a quel resta dell’attuazione del principio costituzionale della funzione sociale dell’attività di impresa, il ruolo del lavoro viene completamente estromesso dai processi decisionali. Mai siamo stati così tanto merce.
“Questo è un business di persone, il prodotto si copia in poco tempo”, precisa il manager Lodesani. Da numeri, da merce, ritorniamo il perno del sistema. Qual è la verità?
Lo scenario è quello costruito in trent’anni di politiche economiche, aziendali e, soprattutto, culturali. La gestione dei benefici del progresso tecnologico, che nel nostro settore si manifesta con l’uso sempre più massiccio della multicanalità e con la digitalizzazione dei processi produttivi, è sottratta ad un pur sia minimo rapporto dialettico tra parte datoriale e rappresentanti dei lavoratori. Lo spostamento dei lavoratori da un segmento produttivo seriale (back office) ad uno relazionale (consulenza) in realtà si esprime in un’organizzazione del lavoro formalmente nuova, che utilizza il supporto delle nuove tecnologie, per mascherare il più bieco e vetusto sfruttamento delle energie psicofisiche dei lavoratori, con un contenuto schiacciato sul solo aspetto commerciale. Tra queste contraddizioni della narrazione manageriale, vanno inserite le leve con cui scoperchiare un disegno, che ci condurrà ad una subordinazione ancora peggiore. Come? Costruendo un’agenda minima che coinvolga noi lavoratori, un primo passo di un generale ridisegno del pezzo di esistenza che trascorriamo sul posto di lavoro. Come CUB-SALLCA del MPS, proponiamo di discutere sui seguenti punti:
- L’assunzione di un ruolo paritetico dei lavoratori rispetto ai rappresentanti delle imprese, nella gestione delle ricadute determinate dal progresso tecnologico, interrompendo una latitanza che ai profitti conseguiti con la contrazione dei costi operativi, ha favorito il mantenimento di una ingessata struttura degli orari di lavoro (che anzi ha avuto sussulti in senso estensivo, e la cui flessibilizzazione sul modello del settore del commercio, è posta con disinvoltura accanto ai più arditi scenari fanta-bancari…).
- Il coinvolgimento sostanziale dei lavoratori nella definizione dei nuovi profili professionali (e della conseguente formazione), rendendoli funzionali a soddisfare l’offerta di servizi sempre più qualificati di consulenza globale, indirizzati ad attività economiche svolte in linea con uno sviluppo ecologicamente e socialmente sostenibile.
Questo sforzo, deve partire dalla capacità autorganizzativa dei lavoratori. Unica strada per non essere più convitati di pietra nelle discussioni riguardanti il nostro futuro. Noi della CUB SALLCA ci siamo.
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Monte Paschi
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[1] Addio al mito del “posto in banca”: così il bancario cambia mestiere, La Repubblica, 10 ottobre 2016
[2] Banche, accordo tra governo e Abi per 50mila prepensionamenti, La Repubblica 12 ottobre 2016
Nel novembre scorso il salvataggio delle quattro banche fallite e “risolte” dal governo ha innescato un ciclone di proporzioni gigantesche. La prima applicazione del “bail-in” ha prodotto un panico vero tra i risparmiatori e avviato una crisi sistemica altamente pericolosa.
Molte questioni sono ancora aperte, le nuove banche cercano compratori, altre banche sono a rischio fallimento o affrontano situazioni critiche. Il difficile aumento di capitale delle due banche venete ha spinto il governo alla rapida creazione del Fondo Atlante, con dotazione prevista di 6 miliardi, da parte di Intesa, Unicredit, CDP, Fondazioni e via via le altre banche minori. BPVI ha già assorbito 1,5 miliardi (l’aumento è stato un disastro, Atlante ha dovuto comprare tutto e la quotazione non è riuscita). Con Veneto Banca si rischia di replicare. Il resto delle risorse andrà a fare da paracadute ad altri casi aziendali problematici.
E’ ora di fare un bilancio critico di 25 anni di privatizzazioni del sistema bancario. Il disastro è sotto gli occhi di tutti. La ritirata del settore pubblico, la mancanza di investimenti privati, la ritrosia delle banche nel fare credito per concentrarsi su attività più remunerative, hanno prodotto una contrazione dell’economia e dei tassi di crescita. La crisi scoppiata nel 2008 ha dato il colpo di grazia e dopo la caduta non si vede ripresa all’orizzonte. Le banche italiane sono gravate da sofferenze nette molto pesanti (peraltro imputabili spesso al credito di “relazione”), quindi sono aggredibili e scalabili: quelle quotate e quelle in procinto di esserlo sono un obiettivo esplicito di interessi forti che puntano ad impossessarsene a poco prezzo dopo averle fatte a pezzi. Si impone una riflessione sul ruolo del credito e sul rischio di vedere il nostro sistema depredato, tramite scalate ostili, di una delle ultime risorse appetibili: il risparmio degli italiani. Anche come lavoratori bancari, quanto sta accadendo non ci può lasciare indifferenti.
In due situazioni complicate, dove siamo presenti con il nostro sindacato, MPS e Carige, abbiamo proposto la soluzione della nazionalizzazione. Il perdurare della crisi rende questo scenario (non solo per le due banche citate) sempre più probabile, per cui il vero problema non è se nazionalizzare, ma come farlo.
Nazionalizzare una banca non è più tabù neppure nel regno del pensiero liberista, persino USA e Gran Bretagna sono ricorsi in passato a queste misure per salvare importanti istituti di credito. Il problema è che questi interventi si sono tradotti nella classica pubblicizzazione delle perdite, con peso tutto a carico del bilancio dello stato e con le banche che hanno continuato imperterrite con le loro pratiche speculative: passata la bufera, sono ritornati anche i bonus stellari dei manager, i veicoli fuori bilancio e i comportamenti illegali nella manipolazione dei mercati (di cui le multe patteggiate sono prova concreta).
Quando suggeriamo (non più soli) la nazionalizzazione delle banche in crisi, non intendiamo certamente riproporre questi esempi. Un’operazione del genere deve essere l’occasione per introdurre un diverso modello di banca, tema rimosso troppo velocemente dal rinnovo del CCNL 2015: non un ritorno al passato, ma l’apertura verso un futuro dove il credito abbia un ruolo strategico.
Occorrono aziende di credito sganciate dal modello dominante, banche che facciano le banche, che tornino ad essere strumento di tutela dei risparmi dei cittadini e di impulso alle piccole e medie imprese, con un forte radicamento nel territorio, conoscenza del tessuto produttivo e corretta gestione del credito. Rompiamo con le pratiche clientelari e la collusione con i poteri locali che abbiamo visto negli ultimi anni: il nuovo modo di fare banca può e deve diventare alternativa concreta e concorrenziale ai banchieri attuali.
Questo richiede gruppi dirigenti responsabili e lungimiranti, non manager provenienti da società di consulenza con il sistema delle “porte girevoli”; devono conoscere davvero il lavoro del settore, saper valorizzare le professionalità e le capacità interne, non puntare forsennatamente ad utili trimestrali strabilianti e insostenibili.
L’obiettivo è la crescita di lungo periodo di tutto il sistema socio-economico circostante, l’opposto della politica predatoria fondata sulle pressioni commerciali, diventate ormai una drammatica costante, che impoveriscono la società.
Il circolo vizioso innescato dai tassi sottozero della BCE dimostra che l’uso della sola leva monetaria, in assenza di politiche di sviluppo della domanda, droga il mercato, favorisce il capitale finanziario e speculativo, non produce investimenti e mette a rischio i risparmi dei cittadini comuni: la maggior parte delle banche oggi non è in grado di proporre investimenti tranquilli, ancorché poco redditizi, ma spinge prodotti dall’esito incerto per i clienti e ricchi di commissioni per i collocatori.
I manager bancari non hanno interesse ad uscire da questo meccanismo, da cui estraggono corposi incentivi economici. Per cambiare serve un intervento, sia dall’alto che dal basso, che cambi un modello di banca dannoso per tutta la collettività e per il paese, oltre che per i lavoratori bancari, ridotti al rango di venditori sempre più stressati.
L’intervento pubblico per stendere una rete di protezione che tuteli le banche investite dal “bail-in” deve essere l’occasione per riaprire un dibattito franco su questo tema, senza le ipocrisie e le contraddizioni che vediamo nel rapporto tra governo e istituzioni comunitarie. Lo stato deve poter garantire il risparmio e la stabilità, quindi la normativa sul “bail-in” va rivista.
Le banche devono tornare a fare credito, le pressioni commerciali devono cessare e le rivendicazioni contrattuali devono sganciare lo stipendio dai risultati. I sistemi incentivanti vanno aboliti, non contrattati. Il credito è un’attività troppo delicata per lasciarla in mano ai privati.
Il suo esercizio va orientato per programmare, progettare, finanziare innovazione tecnologica e sviluppo sociale, crescita dell’economia e miglioramento del benessere collettivo. A cominciare dalla sicurezza dei risparmiatori e dal clima aziendale che vivono i lavoratori. Se puntiamo a questi obiettivi, anche il periodo turbolento che stiamo attraversando potrà acquistare un senso, in una direzione ben determinata.
Torniamo a riflettere sul tema della crisi delle banche in Italia.
Lo spunto ci viene da due contributi:
A ben vedere, questi due contributi, che sono presentati a titolo personale dagli autori, rimandano alla grande questione rimasta irrisolta nell’ultimo rinnovo del contratto nazionale: il modello di banca. Un modello che i banchieri, imperterriti, continuano a riproporre da anni, come se nulla fosse successo, solo in termini di tagli dei costi (solo i nostri, naturalmente) e di politiche commerciali aggressive e insostenibili.
Invitiamo tutti/e ad un’attenta lettura: in gioco c’è il futuro del sistema bancario italiano ed il ruolo professionale dei lavoratori e delle lavoratrici del settore. Dobbiamo avviare una grande riflessione collettiva su questi temi.
Per il 2016 i giorni di ex festività sono quattro:
- Giovedì 5 maggio Ascensione
- Giovedì 26 maggio Corpus Domini
- Mercoledi 29 giugno SS. Pietro e Paolo (festivo sulla piazza di Roma)
- Venerdi 4 novembre Festa Forze Armate
Inoltre il 1 maggio cade di domenica, per cui è previsto il pagamento della giornata o, in alternativa, la fruizione di un ulteriore giorno di permesso.
Come spieghiamo meglio sotto, per avere diritto alle giornate di ex festività è necessario che in quelle date la giornata lavorativa sia completamente retribuita.
In conseguenza dell’ultimo contratto nazionale e di vari accordi aziendali, è necessario prestare la massima attenzione agli aspetti normativi legati alla loro fruizione.
Come prima cosa ricordiamo che per i quadri direttivi (ma, in molte banche, anche per le aree professionaliche lavorano con turni) una giornata andrà “devoluta” al Fondo per l’occupazione.
N.B. Attenzione alla doppia penalità!
Ricordiamo che effettuare eventuali assenze non retribuite (permessi ed aspettative non retribuite) nei giorni corrispondenti alle ex festività determina una doppia penalità (perdita dello stipendio e di un giorno di ferie).
La stessa attenzione va posta, nelle aziende interessate, nel non collocare in queste giornate eventualigiorni di solidarietà e giornate di riposo come recupero del sabato lavorativo laddove sono previsti gli orari “estesi”.
Al contrario, non ci sono problemi se ci si assenta per ferie, banca ore, malattia, donazione sangue, ecc.
Ricordiamo che, secondo il CCNL, la fruizione delle ex festività deve avvenire tra il 16 gennaio ed il 14 dicembre, ma in alcune aziende (es. Intesa Sanpaolo) è possibile la fruizione dal 1^ gennaio al 31 dicembre.
Il CCNL prevede anche che, in caso di mancata fruizione, la monetizzazione avvenga con le competenze di febbraio dell’anno successivo.
Questa norma è stata superata in numerosi accordi aziendali che o non consentono più la monetizzazione (in caso di mancata fruizione le ex festività andranno semplicemente perse) o prevedono obbligatoriamente la loro fruizione in via prioritaria, che in questi casi è comunque consigliata.
Arriviamo a fare i nostri primi commenti sulla vicenda delle 4 banche salvate dal governo, mentre la bufera mediatica è ancora in corso.
La vicenda, drammatica sotto molto aspetti, assume contorni comici quando assistiamo alcuni organi d’informazione scoprire, con grande stupore, che esistono le pressioni commerciali, che il governo tiene agli interessi dei banchieri più che a quelli dei cittadini, che le istituzioni europee usano due pesi e due misure, che gli organi di vigilanza (Consob e Banca d’Italia) non vigilano a dovere.
Sono temi che, per quel che ci riguarda, abbiamo sempre trattato “ordinariamente”. Riguardo le pressioni commerciali abbiamo organizzato convegni, fatto volantinaggi alla clientela, mantenuto pervicacemente un netto rifiuto a ogni ipotesi di sistema incentivante, criticando ogni accordo che pretenderebbe di “governare” questo strumento, invece di rivendicare per tutti, retribuzioni certe e contrattate.
Rispetto al governo attuale (e anche precedenti), dagli scioperi alla controinformazione (si vedano i nostri documenti sul job’s act), la nostra opposizione è stata intransigente, così come quelle alle politiche antipopolari teleguidate da Bruxelles.
Riguardo gli organi di controllo, basterebbe ricordare tutta la nostra azione di denuncia sulla vicenda Banco Desio, che, nonostante la condanna dei suoi dirigenti laziali per “associazione a delinquere finalizzata all’esportazione illecita di capitali”, ha potuto impadronirsi del Banco di Spoleto, sotto il benevolo sguardo di Visco. E’ un dettaglio, questo, curiosamente ignorato in tutta la polemica sorta intorno al commissariamento del Banco di Spoleto.
Avremmo quindi molto da dire su questa storia, che sarà opportuno continuare a seguire quando il clamore mediatico tenderà a scemare. Anche perchè, tanto per fare un esempio, i colleghi delle “nuove” banche, sorte sulle ceneri di quelle decotte, sono considerati come nuovi assunti e sottoposti alle regole del job’s act, quindi liberamente licenziabili sul piano individuale.
Vi proponiamo, per cominciare a ragionare su tutta questa vicenda, due documenti:
- uno scritto uscito sul sito dei Clash City Workers, un collettivo di giovani lavoratori, senza appartenenze partitiche o sindacali. Ne consigliamo la lettura, in particolare, a gestori e consulenti: non è inutile tornare ad occuparsi, davvero e non per finta, del tema delle pressioni commerciali;
- una prima riflessione generale sul tema delle 4 banche, a firma di Renato Strumia, membro della segreteria nazionale del nostro sindacato, uscita sul settimanale Umanità Nova.
Le assemblee sul rinnovo del contratto del credito si sono concluse. L’ipotesi di accordo è stata approvata quasi ovunque con un consenso plebiscitario: i SI hanno superato il 96%. Deludente il tasso di partecipazione: su 284.000 bancari, hanno espresso il loro voto poco più di 67.000 colleghi. Meno di un lavoratore su quattro ha concorso a determinare il risultato finale e occorre quindi fare la tara alle affermazioni perentorie dei sindacati firmatari che sostengono di aver raggiunto un livello di consenso che non ha precedenti. I dati, forniti in modo aggregato a livello regionale (e solo in taluni casi provinciale), non consentono particolari verifiche o analisi di dettaglio, anche se questa volta (ci mancherebbe) non è certo in discussione l’esito finale.
Come temevamo, il forte dissenso registrato all’interno di alcune sigle sindacali e in molti territori (al direttivo nazionale della Fisac, come noto, i voti contrari erano stati circa il 33%) non è stato portato, per amore o per forza, all’interno della categoria. Lo dimostrano in particolare i dati di Liguria e Lazio, dove il SI ha comunque vinto (rispettivamente con l’84% ed il 90%) seppure con percentuali più basse del dato nazionale.
Tutto questo si è verificato a fronte di un accordo che noi continuiamo a definire largamente deludente, un’occasione mancata nel doveroso tentativo di recuperare qualcosa dopo il disastro del 2012.
Pur nella piena consapevolezza dell’impossibilità di sostenere da soli una battaglia nazionale per il NO (anche la Unisin-Falcri si è totalmente allineata per rientrare al 1^ tavolo), ci siamo assunti il compito di fornire, laddove presenti, una corretta informazione ai lavoratori denunciando puntualmente le bugie e le omertà che le relazioni sindacali contenevano. In Intesa San Paolo, a Torino, nostra tradizionale roccaforte, il NO ha superato il 25% (più un 10% di astenuti), un risultato molto significativo anche se, indubbiamente, la maggioranza dei colleghi ha approvato il contratto.
Tornando ai risultati complessivi, com’è possibile che rispetto ai livelli di critica espressi dalla categoria nel 2012 si sia verificato un arretramento così rilevante? E com’è possibile che i lavoratori siano così rassegnati e passivi, di fronte a quello che sono costretti a subire quotidianamente? Verrebbe da chiedere: a che punto è la notte?
Dopo il varo di una piattaforma che sembrava promettente, nonostante lo sviluppo di una vertenza che ha visto esprimere i lavoratori in lotte compatte, di fronte ad una controparte delegittimata da scandali e malversazioni, i sindacati firmatari si sono nuovamente assunti la responsabilità di chiudere un contratto senza risultati tangibili.
E questa scelta non ha neanche visto una reazione adeguata da parte dei lavoratori e dei delegati di base. Siamo davvero di fronte a cambiamenti epocali e la dimensione della sconfitta è fortemente radicata nella coscienza collettiva.
Appare ridicolo il trionfalismo di certe affermazioni: come si fa a sostenere che l’ABI ha dovuto subire una sconfitta strategica e quindi ha perso? Le banche hanno preferito accontentarsi di quello che già hanno ricevuto dal governo, tra agevolazioni fiscali, rivalutazione delle quote di Banca d’Italia, esenzioni IRAP e provvedimenti sul mercato del lavoro. Jobs Act e decontribuzione assicurano vantaggi economici inaspettati, i nuovi assunti costano pochissimo, esodi e taglio dei costi proseguono senza tregua. Con il tempo potranno essere capitalizzati anche i risultati ottenuti con questo rinnovo.
Innanzitutto l’allungamento del contratto fino alla fine del 2018, la decorrenza degli aumenti rinviata all’ottobre 2016, la delimitazione del perimetro su cui calcolare TFR e previdenza integrativa: economicamente il contratto si chiude per le banche a costo zero. In secondo luogo la revisione degli inquadramenti, preceduta da nuovi modelli di servizio che hanno svuotato di significato la normativa precedente, creando i presupposti per una forte riduzione dei riconoscimenti professionali e gerarchici. Entro un anno i progetti dell’ABI rientreranno dalla finestra tramite la commissione di lavoro sul tema. In terzo luogo i riassetti societari e gli scorpori, che non troveranno certo ostacoli insormontabili nelle vaghe formule con cui è stata “presidiata” l’area contrattuale o il nulla che è stato definito in merito agli appalti.
Tutto l’impianto sul nuovo modello di banca è stato ignorato, più che rigettato, e l’esplosione del problema indifferibile delle pressioni commerciali dimostra che nulla è stato risolto in questi anni di pure chiacchiere, ma anzi il fenomeno si è incancrenito, diventando strutturale e connaturato al “vecchio” modello di banca, l’unico ammesso e consentito.
Del resto non c’è nulla da pretendere da un sindacato che si pone come unico obiettivo quello di contrattare il piatto di lenticchie, cioè una misera parte dell’incremento di produttività e redditività ottenuto, in misura più o meno ampia, dalle aziende, proprio attraverso quei metodi commerciali aggressivi e pressanti che a parole si dice di voler contrastare. Anziché mettere in discussione metodi, strumenti, e obiettivi, i sindacati chiedono solo che il frutto di questo delirio venga redistribuito con criteri meno squilibrati, in modo da lasciare qualche briciola anche alla truppa e alla manovalanza, anziché concentrare tutto su manager ed azionisti.
Ci sembra ben poca cosa rispetto alla misura drammatica che ha assunto lo sfruttamento del lavoro nel ciclo produttivo (anche) bancario, la quota di lavoro non pagato, la dimensione totalizzante del budget commerciale, il decadimento del clima di lavoro, l’inasprirsi delle tensioni con la clientela, l’irraggiungibilità degli obiettivi e la scarsità quantitativa delle risorse impiegate, a partire dagli organici.
Sono nodi che il contratto lascia del tutto irrisolti e che certamente interessano anche quel 96% di lavoratori che, a differenza nostra, ha giudicato l’accordo il male minore di fronte al quale conveniva piegare la testa.
L’esilità del testo e il rinvio a successivi accordi di temi importanti concernenti il ridisegno dell’organizzazione del lavoro, dei profili professionali e dei conseguenti inquadramenti, rendono di difficile valutazione l’ipotesi di accordo per il rinnovo del CCNL del credito, firmata in aprile.
Uno spettro, o meglio una famiglia di spettri, uno per ogni gruppo bancario, si aggira eterea e pur presente costantemente, sullo scarno articolato: i piani industriali del prossimo futuro.
Questi ospiti non vengono descritti nel loro aspetto, non essendo naturalmente questa la sede, ma ne ricaviamo il terrificante ritratto, da una vera e propria ossessione sottesa all’ipotesi di accordo: la gestione degli esuberi. Questa acquista una centralità palese nell’economia del testo.
Così come tutte le strade portano a Roma, allo stesso modo, verrebbe voglia di dire, tutti i punti o quasi affrontati, conducono alla necessità di affrontare crisi ed esuberi. Vediamo.
Il fondo per l’occupazione istituito nella precedente tornata contrattuale, che come sappiamo è finanziato da noi lavoratori ed ha inondato le banche di giovani assunti (lo so non li vediamo, ma forse sono eterei, come gli spettri di cui sopra), è confermato, ma la sua natura viene radicalmente modificata. Se ne fa un ulteriore strumento di gestione delle tensioni occupazionali, che opererà in sinergia con il Fondo di solidarietà.
La lettura dei nuovi compiti del Fondo per l’occupazione, ci rimanda a scenari apocalittici: rioccupazione dei lavoratori destinatari della Sezione emergenziale del Fondo di solidarietà e dei lavoratori licenziati per motivi economici, riconversione finalizzata a fronteggiare possibili eccedenze di personale dovute a mutamenti nell’organizzazione del lavoro, quella di cui si è rimandato il complessivo riassetto, come accennato, ad accordi futuri e su cui quindi non ci è dato sapere nulla, nel momento in cui andremo in assemblea a discutere dell’approvazione dell’ipotesi di rinnovo.
Ma la serpeggiante presenza dei piani industriali che ci attendono, riaffiora anche nel punto più innovativo dell’ipotesi di accordo, quello che configura la formazione di uno strumento di coordinamento, finalizzato alla ricollocazione del personale.
Attraverso una piattaforma informatica avente lo scopo di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro settoriale, si assiste ad un inedito tentativo di gestione degli effetti delle ristrutturazioni. L’Ente bilaterale che ne dovrebbe sovraintendere il funzionamento, andrebbe a costituire una sorta di agenzia di collocamento settoriale, la cui scala dimensionale, potrebbe facilitare un più efficace mantenimento dei livelli occupazionali.
Il condizionale però è doppiamente d’obbligo, sia per l’incertezza dovuta ad un’articolazione normativa di dettaglio che manca, sia soprattutto, per quella che è a nostro avviso la più eclatante delle omissioni nel testo dell’ipotesi di accordo, ossia la disciplina delle esternalizzazioni.
Il generale peggioramento qualitativo dell’occupazione, con la diffusione della precarizzazione del rapporto di lavoro, si avvale prevalentemente nel nostro settore, della forma della cessione del ramo d’azienda. Per anni risparmiate da queste modalità organizzative, le banche sembrano ormai divenute gli avamposti più “avanzati” nella elaborazione di tali politiche aziendali.
Le esternalizzazioni sono divenute la principale minaccia psicologica incombente sui lavoratori del credito. Un fiume che ha abbattuto gli argini operativi tradizionali, potendo ormai riguardare qualsiasi attività svolta all’interno delle banche.
Il silenzio dell’ipotesi di accordo su questo punto, anche solo in termini di impostazione generale, è dunque assordante. Ed in connessione con il filo rosso della necessità di gestire le crisi occupazionali, sotteso ad esso, prospetta scenari davvero inquietanti.
Così come è costruita, l’ipotesi di accordo è da rigettare.
Però a nostro avviso essa pone dinanzi alle forze sindacali e ai lavoratori maggiormente conflittuali, uno spunto su cui avviare una riflessione.
Sia per quanto riguarda la piattaforma informatica di cui abbiamo già parlato, sia per ciò che concerne il prospettato Cantiere di lavoro che dovrebbe definire i nuovi profili professionali e il sistema di classificazione del personale, ci pare possa aprirsi uno spazio negoziale nuovo, solo prefigurato e teorico per il momento, ma che potrebbe essere tradotto nella possibilità di incidere sul riassetto del settore, perseguendo l’inclusione dei segmenti spinti fuori dal perimetro contrattuale dalla nuova articolazione produttiva.
Un’impostazione programmatica che però passa necessariamente per la costruzione di un diverso modello di rappresentanza sindacale, in considerazione anche del non secondario aspetto che, quale che sia il prossimo contratto collettivo, si tratterà del primo firmato nell’era del Jobs Act e dello scardinamento sostanziale dello Statuto dei lavoratori.
Ma questo è un nodo importante, che richiede una specifica discussione approfondita e su cui dovrebbero convergere le riflessioni di tutti coloro che sono disposti ad impegnarsi nella realizzazione di un ormai necessario adeguamento degli strumenti di lotta, adeguamento che a nostro avviso dovrebbe partire da una valutazione circa la funzionalità delle tradizionali categorie produttive, ad un’azione sindacale che debba tener conto del mutato contesto nazionale e, soprattutto, sovranazionale.
Il ragionamento sul contratto non può prescindere né dal contesto in cui si è svolto, né dalla vicenda dell’ultimo precedente rinnovo, che esponeva le segreterie al rischio di un nuovo e pesante flop. Lo sviluppo degli avvenimenti è stato per certi aspetti sorprendente, non era scontato né attendersi uno scontro vero (che invece in certi momenti è andato in scena non solo per finta), né una conclusione che per quanto mi riguarda è ben riassunta dal titolo “contratto prorogato” (nel bene e nel male, checché ne dica “Infoaut”).
Le banche questa volta sembravano decise ad andare fino in fondo, “cambiando verso” ad una storia di concertazione sociale “da manuale” che aveva permesso di gestire, per circa 15 anni, oltre 50.000 esodi con un patto da gentlemen, all’insegna del “non facciamoci del male”. I sindacati invece non riuscivano a credere all’evidenza, cioè a farsi una ragione del fatto che la pacchia potesse essere finita e che le cose andassero riconquistate ripartendo da zero, cominciando proprio dal loro diritto a trattare (che avevano sempre considerato acquisito in via definitiva). Per riuscire a portare a casa la pelle, cioè a ripristinare lo status quo, questa volta è stato necessario battersi o perlomeno minacciare di farlo in modo serio e organizzato, peraltro riuscendoci abbastanza bene e a volte anche oltre i prevedibili esiti.
Il rinnovo del contratto, se visto alla luce della situazione del primo semestre 2013, poteva essere immaginato in forma molto diversa: nel CCNL 19.1.2012 le banche avevano ottenuto quasi tutto, senza colpo ferire. I sindacati avevano persino truccato le carte per sostenere di avere il consenso a firmare un bidone. L’orchestrazione delle assemblee, il tentativo di sterilizzare la Campania e la Liguria ribelli, il rinvio alle calende greche delle assemblee nel Lazio, per evitare esiti letali, la generale mistificazione dei risultati non verificabili, avevano alla fine portato ad un risultato addomesticato presentabile (60-40%), ma poco credibile.
Al rinnovo del contratto era seguito il tradizionale riassorbimento della FISAC dissidente (che, nella più classica tradizione CGIL, ha considerata chiusa l’esperienza, una volta esaurita, e ha ricontrattato il riposizionamento interno), e la normalizzazione accelerata della Unisin-Falcri, ansiosa di riaccreditarsi come soggetto affidabile per il 1^ tavolo. Del Comitato per il No è rimasto in piedi, isolato e ignorato, solo lo spezzone CUB-SALLCA.
Si poteva quindi pensare che ABI avrebbe “capitalizzato la capitolazione” dei sindacati anche per il rinnovo successivo, quello che si è appena concluso. In fondo in tutti i gruppi bancari sono stati impostati, nei mesi immediatamente successivi al CCNL 19/1/2012, piani industriali di ampia portata, con esuberi ed esodi, riduzioni degli organici, solidarietà difensiva, esaurimento delle ferie, giornate di sospensione obbligatoria e/o volontaria, blocco dei percorsi professionali, non pagamento dello straordinario, peggioramento dei trattamenti di missione. Nei casi più gravi, laddove la situazione patrimoniale era così deteriorata da mettere in forse la stessa sopravvivenza dell’azienda come entità autonoma, abbiamo addirittura assistito a forti riduzioni nelle prestazioni del welfare aziendale, al blocco o alla mancata erogazione del VAP, alla riduzione dei contributi previdenziali integrativi. Quasi ovunque, si è fatto ampio ricorso a forme di utilizzo del premio sociale, a carattere assistenziale, per ridurre il peso di tasse e contributi. Il tutto ha contribuito ad una forte riduzione del costo del lavoro, che alcuni istituti hanno quantificato in almeno il 10%. Uno studio di Prometeia, ripreso dall’ABI, quantifica un calo della componente stipendi nel settore di circa 5 miliardi (da 27 a 22 miliardi) nel periodo 2007-2017. Buona parte di questo calo è ascrivibile al CCNL 19/1/2012!
ABI avrebbe quindi potuto scegliere una linea soft, puntare ad un rinnovo a basso impatto sociale, con modalità silenti e consensuali. Invece sin dalla disdetta del settembre 2013 si è capito che non sarebbe stata una passeggiata rituale.
Se andiamo a sgranare la cronologia della sequenza contrattuale, in realtà, vediamo la costante presenza di un doppio binario, la vecchia tattica dei due forni, un continuo stop & go.
Nell’agosto 2013 ABI (gestione Micheli) rende noto un documento corposo in cui dipinge un quadro drammatico della situazione del settore, ne individua le cause nell’eccesso di costo del lavoro e chiede un cambiamento radicale della struttura contrattuale. A settembre 2013 segue formale disdetta del CCNL con ben 9 mesi di anticipo rispetto alla scadenza naturale. I sindacati indicono uno sciopero per il 31 ottobre 2013. Lo sciopero riesce con alte ed estese adesioni.
La trattativa riprende e si arriva ad un nuovo accordo sul Fondo di sostegno al reddito: vengono peggiorate le prestazioni per i lavoratori che hanno ancora il sistema retributivo pieno, con penalizzazioni differenziate in base al reddito, ma lo strumento resta come principale ammortizzatore sociale di settore nel gestire lo svecchiamento della categoria e la gestione degli esuberi. Nello stesso tempo si sigla un accordo che individua un percorso di rinnovo del CCNL: entro il 28 febbraio 2014 deve essere presentata la piattaforma sindacale, entro il 31 marzo 2014 deve iniziare la trattativa.
Alla fine di gennaio compare la “bibbia”: si tratta di un documento di fonte ABI, non ufficiale, probabilmente circolato nei contatti informali tra ABI e segreterie nazionali, che si decide di non diffondere e non rendere pubblico. Difficile però smentirne l’esistenza e l’autenticità: difficile soprattutto abiurarne i contenuti, che altro non sono che la trasposizione del documento di agosto in richieste operative, declinate con puntuali e precise rivendicazioni padronali in tema di riforme contrattuali da esigere.
Il documento crea imbarazzi e smentite, è evidente e palese che ha l’intento di condizionare o sovrapporsi all’elaborazione autonoma della piattaforma rivendicativa da parte dei sindacati, che invece procedono per conto loro a predisporre un documento sufficientemente generico ed accattivante per affrontare il percorso assembleare al riparo da brutte sorprese.
I tempi slittano, ma di poco: la piattaforma è pronta per inizio aprile, le assemblee la votano a grandissima maggioranza ed entro maggio viene inviata alla controparte: ci sarebbero i tempi per cominciare a discuterne, insieme al “nuovo modello di banca” che viene proposto dai sindacati alla controparte, all’opinione pubblica, al sistema delle imprese e dei risparmiatori. L’iniziativa dei sindacati è ad ampio raggio: si propone ai lavoratori una piattaforma che punta a difendere l’area contrattuale, a limitare le iniziative aziendali su appalti ed esternalizzazioni, a condizionare i piani industriali, a difendere l’occupazione, a recuperare il potere d’acquisto attraverso una richiesta economica pari a 175 euro al mese da acquisire entro la scadenza del contratto, prevista al 30.06.2017. Nello stesso tempo si propone alle banche un patto in difesa dell’occupazione basato sull’aumento dei ricavi, sull’apertura a nuove figure professionali e a nuovi servizi (consulenza fiscale e amministrativa, intermediazione immobiliare, offerte di nuovi pacchetti di servizio, ecc.), mentre si cerca di rendersi simpatici a imprese e consumatori, sponsorizzando l’uso della leva del credito come strumento di sostegno all’economia reale, in luogo della finanziarizzazione spinta del modello economico di riferimento.
La trattativa però stenta a decollare: in ABI scade il mandato di Francesco Micheli come presidente del CASL e subentra Alessandro Profumo, che prende in mano la trattativa dalla fine di luglio 2014. Il primo scoglio da affrontare è il consolidamento in tabella degli aumenti retributivi del CCNL 19.1.2012: il famoso EDR. L’accordo del 6.10.2014 prevede l’inserimento in tabella con decorrenza 1.1.2015 e la “saldatura” del contratto scaduto il 30.6.2014 con quello nuovo che si andrà a rinnovare, auspicabilmente, entro la fine dell’anno. Ma nel merito della trattativa, a questo punto, non si è ancora entrati.
Gli incontri riprendono senza costrutto fin quando, a inizio novembre 2014, l’ABI presenta un documento di 6 cartelle che ripropone in versione stringata e sintetica le richieste che da oltre un anno “girano” attorno alla trattativa senza mai essere formalizzate. ABI chiede di depotenziare il CCNL ad una semplice cornice, che stabilisca norme e minimi retributivi base, per lasciare alla contrattazione di 2^ livello gli spazi opportuni per adattare la struttura contrattuale alle specifiche esigenze aziendali. Chiede di poter applicare ai back office trattamenti compatibili con i “mercati di riferimento”, cioè orari aumentati e retribuzioni ridotte. Propone di separare più nettamente i servizi amministrativi dalla rete commerciale, con l’introduzione di forme di lavoro autonomo. Chiede di rivedere la struttura degli inquadramenti, accorpando i livelli da 13 a 6 e porre rimedio alla situazione di eccessivo addensamento delle figure professionali nell’area dei quadri direttivi. Chiede di rinnovare il contratto a costo zero, precisando che non ci sono margini economici per concedere aumenti retributivi. Partendo da una ricostruzione degli indici d’inflazione effettiva e dalla previsione di una situazione deflattiva, offre un aumento economico dell’1,85%, precisando che nell’offerta economica devono essere inclusi anche gli effetti del ripristino degli scatti di anzianità, mentre resterebbe il blocco del TFR con il conteggio delle soli voci previste nell’ultimo triennio.
A questa impostazione dell’ABI i sindacati reagiscono con la rottura delle trattative, anche se l’indizione di scioperi è preclusa in quanto deve trascorrere il semestre di raffreddamento del conflitto previsto dal protocollo di settore del 24.10.2011. La proclamazione del 2^ sciopero di categoria viene così rinviata al nuovo anno e viene fissata al 31.01.2015, con l’indizione di 4 manifestazioni di piazza, che si svolgeranno a Milano, Ravenna, Roma e Palermo, mentre la CUB-SALLCA manifesta a Torino.
Lo sciopero ottiene un’ottima adesione e sorprendentemente anche le manifestazioni di piazza riescono bene, con una buona copertura mediatica. In particolare la manifestazione di Milano vede sfilare, oltre ad una nutrita delegazione di sindacalisti di mestiere, sia del settore che confederali, anche molti lavoratori ruspanti e partecipativi.
Il contratto dei bancari diventa per qualche settimana l’emblema di una situazione più generale in cui oltre 7 milioni di lavoratori hanno il contratto scaduto e l’azione congiunta di governo e padronato contribuisce ad alzare la tensione sociale anche in settori dove la presenza, seppure ridotta, di utili e margini potrebbe favorire la ripresa della domanda e un ruolo della contrattazione. La scarsa popolarità di cui godono i banchieri, la moderazione della piattaforma e la determinazione dei lavoratori nel partecipare alle lotte, alla fine convincono l’ABI a riprendere il negoziato con obiettivi più contenuti. La trattativa finisce per concentrarsi sui tre soli nodi della parte economica, della revisione degli inquadramenti e delle garanzie da mantenere sull’area contrattuale. Di fatto lo scambio avviene, dopo la convulsa settimana precedente alla possibile disapplicazione del contratto, tra parte economica e parte normativa.
La durata del contratto viene prorogata al 31.12.2018, gli aumenti vengono scaglionati su tre anni, con prima decorrenza 1.10.2016, la consistenza è dimezzata rispetto alla richiesta iniziale e una parte rilevante degli aumenti viene finanziata dal permanere del blocco delle voci su cui viene conteggiato il TFR. Nel corso dell’intera vigenza del contratto, che diventa quadriennale, così come la contrattazione integrativa aziendale, l’impatto economico è contenuto al 3% circa. Si tratta di un aumento infimo per la stragrande maggioranza dei lavoratori.
Gli unici ad avere qualche motivo di soddisfazione per la parte economica sono naturalmente i lavoratori di nuova assunzione, che vedono ridursi l’abbattimento del salario d’ingresso dal -18% al -10%. Per coloro che sono già in servizio, in quanto assunti/confermati sulla base del CCNL 19.1.2012, il recupero avviene a spese del FOC, che come sappiamo è finanziato per il 90% dai lavoratori (in termini di banca ore/festività soppresse) con modalità obbligatorie e per il resto dal Top management che versa con modalità volontarie il 4% della propria retribuzione contrattuale, mentre le aziende non contribuiscono per nulla (ente bilaterale molto anomalo!).
Le contropartite per l’esito umiliante della parte economica consistono nella “tenuta” dell’area contrattuale e nel “rinvio” della manovra sugli inquadramenti. Sul primo versante le aziende hanno rinunciato ad ampliare in modo incontrollato l’area dei contratti complementari, che peraltro sono previsti in contratto sin dal 1999 e che dovrebbero funzionare soprattutto nell’improbabile fase dell’insourcing, cioè quando si riportano dentro il perimetro societario delle lavorazioni appaltate all’esterno. Sul secondo versante si è deciso di aprire un “cantiere di lavoro”, che entro 12 mesi dovrebbe produrre una sintesi, da applicare poi nel contratto successivo: intanto però le banche possono contrattare nuovi inquadramenti in sede aziendale, stabilendo situazioni ex-novo.
Ovviamente viene dato molto rilievo al FOC, che da fondo bilaterale destinato a produrre o stabilizzare nuova occupazione dovrebbe estendere la sue prerogative anche al riassorbimento di lavoratori espulsi in seguito a situazioni di crisi, o alla loro riqualificazione professionale. Di fatto le aziende potranno attingere, senza obbligo, a questo bacino, se vi troveranno le competenze che cercano, mentre le risorse saranno, come prima, a carico dei lavoratori, come abbiamo già ribadito.
In sostanza le aziende portano a casa un contratto “snello”, molto distante da quello su cui puntavano, ma anche poco costoso rispetto agli impegni esigibili. Nei fatti hanno ottenuto nell’arco di tempo in cui si è svolta la vicenda contrattuale, innumerevoli e imprevisti vantaggi “extra-contrattuali”, che hanno in parte abbassato le loro pretese e intercettato le loro reiterate richieste alla “politica”. Basti pensare ai 2,5 miliardi di euro che nel triennio riusciranno a recuperare come conseguenza del nuovo trattamento fiscale riservato all’ammortamento dei crediti incagliati. Basti pensare ai 3,7 miliardi che riusciranno a risparmiare in base alla legge di stabilità e all’esenzione della base imponibile IRAP. Basti pensare ai 7,5 miliardi che hanno ottenuto come rivalutazione patrimoniale delle quote detenute in Banca d’Italia. Basti pensare agli 8.000 euro annui che riusciranno a risparmiare, per i primi tre anni, per ogni lavoratore neo-assunto, come effetto della de-contribuzione (sommando, vengono fuori 24.000 euro a cranio). Per non parlare dei vantaggi del nuovo contratto a tutele crescenti per i lavoratori assunti dopo il 7.3.2015 e delle possibilità che si aprono con le norme applicative del Jobs-Act.
I sindacati chiudono la vicenda cantando vittoria e non perdono occasione per auto-incensarsi. In realtà la trattativa si chiude con un sostanziale pareggio, che lascia totalmente irrisolti i problemi pregressi, dal peso non certo irrilevante.
Si pensi alla vicenda degli orari, di lavoro e di sportello, che sono stati liberalizzati con l’ultimo contratto e non hanno conosciuto alcuna rivisitazione critica, nonostante siano evidenti gli impatti devastanti nell’organizzazione dell’unica banca (Intesa Sanpaolo) che li ha applicati in modo esteso e massiccio.
Si pensi alla vicenda dei Consorzi ed al loro utilizzo per costituire in società pezzi di lavorazione da cedere poi a soci esterni al perimetro contrattuale del credito (Unicredit, Banca MPS, Bnl), con le fragili tutele che tendono ad indebolirsi ulteriormente nel tempo e che anche le nuove previsioni in termini di Area Contrattuale non possono impedire.
Si pensi allo spazio enorme concesso sul terreno del salario, spazio che sarà riempito da nuovi e corposi sistemi incentivanti su iniziativa aziendale, in barba a tutti gli impegni contro le politiche commerciali aggressive.
Si pensi ai nuovi modelli distributivi, che fanno ogni giorno carta straccia degli accordi esistenti in tema di inquadramenti, indennità, mansioni, e che vengono usati per anticipare nuovi schemi contrattuali, mai discussi con i rappresentanti dei lavoratori.
Non si tratta quindi di vedere il bicchiere mezzo vuoto (come fa la Fisac malpancista) o mezzo pieno (come fa “Infoaut”), ma di cogliere il senso di questo rinnovo sul piano politico e sindacale.
Un’occasione sprecata per riconquistare il terreno perduto, nonostante i rapporti di forza messi in campo in categoria di fronte alla protervia dei banchieri.
Un ulteriore passaggio verso un sistema più deregolato, dove la riduzione al minimo del recupero retributivo lascerà a mani vuote i lavoratori delle imprese in forte crisi (Mps, Carige, Banca Marche, Pop. Etruria e via commissariando) ed apre grandi spazi di discrezionalità aziendale laddove i margini restano (o tornano) più alti e la situazione patrimoniale più solida. Gli ammortizzatori sociali continueranno ad essere finanziati dal contributo dei lavoratori, in una fase dove si vedrà poca nuova occupazione e nuovo intensificarsi del flusso in uscita (anche come conseguenza delle nuove aggregazioni connesse alla riforma delle banche popolari).
Denunciare questo stato di cose anche attraverso il voto negativo sull’ipotesi di rinnovo mi sembra una scelta coerente, seppure complicata da articolare e spiegare. L’auspicio è che non tutti i quadri sindacali abbiano la mente ottenebrata da questo apparente successo e che resti un po’ di materia grigia e senso della realtà per valutare le cose nel merito e intravvedere gli scenari di mutamento radicale che si aprono nel settore.
Torino, 16.4.2015 RENATO STRUMIA