Archivio MPS

UNA FUSIONE FALLITA NON FA PRIMAVERA

 

 

Il fallimento del negoziato tra Unicredit ed il M.e.f. per l’acquisizione di Banca MPS è giunto inatteso, quando ormai l’operazione sembrava scontata.

La concentrazione in corso nel settore evidenzia un forte squilibrio tra il soggetto dominante, Intesa Sanpaolo, il suo unico inseguitore (Unicredit) e i Gruppi che seguono a grande distanza, tra medie aziende domestiche e filiali di colossi esteri.

La vicenda MPS rappresenta il fallimento plastico dell’iniziativa statale nel ripensare il ruolo strategico del credito per costruire politiche pubbliche: resta solo la socializzazione delle perdite per rimediare ai guasti delle privatizzazioni malsane.

Per i lavoratori restano aperti imprevedibili scenari di rischio e condizioni quotidiane di lavoro al limite della sopportazione. E anche i segnali di ripresa reddituale non sono sufficienti a scongiurare il pessimismo: NON STA ANDANDO TUTTO BENE, come vogliono farci credere.

Il “ritorno alla normalità” ha tutti i caratteri della restaurazione delle peggiori pratiche del passato, uno scenario che dobbiamo contrastare e combattere!

 

ECCO IL NOSTRO VOLANTINO

CUB-SALLCA Credito ed Assicurazioni

GRANDE AFFARONE DEL GOVERNO DEI MIGLIORI

GRANDE AFFARONE DEL GOVERNO DEI MIGLIORI SANARE MONTE PASCHI DI SIENA, PER POI REGALARLO AD UNICREDIT

Nell’arco delle prossime settimane dovremmo assistere alla conclusione della telenovela riguardante la fusione Unicredit-MPS.

Siamo di fronte all’ennesimo episodio di socializzazione delle perdite (immani) e privatizzazione dei profitti (futuri).

Il paradosso di questo delirio ideologico è che l’iniziativa privata debba essere favorita e protetta, a spese dei bilanci pubblici.

Lo stato deve liberarsi della banca per scongiurare la condanna per aiuti di stato, ma prima deve scucire 8 miliardi per consegnare il prodotto esente da difetti.

Risparmiatori e contribuenti hanno pagato già molto, ma il conto più pesante rischia di ricadere sui lavoratori, già provati da sacrifici e disgrazie varie.

Perdita di posti di lavoro ”pregiati”, riduzione della base occupazionale, trasferimenti e mobilità, cessioni e trattamenti peggiorativi: i lavoratori hanno già subito di tutto, ma la situazione rischia di precipitare ed è stato indetto lo stato di agitazione.

Non lasciamo che tutto vada a rotoli, senza reagire!

 

IN ALLEGATO IL NOSTRO VOLANTINO

CUB-SALLCA

 

 

 

Morelli e la rottamazione degli orologi

Durante il XXI Congresso della Fabi, l’amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena, Marco Morelli, ha dichiarato le seguenti cose:

  • La banca deve tornare a fare utili.
  • Se i lavoratori rispettano l’orario di lavoro, andando via dopo sette ore e mezza, i risultati non possono raggiungersi.

A voler pensar male, sulla base di quanto detto esplicitamente dall’AD, si potrebbe ricostruire l’implicito non detto, cioè la convinzione che la causa dei mali dell’azienda sia da individuare nello scarso coinvolgimento dei lavoratori. Ma noi vogliamo disporci nel migliore dei modi nell’analizzare le parole dell’AD e non prenderemo in considerazione la colpevolizzazione dei lavoratori che da esse emana, né il tentativo di mistificazione della realtà, confidando nel fatto che l’AD non possa ignorare quali siano le cause dell’attuale situazione in cui versa il Monte dei Paschi.

La richiesta di un allungamento dell’orario di lavoro (perché di questo si tratta) crediamo che abbia destato un certo stupore in tutti. Forse anche chi in banca non ci lavora, ma giudica i fatti della vita con il semplice buon senso, avrà percepito le affermazioni di Morelli come la classica nota stonata in una melodia che dice tutt’altro.

Ma come, si sarà chiesto l’uomo di buon senso, il settore del credito non è quello dove, a voler considerare solo gli ultimi dieci anni, vi sono stati processi di ristrutturazione che hanno riguardato tutte le banche, portando all’uscita di tantissimi lavoratori dal ciclo produttivo? Non è uno dei settori dove gli “esuberi” hanno assunto proporzioni bibliche?

Niente, più della parola esubero, descrive meglio l’asse portante su cui si sono basate le politiche aziendali. Il lavoro umano è divenuto, nella misura di migliaia e migliaia di prepensionamenti, sempre più superfluo.

Perché? Come ci ha spiegato bene l’ABI in occasione anche degli ultimi rinnovi contrattuali del 2012 e del 2015, le innovazioni tecnologiche, in particolare quelle di tipo informatico, conducono allo spostamento di una serie di servizi prima svolti in filiale verso i canali remoti.

Che il lavoro umano sia per le banche un fattore in esubero, per le esigenze di redditività, è attestato anche dall’attivazione in molte di esse, di giornate di sospensione dell’attività lavorativa. Noi al Monte siamo esperti della materia, poiché dal 2012 ci asteniamo dal lavorare per 6 giorni (o 5 o, da quest’anno, 4, per chi ha un RAL inferiore a determinate soglie) con corrispondente riduzione del salario.

Dallo stesso anno, il 2012, qui al Monte, sappiamo anche che esiste un accordo tra Banca e sindacati firmatari, per il contenimento degli straordinari.

Ma allora perché Morelli ha deciso di andare controcorrente?

In realtà le prescrizioni dell’AD sono solo apparentemente in contraddizione con i processi riguardanti il settore, ed anzi rappresentano emblematicamente la posizione che caratterizza non solo le banche, ma l’intero sistema delle imprese.

L’espulsione di forza lavoro dalla produzione di beni e servizi che si è accompagnata alla rivoluzione digitale, dopo aver permesso alle imprese di incamerare i benefici conseguenti la maggiore produttività, le pone adesso in condizione, grazie ad un quadro politico e sindacale favorevole, di poter aumentare i profitti, agendo sull’altro fattore, l’estensione del tempo lavorativo.

Lavorare in pochi, lavorare sempre di più. Questo potrebbe essere lo slogan che sintetizza la linea della parte padronale. Gli strumenti di “persuasione” non mancano, e si autoalimentano proprio grazie ad una tendenza che crea bacini di forza lavoro inutilizzata sempre più ampi, da cui attingere per sostituire i refrattari non disponibili a subordinare qualsiasi bisogno proveniente dai tempi di vita, alle primarie esigenze di profitto. In tal senso il settore del commercio, con le aperture 365 giorni all’anno e 24 ore su 24, sintetizza bene questa irrefrenabile pulsione.

I sindacati collaborativi protestano. Ma intanto il loro agire è, come sempre, fido alleato dei disegni aziendali.

Di fronte ad accordi come l’ultimo contratto di secondo livello del Monte dei Paschi, quello firmato la vigilia di Natale del 2015, che stabilisce che le prestazioni di lavoro straordinario, “potranno essere richieste dalle Aziende firmatarie esclusivamente nei casi di particolare necessità ed urgenza e non verranno autorizzate per periodi inferiori ad 1 ora e per quelle di durata superiore a detto limite, frazioni inferiori a 30 minuti.”, le chiacchiere stanno a zero.

Perché un accordo del genere, che, ricordiamolo, trova collocazione nel quadro di misure idonee al contenimento dei costi (ossia per ottemperare alle esigenze aziendali), ha semplicemente favorito una pratica di lavoro straordinario (che evidentemente continua ad essere richiesto, sempre per ottemperare ad esigenze aziendali…), con modalità che configurano vero e proprio lavoro svolto in “nero”, in quanto la registrazione delle prestazioni aggiuntive avviene dopo il cumulo di frazioni che permettono di raggiungere il minimo autorizzabile, con la inaccettabile sussistenza di lavoro effettuato ma temporaneamente non registrato e le ovvie conseguenze in termini assicurativi, infortunistici, ecc…

Morelli in definitiva, non fa altro che il suo lavoro: adoperarsi affinché dalla forza lavoro sia estratto il maggior plusvalore possibile. Vigila sul tasso di sfruttamento.

Si chiama lotta di classe ed è sempre lì. Non può cancellarla nessuna ubriacatura ideologica o postmodernismo che sia, perché rappresenta la struttura dei rapporti sociali che determinano la nostra esistenza.

L’AD svolge con zelo il suo ruolo di agente degli interessi del capitale. Noi come rispondiamo? Continuando a delegare in bianco, sindacati ormai collusi, che dovrebbero contrapporsi al rullo compressore che distrugge qualsiasi ipotesi di futuro degno di essere vissuto?

Ritirare questa delega in bianco è il primo atto per controbattere l’offensiva poderosa dei banchieri, che si abbatterà sui lavoratori per il prossimo rinnovo del contratto collettivo, e di cui, le dichiarazioni di Morelli, rappresentano le avvelenate avvisaglie.

Noi della CUB-Sallca siamo pronti ad organizzare la resistenza e la lotta dei lavoratori, contro attacchi che non hanno neanche più il pudore, delle ipocrite indorature di pillola.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Monte Paschi

Fruendo 2014, 2015 ,2016, 2017 e 2018.

I 1064  esternalizzati da Banca MPS SPA sono al quinto anno di vita lavorativa, e non, nella Fruendo SRL: il mai esistito “ramo d’azienda”, concepito prima ed inventato di sana pianta nel corso del 2013 dai tre ”incaricati” di Banca MPS SPA, Dalla Riva, Profumo e Viola,spalleggiati dai politici di Banca MPS SPA e dai sindacati di Banca MPS SPA, quelli che firmarono gli accordi sull’esternalizzazione (siglando la preesistenza ed autonomia funzionale di un ramo d’azienda mai esistito, appunto) voluta da Banca MPS SPA; ma anche, indirettamente, quelli che non li firmarono, ripromettendosi, a loro dire, di agire (quando?) nelle sedi opportunenei confronti dei loro omologhi firmatari.

La risposta degli esternalizzati ci fu (contammo circa 700 cause individuali verso Banca MPS SPA),  e c’è stata quando 250 esternalizzati da Banca MPS SPA hanno presentato un esposto/querela alla Procura della Repubblica di Siena sull’operato di quei sindacati, e sindacalisti, che firmarono quegli accordi con Banca MPS SPA; e c’è, con le 79 cause per l’esecuzione della sentenza d’appello che ha condannato Banca MPS SPA per le quali si attende sentenza il prossimo 2 marzo.

Banca MPS SPA, intanto, continua a nascondersi dietro la sua invenzione ed a prendere tempo.

Riteniamo che la maggior parte degli esternalizzati sia grata alla Banca MPS  che, in passato,  li ha assunti, alla Banca che ha consentito loro l’acquisto della prima casa, la tutela della salute propria e dei familiari, i contributi allo studio per i figli. Forse nessuno di loro si sarebbe aspettato un calcio nel fondoschiena da quella stessa Banca MPS che  li aveva assunti. Banca MPS SPA, che  si èlasciata depredare fino all’orlo del fallimento,  per poi permettere solo l’esternalizzazione di 1064 persone, senza nessun vantaggio economico o strategico. Anzi.

Chiediamo a Banca MPS SPA se quell’esternalizzazione è stata la risposta, o la soluzione, ai suoi problemi. Chiediamo a Banca MPS SPA se gli stipendi ai suoi manager (a quelli, in particolare, che si possono vantare solo di aver cacciato fuori dalla Banca una  selezione di 1064 persone) sono stati giustificati e giustificabili. Chiediamo inoltre a Banca MPS SPA se in assenza di un “vero” codice etico dispone almeno di  un codice di decenza.

In un colpo solo i lavoratori hanno perso fiducia nei sindacati firmatari e nell’azienda, ma dal  disincanto si deve passare ad una maggiore consapevolezza.

A nostro avviso questa vicenda dimostra che nessuno può sentirsi al sicuro: quello che è successo agli esternalizzati di Fruendo può accadere a tutti. Per ora la scelta delle azioni legali è stata vincente, ma non si può delegare sempre agli avvocati la soluzione dei nostri problemi.

Se riteniamo inadeguati i sindacati aziendali, la rappresentanza  dobbiamo crearcela da noi. Invitiamo i lavoratori, che hanno intrapreso azioni  legali e non hanno subito passivamente gli accordi sindacali, non ad aderire al nostro sindacato, ma a farsi essi stessi sindacato, auto organizzandosi per la tutela dei propri diritti.

Noi mettiamo a disposizione la nostra sigla di sindacato di base, la nostra esperienza e volontà di combattere. Lavoriamo  insieme per una rappresentanza sindacale che difenda i lavoratori senza compromessi al ribasso e collusioni con la controparte.

 

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Fruendo

VICENDA FRUENDO, GLI ULTIMI SVILUPPI

Circa un mese fa, i legali dei lavoratori di Fruendo, che avevano aperto una vertenza legale contro l’esternalizzazione, si sono visti recapitare da MPS e Fruendo una proposta per rinunciare al rientro in banca, in cambio di una clausola di salvaguardia, valida fino al 2031, che prevede il ritorno in MPS al verificarsi di una serie di eventi negativi.

Questa mossa aziendale dimostra, come prima evidenza, che gli avvocati,  indirettamente, sono già riusciti a strappare condizioni migliori di quelle ottenute dai sindacati che firmarono lo sciagurato accordo di cessione.

In secondo luogo, a fronte dei comprensibili timori dei lavoratori per l’esito del ricorso in Cassazione, questa offerta tardiva, da parte aziendale, dimostra che i timori della controparte sono ancora più forti.

In una situazione come questa, ci aspetteremmo che i sindacati che non firmarono l’accordo di cessione, ma che, contrariamente a noi, hanno il potere di indire assemblee, si attivassero in tal senso, per evitare che ogni lavoratore con ricorso in piedi sia lasciato da solo a fare la sua scelta.

Noi pensiamo che non solo le vertenze legali debbano andare avanti, ma che andrebbe aperta una vertenza sindacale per il rientro di tutti i lavoratori in MPS. Le vertenze legali, a nostro parere, hanno sempre una funzione complementare e non sostitutiva dell’azione sindacale.

Nel caso di esito favorevole delle cause anche in Cassazione avremmo una situazione paradossale, nella quale alcuni lavoratori (chi ha tenuto in piedi la causa) rientrerebbero in MPS, altri (chi avesse accettato la conciliazione) che resterebbero in Fruendo con garanzie rafforzate e altri ancora, chi non ha fatto causa, che resterebbero in Fruendo con le sole garanzie dell’accordo sindacale.

Mps, a seguito delle sentenze giunte fino al secondo grado, è in un’oggettiva situazione di debolezza e si deve percorrere la strada per garantire il rientro a tutti i lavoratori.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo MPS

Monte dei Paschi: la carota delle parole, il bastone dei fatti

Se la realtà fosse costituita dalle parole, i dipendenti del Monte dei Paschi di Siena non avrebbero eguali tra tutti i lavoratori, in termini di considerazione da parte dei vertici aziendali. A loro è stato più volte riconosciuto il grande merito di avere permesso alla banca di navigare nei mari tempestosi che conosciamo.

Ma la realtà, purtroppo, ha il brutto vizio di non riuscire ad adeguarsi al vestito che le parole le cuciono addosso. Per quanto il miglior sarto si prodighi nell’occultarne le vere forme, queste rimangono tali.

E’ così che, dagli strappi di quel vestito fatto di parole piene di gratitudine, encomio, riconoscimento, è fuoriuscito un vecchio e nodoso bastone.

Una prima cucitura è saltata con la proposta di introdurre, in via sperimentale, l’utilizzo del badge. I passaggi registrati non saranno solo ad inizio e fine giornata. Ma anche quelli intermedi.

Quei lavoratori che nell’eloquio aziendale sono quasi degli eroi, vanno controllati nei loro movimenti, minuto per minuto. Perché? I sindacati firmatari, che potrebbero essere interessati a porre questo quesito, non sono dello stesso avviso, evidentemente.

Una seconda cucitura si è lacerata attraverso le modalità utilizzate per “convincere” i colleghi ad aderire all’esodo volontario. E’ stata adottata la forma più raffinata delle relazioni aziendali: la minaccia. A chi lasciava intendere una mancata adesione, è stato prospettato un trasferimento in luoghi disagiati e logisticamente difficili da raggiungere.

Anni infernali, quelli vissuti dai lavoratori del Monte dei Paschi, che hanno lasciato, in molti di loro, segni profondi. Esaurimenti o vere e proprie depressioni, vissute spesso in silenzio.

Assume quindi un valore beffardo l’invio di lettere di revoca della franchigia relativa alla presentazione di certificato medico per i primi tre giorni di malattia. Il comunicato unitario dei sindacati firmatari, pur evidenziando l’odiosità di una misura che colpisce, nella quasi totalità, dipendenti che rientrano al lavoro prima del previsto per senso di responsabilità, non va oltre la blanda richiesta di aumentare il periodo di riferimento del monitoraggio a due anni, senza nemmeno provare ad argomentare che la regola della franchigia non ha impedito lo sviluppo della banca e che nessun nesso, a meno che non si voglia mistificare completamente la realtà, è mai esistito tra questioni attinenti la quantità e la qualità del lavoro dei dipendenti del Monte dei Paschi e le sabbie mobili in cui esso si è impantanato. Dunque perché, adesso, divengono centrali aspetti concernenti il controllo della forza lavoro?

Come noto, la totale assenza di democrazia sindacale nel settore bancario ha pesato fortemente sulla perdita di diritti e salario dei lavoratori, nel periodo apertosi con la privatizzazione del sistema creditizio. Adesso però risulta arduo non vedere la trasformazione delle organizzazioni sindacali firmatarie in enti para-aziendali, organicamente integrati nell’esecuzione della governance dettata dal management.

Un fulgido esempio ce lo offre un punto dell’accordo sui prepensionamenti, nella parte che prevede un finanziamento della banca per i lavoratori esodati, nel caso in cui una legge intervenga nel frattempo, modificando i requisiti di accesso alla pensione. Una sorta di anticipo pensionistico oneroso, analogo a quello realizzato dal governo. Vale la pena ricordare, visti i tempi che viviamo, che la pensione è salario differito. Far pagare un interesse, sul proprio salario, che non si riesce a percepire, nell’ipotesi che una norma di legge varata dai rappresentanti politici del capitale, ne posticipi il godimento pur dopo 42, 43 o più anni di lavoro, è un’infamia che si traduce nella cessione di pezzi di quel salario alla rendita finanziaria.

Anche in questo caso i sindacati firmatutto non hanno nulla da eccepire sull’introduzione perniciosa del principio. Chiedono solo che il tasso d’interesse, previsto al 4,50%, venga…ridotto.

Quello a cui si assiste al Monte dei Paschi è un avvitamento autoritario, repressivo, che configura una forte regressione nei rapporti capitale-lavoro. E questo proprio nel momento in cui quel capitale diviene sostanzialmente pubblico, con il Ministero dell’Economia e delle Finanze assurto ad azionista di riferimento. Una nazionalizzazione finora accompagnata da forme di attacco ai diritti e alla dignità dei lavoratori, che nulla di buono lascia presagire. Ma su questo aspetto, la nazionalizzazione e le possibili azioni dei lavoratori che facciano perno su di essa, ritorneremo. La nostra voce non si spegnerà. Ma per farla pesare, abbiamo bisogno del vostro sostegno.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo MPS

Brevi considerazioni sugli “esodi” al Monte Paschi

DA CUB SALLCA GRUPPO MPS
a iscritti/e lavoratrici e lavoratori

La firma dell’accordo per l’accesso al Fondo di 1200 colleghi, come quota per il 2017 dell’attuazione del Piano di Ristrutturazione 2017-2021, si presta ad alcune considerazioni

E’ evidente che la situazione di crisi di MPS non dipende dai lavoratori, ma dalle scelte sciagurate del management. E’ peraltro noto che in questo paese chi sbaglia, stando in alto, non paga mai ed infatti il prezzo degli errori è stato pagato dai lavoratori, con accordi che hanno azzerato il contratto integrativo e portato all’esternalizzazione di un migliaio di lavoratori (su questo torneremo).
Un esodo su base volontaria, quindi, non è certo la peggior sciagura capitata finora ai lavoratori di MPS. Eppure un dettaglio fastidioso (per usare un eufemismo) c’è anche qui. Laddove si ipotizza un eventuale cambiamento delle regole pensionistiche durante la permanenza nel fondo (allungamento dell’età pensionabile), l’accordo prevede un generico impegno delle Parti a reincontrarsi, ma, nel frattempo, si offre ai lavoratori in difficoltà l’opportunità di accedere ad un prestito, fino al raggiungimento della pensione, al modico tasso del 4,50% (si veda allegato). Davvero una condizione di maggior favore ai dipendenti nell’epoca dei tassi negativi!

Sempre nell’accordo, si cita “l’importanza di un coinvolgimento attivo del Sindacato”. Vista questa generosa disponibilità aziendale, perchè non utilizzarla, come primo gesto, per discutere del reintegro degli oltre 1.000 dipendenti esternalizzati in Fruendo di cui parlavamo all’inizio?
Un obiettivo che sanerebbe un’operazione illegittima (come già stabilito da numerose sentenze di secondo grado), porrebbe fine al trascinarsi del contenzioso legale, soprattutto ribadirebbe un principio che i sindacati dovrebbero sempre tenere come stella polare del loro operato, l’unità del processo produttivo, contro ogni tentativo di spezzettarlo in modo strumentale.

BANCHE VENETE E MONTE PASCHI: CRONACHE DI UNA MORTE ANNUNCIATA

Alla fine è avvenuto quello che era largamente prevedibile: le banche venete sono fallite e sono state azzerate, il Monte dei Paschi di Siena è stato nazionalizzato con la procedura di risoluzione e lo stato si fa carico di un disastro senza precedenti.

I venti miliardi stanziati a fine anno per risolvere i casi disperati saranno utilizzati a piene mani per prevenire una crisi di tipo sistemico che avrebbe potuto assumere dimensioni disastrose. Paghiamo anni d’inerzia e d’ipocrisia, di mancanza di controlli, di complicità politiche e storture istituzionali, di latitanza dei sindacati trattanti e di vincoli giuridici assurdi.

Lo Stato e quindi noi, come contribuenti, pagheremo il costo più salato (non meno di 12-15 miliardi), mentre come dipendenti bancari, ancora noi,  saremo tutti chiamati a contribuire al risanamento tramite la sopportazione di tagli di costo che devono ancora essere quantificati.

Proviamo a ricostruire come si è arrivati a questa tragica conclusione e quale futuro ci attende per i prossimi mesi.

La crisi delle banche italiane è emersa con ritardo, rispetto al panorama internazionale. Subito dopo l’esplosione del caso Lehman, le banche più grandi del mondo erano così esposte ai derivati e ai  mutui subprime da dover fare massiccio ricorso a ricapitalizzazioni statali per restare a galla.

Mentre esaltavano le virtù del mercato e del privato, i grandi colossi della finanza venivano salvati con risorse e garanzie pubbliche, usate per comprare i loro titoli tossici ed evitare un crollo generale. Superato il guado, sono tornate puntualmente le pratiche speculative precedenti, i bonus ai super manager e la prassi delle “porte girevoli”, fino al prossimo giro di giostra…

Come si ricorderà, le banche italiane disdegnarono gli aiuti pubblici, vantando solidità inesistenti derivanti dal proprio modello di business, ancorato al finanziamento dell’economia reale. Chi, come MPS, aveva appena comprato a prezzi stratosferici una banca destinata a svalutarsi nel breve, tentò di camuffare la realtà attraverso derivati leggendari (Alexandria, Santorini, ecc.).

In questo ha pesato anche la dottrina ideologica imperante: mai più lo stato nelle banche, basta lasciare i privati liberi di agire ed ogni problema si risolve in automatico!

Un primo segnale di allarme arrivò con il 2011: la crisi dello spread fece emergere che i bilanci bancari, pieni di titoli di stato in picchiata, non erano poi così solidi di fronte a shock “esogeni”. Ma arrivò Draghi alla BCE e varò prima l’LTRE (che fornì alle banche dell’area euro enorme liquidità a tasso zero, per ricomprare i BTP e   titoli simili a prezzi infimi), e poi il Quantitative Easing che riuscì a riportare in alto proprio i prezzi dei titoli in portafoglio. Scampato pericolo!

Intanto il governo italiano prestava qualche aiutino: nel 2013 la rivalutazione delle quote in Banca d’Italia, una nuova disciplina fiscale degli ammortamenti per smaltire le perdite in bilancio in cinque anni anziché diciotto, procedure più rapide per escutere le garanzie sui crediti finiti mali.

Fino alla fine del 2015 sembrava che tutto questo fosse bastato. Persino la borsa italiana (piena zeppa di titoli bancari e finanziari) ci credette e l’anno finì con un +13.9%, l’indice migliore tra quelli dei paesi avanzati. Ma le cose belle sono destinate a finire presto.

Tra il 2013 ed il 2014 era accaduto qualcosa di travolgente. Sulla spinta dei paesi “core” dell’Unione Europea, che avevano già risolto prima i loro casini bancari con capitali e garanzie pubbliche, si era arrivati all’approvazione della direttiva sul bail-in, cioè il divieto di affrontare e risolvere le crisi bancarie con il concorso di risorse pubbliche. L’intento era quello di impedire ai paesi “lassisti” di salvare i risparmiatori a spese dei bilanci statali: il risultato pratico è stato quello di innescare una miccia in grado di attivare una bomba ad orologeria, che è puntualmente arrivata ad esplodere nell’arco di pochissimo tempo.

La normativa sul bail-in viene applicata in Italia per la prima volta con la risoluzione delle banche del centro, nel novembre 2015. Per valutare i crediti deteriorati viene applicato un parametro sorprendentemente basso: il 17%. Se questo parametro venisse applicato a tutte le banche italiane, i trecentosessanta miliardi di sofferenze lorde, o gli ottantacinque miliardi di sofferenze nette, varrebbero molto meno di quanto sia correntemente contabilizzato nei bilanci ufficiali: l’effetto sul patrimonio e sulle quotazioni azionarie è devastante. Nell’arco di poche settimane il valore di borsa delle banche italiane scende di cinquanta miliardi di euro!

Siamo di fronte ad un brusco risveglio: dalla crisi Lehman il Pil italiano è già sceso del 10% ed il prodotto manifatturiero di circa il 25%. Le banche hanno reagito con una contrazione del credito, che non le ha però esentate da una crescita spaventosa di crediti incagliati, crediti dubbi e sofferenze conclamate.

L’abbattimento dei tassi da parte della BCE ha peraltro inferto un colpo durissimo al margine d’interesse, la storica componente principale dei ricavi bancari: l’effetto congiunto dei tassi zero e delle sofferenze a palla ha incrinato definitivamente l’equilibrio fragile su cui poggiavano le banche. Chi non aveva spalle abbastanza larghe, cioè canali di raccolta a basso costo e struttura dei ricavi orientata alla gestione del risparmio, è entrato nella fase della lotta per la sopravvivenza. La crisi di fiducia e la fuga dei depositi dalle banche percepite come “a rischio” ha fatto il resto e precipitato gli avvenimenti.

Il Monte dei Paschi non ha trovato soci privati per il suo aumento di capitale nel 2016, né partner bancari che se la siano sentita di assumerne attività e passività: l’intervento dello Stato al 70% è diventato, obtorto collo, l’unica via.

Per le banche venete è stata adottata una soluzione diversa: parte sana a Intesa Sanpaolo per un euro, bad-bank e cause legali allo Stato. Adesso colti ed incliti gridano allo scandalo, ma nessuno è stato in grado di proporre alternative concrete.

ISP assume nel proprio perimetro cinquanta miliardi di raccolta da garantire e 11.000 lavoratori che avrebbero rischiato moltissimo. I termini sono noti e la trattativa ha già prodotto un primo accordo: 1.000 esodi dalle ex banche venete, su base volontaria e senza incentivi. Saranno coinvolti tutti i dipendenti, dirigenti esclusi, che maturano i requisiti pensionistici entro il 2024 (7 anni). A latere: “superamento” della contrattazione integrativa aziendale, fatti salvi in via transitoria alcuni punti cardine (assistenza sanitaria, previdenza complementare, ticket pasto, condizioni agevolate, ecc.).

Più avanti si comincerà a discutere di taglio dei costi e si porrà il grave problema della mobilità territoriale, inevitabile conseguenza del piano di sostanziale azzeramento della rete distributiva delle ex-banche venete, cui si aggiunge la “razionalizzazione” della rete ISP. Oltre 600 filiali da chiudere non lasciano grandi margini di speranza in regioni di forte insediamento come il nord-est, ma anche Toscana, Puglia o Sicilia non saranno esentate.

A traguardo raggiunto, cioè acquisito il consenso dei primi 1.000 esodandi, partirà la procedura per almeno altri 3.000 dal perimetro ISP, appartenenti ad un bacino che ricomprende 6.500 lavoratori/trici (in questo caso dirigenti inclusi, con requisiti in maturazione entro il 2022). Per gli uni e per gli altri verranno utilizzate risorse pubbliche, con rifinanziamento del Fondo a carico dello Stato.

Entro la fine dell’anno avremo quindi un quadro definitivo delle “partenze”. In questo contesto verrà chiesto dall’azienda un taglio dei costi, che dovrà essere contrattato in un quadro di rapporti di forza ben diverso rispetto a quello precedente: sembrano passati anni luce dai precedenti rinnovi contrattuali. Quello del 2012 (sotto il governo di salute pubblica di Monti-Fornero), in cui la categoria subì un durissimo ridimensionamento in termini di tutele, al punto di bocciare in massa il contratto nelle assemblee (evento che fu arginato con i soliti trucchetti dai sindacati firmatari). Ma anche quello del 2015, quando, dopo quattro scioperi nazionali, si arrivò ad un compromesso transitorio, a costo zero per le aziende, in cui si scambiarono aumenti ridicoli e differiti con ulteriori sterilizzazioni di oneri contributivi su TFR e Previdenza complementare.

Adesso le banche pensano che siano maturi i tempi per mettere mano a quello stravolgimento dell’impianto contrattuale che è da lungo tempo auspicato e su cui si registrano fin troppe disponibilità da parte sindacale.

Lavoro di manomissione che è già cominciato concretamente proprio in quella banca (ISP) che si è fatta carico di risolvere il problema veneto come “banca di sistema” e che ora si candida a modello da seguire, pensando di avere conquistato la credibilità, il prestigio e la legittimità per chiedere e ottenere quello che vuole.

Nell’accordo sulle assunzioni ibride in ISP, del 1^ febbraio scorso, c’è già il modello prescelto per affrontare il nodo della scarsa redditività delle banche degli anni a venire: la condivisione degli oneri con i lavoratori (e con i clienti, aggiungiamo noi).

Infatti è noto che sta per entrare in vigore la MIFID II, che impone agli intermediari bancari di esplicitare ai clienti il totale dei costi cui sono sottoposti nel loro rapporto commerciale con l’azienda. Il recepimento della direttiva (dopo dilazioni e rinvii non più differibili) è previsto in Italia per il 1^ gennaio 2018: non sarà molto diverso, come impatto, da quello che è stato il bail-in.

Ma mentre questo agiva sul livello di affidabilità (reale o percepita) delle banche, la Mifid II avrà un impatto diretto sui ricavi, perché costringerà a ridurre o azzerare le commissioni di caricamento (implicite o esplicite) sui prodotti collocati e dare maggiore visibilità anche alle commissioni di gestione applicate.

Non è difficile pensare alla reazione dei clienti e alla loro prevedibile disaffezione verso modelli distributivi orientati su gamme di prodotti opachi e costosi, che dovranno avere per legge una struttura dei costi molto più trasparente ed esplicita.

Le banche dunque esprimono l’intenzione di muoversi su due piani: da un lato sostituire le commissioni sul gestito con il contratto di “consulenza evoluta” per stabilizzare i ricavi, dall’altra sostituire i contratti di lavoro dipendente con forme di lavoro autonomo, per ridurre i costi in misura correlata al prevedibile calo dei ricavi.

Non è altro che la richiesta del 2013 di ridurre la componente fissa del salario e la pressione per spostare sui lavoratori il rischio della variabilità dei risultati, in modo da condividere l’imprevedibilità del mercato, E nello stesso tempo si rafforza, in automatico, la responsabilità, la disciplina, l’autosfruttamento (diremmo noi!) del lavoratore. Le pressioni commerciali diventerebbero finalmente superflue, perché incorporate nel meccanismo di funzionamento del sistema. A questo punto si può anche fare a meno di una buona dose di capetti, che ora hanno il solo compito di controllare i vari fogli excel (non previsti dalle procedure aziendali) per poi redarguire chi non riempie a sufficienza le caselle.

Come categoria abbiamo quindi di fronte il rischio gigantesco di arretrare in modo sensibile su tutto l’impianto contrattuale, a coronamento di una fase in cui abbiamo già perduto molto: il controllo sull’orario di lavoro effettivo, il potere d’acquisto, la dignità professionale, la vivibilità del clima aziendale.

La difesa dell’occupazione, che ovviamente resta la priorità assoluta in una fase di forti turbolenze come l’attuale, non deve fare perdere di vista la necessità di difendere anche i diritti normativi e le condizioni retributive.

Si tratterà sotto ricatto e avremo pressioni enormi per cedere in via definitiva diritti fondamentali. Tutto rischia di avvenire nel più totale distacco tra rappresentati e rappresentanti, senza alcun rispetto delle più elementari norme di democrazia e di partecipazione. Cercheranno di calarci dall’alto accordi impresentabili e vorranno imporli senza discussione. Dipende da noi subire ancora una volta, o provare a cambiare strada.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni

Monte dei Paschi di Siena: un disastro costruito con metodo

“Oggi la banca è risanata, e investire è un affare. Su Monte dei Paschi si è abbattuta la speculazione ma è un bell’affare, ha attraversato vicissitudini pazzesche ma oggi è risanata, è un bel brand”. Matteo Renzi, Presidente del Consiglio dei Ministri, al Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016.

Una valutazione ragionata sul disastro Monte Paschi di Siena richiede almeno tre livelli di analisi.

Il primo livello attiene alla questione del “mercato” e del suo evidente fallimento nella soluzione della crisi, non solo del caso specifico e non solo del settore bancario, ma dell’intero sistema economico.

A dire il vero occorre estendere il ragionamento all’intera esperienza della privatizzazione delle banche italiane, per arrivare alla disarmante verità: il privato ha fallito e il pubblico ne deve pagare il prezzo. In estrema sintesi le banche pubbliche, trasformate in spa, privatizzate e quotate a partire dai primi anni ’90, sono diventate aziende come le altre, oggetto di contesa e speculazione, spremute per profitti di breve periodo, allontanate dalla originaria missione del fare credito e finanziare l’economia reale, infine abbandonate al loro triste destino. Malamente difese da scalate estere ostili, tramite barriere regolamentari anacronistiche e fusioni “difensive”, che hanno consegnato agli azionisti ricchi e intempestivi dividendi, frutto delle “economie di scala”, le banche italiane sono arrivate alla grande crisi con una struttura patrimoniale inadeguata per solcare mari in tempesta.

Avendo alle spalle uno stato finanziariamente debole e all’interno un management (strapagato) gravemente incapace e incosciente della gravità dei problemi, i banchieri (quasi tutti) hanno respinto sdegnosamente gli aiuti di stato (i famosi Tremonti Bond) per paura di  perdere potere. Mentre i crediti dubbi crescevano in modo esponenziale, le fondazioni faticavano a sorreggere gli aumenti di capitale resisi necessari e quindi si cercavano all’estero capitali di ventura (da Blackrock ai fondi sovrani arabi o libici), per racimolare capitale, possibilmente non troppo esigente nel pesare sugli assetti di comando.

Dieci anni di recessione hanno fatto esplodere i casi più disperati, che peraltro non sono frutto del caso, ma della combinazione perversa tra poteri forti, politica d’accatto, vigilanza latitante, elusione delle regole. Non dimentichiamo che Mussari (MPS) è stato per due mandati stimato presidente dell’ABI, con Berneschi (Carige) tra i vicepresidenti. Un parterre de roi, oggi indaffarato con inchieste penali non di poco conto. Mentre le banche tedesche, francesi, inglesi, olandesi, belghe venivano assistite dallo stato con centinaia di miliardi di euro, per restare in piedi dopo evidenti fallimenti tecnici, le banche italiane affermavano seriamente di essere solide e competitive sul “mercato”, tranne pochi casi isolati, opportunamente commissariati. Si diceva che presto anche per loro sarebbe arrivata una “soluzione di mercato”.

Si  procedeva così al recepimento, anche in Italia, della normativa europea del “bail-in”, che significa rifiutare gli aiuti di stato alle banche in difficoltà e azzerare il valore di azioni e obbligazioni subordinate, per passare poi, se necessario, alle obbligazioni senior e ai depositi sopra i 100.000 euro. Ricetta prontamente applicata al caso delle quattro banche fallite nel novembre 2015, scadenza che ha di fatto aperto le porte del baratro al sistema bancario italiano e scatenato una crisi che si cerca ora disperatamente di tamponare con l’intervento pubblico da 20 miliardi, per prevenire crisi sistemiche incombenti.

Le “soluzioni di mercato”, mantra ideologico martellante ma inservibile quando si tratta di scucire miliardi privati per scongiurare disastri imminenti, non si sono viste: Mediobanca e JP Morgan hanno fallito nel trovare compratori per MPS e il fondo del Qatar ha scelto di starne fuori. Il cerino in mano è rimasto ai piccoli risparmiatori, pieni di obbligazioni subordinate, e in ultima analisi ai contribuenti italiani, che dovranno ristorarne le perdite, sempre che l’UE non si metta di traverso, come già stanno facendo i falchi tedeschi e i custodi dell’ortodossia “di mercato”.

Ed è solo l’inizio di una partita lunga, che servirà da battistrada per altri dossier scottanti, che stanno ancora bollendo in pentola. Attaccare il nostro sistema bancario, fragile per i suoi 85 miliardi di crediti deteriorati netti, per la perdita di 5,6 miliardi di ricavi in 10 anni e per il crollo degli utili (dai 22,7 miliardi di euro nel 2007 ai 3,7 miliardi nel 2015) è lo sport preferito negli ambienti finanziari europei: farlo a pezzi è funzionale per chi punta magari a prendere il controllo di questo contenitore, che ingloba pur sempre il corposo risparmio degli italiani, uno dei più alti al mondo.

E arriviamo così al secondo livello del ragionamento, che prende in considerazione la disastrosa gestione politica della crisi bancaria italiana. Non è fuori luogo ricordare le “porte girevoli” che vedono circolare sempre gli stessi personaggi, tra aule universitarie, C.d.a. delle banche e poltrone di governo: Passera, Fornero, Monti, Profumo (Alessandro e Francesco), l’immarcescibile Bazoli, l’impresentabile Verdini, le telefonate compromettenti degli ultimi arrivati (“Abbiamo una banca?”), il conflitto di interessi della Boschi e tanti altri personaggi da operetta, che si sono trovati quasi casualmente a ricoprire ruoli di responsabilità in settori delicatissimi. Basti pensare al duo Renzi-Padoan, cui va attribuita, per intero, non tanto l’origine della crisi di Monte Paschi, ma certamente la sua incredibile e fallimentare gestione finale. Già nel 2013 il Fondo Monetario (avete letto bene, il Fondo Monetario…) aveva suggerito la nazionalizzazione della banca, ma il governo italiano riuscì a far depennare la frase nel documento finale!

E per tutto il 2016, a crisi ormai conclamata, sotto i colpi devastanti della vigilanza europea (che sorvola sui derivati delle banche dei paesi “core” ma sbertuccia le banche dei paesi “piigs”) Renzi e Padoan hanno rimandato tutto all’esito del referendum (per fare cosa?), affidandosi alla JP Morgan, che ha imposto a luglio il cambio di direzione, con la defenestrazione di Viola e l’intronamento di Morelli, capo di JP Morgan Europa e già direttore finanziario MPS all’epoca dell’acquisto scellerato di Antonveneta. Intanto i risparmiatori votavano con i piedi, ritirando 20 miliardi di depositi dalle casse del Monte, mentre gli obbligazionisti subordinati, terrorizzati dalla possibile perdita integrale del capitale come nel caso Etruria, accettavano obtorto collo di convertire i propri titoli in azioni. Tutto inutile, tutto da rifare…

Adesso il decreto del governo apre una difficile transizione: lo stato salirà al 70% del capitale, la banca emetterà 15 miliardi di titoli per rifinanziarsi nel 2017, ma non è affatto chiaro cosa significhi il modello di salvataggio prescelto (“burden sharing” in luogo del “bail-in”). Perché non parlare in italiano e spiegare bene ai risparmiatori come funzionerà la conversione delle loro obbligazioni subordinate prima in azioni e poi dopo di nuovo in obbligazioni senior? Quanto perderanno? Quanto costerà l’operazione alle casse dello stato? Perché si insiste già sul ruolo “provvisorio” dello stato, da non protrarsi oltre i 12-24 mesi? Perché bisogna fare intervenire lo stato per evitare casini e poi restituire tutto ai privati quando si può ricominciare a guadagnare?

Sono interrogativi retorici, che denunciano l’avvenuta e totale perdita di sovranità, in cambio dei diktat che recepiscono le direttive “del mercato”…

E così arriviamo al terzo livello, quello che alla fine ci interessa di più: le conseguenze sui lavoratori di questa situazione kafkiana, che vede uscire sconfitti tutti i soggetti “deboli”, mentre i giocatori d’azzardo avranno fatto affari memorabili, puntando prima sui ribassi e poi sul salvataggio pubblico. Negli anni i lavoratori MPS hanno subito svariati piani industriali che hanno pesato enormemente sugli organici, sulle condizioni retributive, sui diritti normativi, sul welfare aziendale. L’esternalizzazione di 1.000 lavoratori in Fruendo è stato il passaggio più traumatico, ancora oggetto di vertenze legali controverse. I diritti sono stati calpestati in nome della sopravvivenza dell’azienda, ma le rinunce non sono bastate per evitare il peggio.

L’ultimo piano industriale, varato a ottobre, prevedeva 2.900 esuberi e 500 chiusure di filiali, ma non è stato mai discusso veramente, dato che tutto dipendeva dalla ricapitalizzazione, poi fallita. L’accordo ponte firmato il 23 dicembre è poco più di un pannicello: manda a casa 600 addetti che maturano i requisiti pensionistici entro il 31.5.2022 e qualche decina di colleghe con “l’opzione donna”. Per gli altri passeranno altri mesi di angoscia e di incertezza, prima che un nuovo e più draconiano piano industriale emerga dalle nebbie dell’intervento pubblico. E’ grave che il management, Morelli in testa, sia stato riconfermato, a prescindere dal fallimento del suo “progetto”. Per i lavoratori MPS si apre una stagione durissima, come già si intravede per i casi più noti (fusione Veneto Banca – Pop. Vicenza, fusione Banco Popolare – BPM, vicenda Carige, accordo Cariferrara e  risoluzione delle altre tre banche fallite).

Di fronte ad una riproposizione seriale di piani lacrime e sangue, solo l’unità della categoria e la solidarietà di sistema possono garantire soluzioni accettabili. Non sarà una passeggiata, ma la mobilitazione e la lotta hanno dimostrato, in altre situazioni e in altri settori in crisi, di pagare sul piano dei risultati concreti. Nel contempo bisogna aprire la discussione sul bilancio da trarre da questi 25 anni di privatizzazione del credito e sui caratteri e le prospettive della sua ri-nazionalizzazione.

Ed anche sul ruolo dei rappresentanti sindacali dei lavoratori bancari, che hanno spesso condiviso l’entusiasmo per le privatizzazioni, convinti di avere così un maggior potere negoziale (magari con forme di cogestione), e devono oggi prendere atto di un clamoroso fallimento, dalle conseguenze pesantissime. Non sarà mai troppo tardi per cambiare registro e ricostruire sulle macerie l’idea di un sindacato diverso che, anziché concertare e collaborare con i vertici aziendali, faccia dell’autonomia la propria bandiera ed usi il conflitto per difendere gli interessi di chi rappresenta.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Monte dei Paschi di Siena

www.sallcacub.org               sallca.cub@sallcacub.org

http://www.facebook.com/SALLCACUB

Sede Legale: Milano – Viale Lombardia 20; tel. 02/70631804; fax 02/70602409

Sede Operativa: Torino – Corso Marconi 34 tel. 011/655897  fax 011-7600582

 

SOSTENERE LA LOTTA DEI LAVORATORI FRANCESI, RIPRENDERE QUELLA IN ITALIA

lottefranciaLa CUB-SALLCA è ovviamente al fianco delle lavoratrici e dei lavoratori francesi da mesi, ormai, in lotta contro la Loi Travail, il loro Job Act per capirci.

Stridente è il contrasto con il nulla che è successo in Italia in primo luogo a causa della passività dei sindacati concertativi.

Allucinante il velo di silenzio che i principali mass media tentano di stendere su quanto sta accadendo.

Anche la maggior parte dei nostri colleghi ha un livello di informazione e conoscenza dei fatti del tutto inadeguato.


A SEGUIRE (e in allegato) TROVATE UN EFFICACE DOCUMENTO PREDISPOSTO DALLA NOSTRA STRUTTURA DEL MONTE PASCHI. 

Naturalmente la situazione è in costante evoluzione (si parla di casse di resistenza internazionali, di manifestazioni di fronte alle ambasciate francesi,…) e, per quanto possibile, cercheremo ancora di informarvi su eventuali iniziative che coinvolgano direttamente la nostra organizzazione ed il sindacato di base in generale.

.

SOSTENERE LA LOTTA DEI LAVORATORI FRANCESI, RIPRENDERE QUELLA IN ITALIA

La grandiosa mobilitazione della classe lavoratrice francese per il ritiro della Loi Travail, dopo aver mostrato la forza della compattezza e della determinazione, inizia ad essere attaccata dal capitale e dai suoi mestatori politici e mediatici, con le consuete formule ideologiche che fanno perno sull’incompatibilità di quanto richiesto dai lavoratori, con le esigenze relative alla competitività del Paese sullo scenario internazionale. È una commedia già vista fin troppe volte, seppur con declinazioni diverse. È, in fondo, lo stesso ricatto posto al popolo greco al tempo del referendum.
La Loi Travail per alcuni aspetti ricalca il Jobs Act del governo Renzi, per altri anticipa quelle che sono le richieste presenti nell’agenda della Confindustria.
Il provvedimento del governo Hollande pone gli accordi aziendali in posizione prevalente rispetto ai contratti collettivi, estende la possibilità dei licenziamenti economici anche per l’abbassamento significativo degli ordinativi o per una riorganizzazione aziendale, offre al datore di lavoro la possibilità di imporre per cinque anni riduzioni di salario e aumenti dell’orario di lavoro.
La lotta dei lavoratori francesi riafferma la centralità del lavoro nei processi di trasformazione sociale, rompendo la cortina che ne aveva relegato il ruolo a mera appendice di dinamiche economiche e finanziarie autoreferenziali.
Questa volta noi lavoratori europei non possiamo fallire. Nostro compito è quello di delineare una chiara strategia di sostegno alla protesta francese.
Alcune organizzazioni sindacali e politiche hanno proclamato giornate di mobilitazione con manifestazioni e presidi davanti ai consolati francesi, in diverse città d’Italia.
Accanto a queste iniziative, noi proponiamo l’istituzione di una cassa di resistenza a supporto dei lavoratori francesi, che dopo un periodo di intensa mobilitazione, si apprestano ad affrontare il peso dello sciopero illimitato, proclamato dal fronte sindacale che si oppone alla controriforma del lavoro.
La cassa di resistenza va collocata in una prospettiva a lungo termine, nella quale si dovranno sviluppare forme maggiormente strutturate di lotta su scala sovranazionale, forme che finora si sono realizzate per quanto concerne l’Europa, attraverso la fusione a freddo dei vertici burocratici sindacali, senza alcun reale peso sulla dialettica tra imprese e lavoratori.
Da ciò l’inevitabile marginalità politica del lavoro, con il proliferare di “riforme” ostili attuate da governi di destra o di “sinistra”.
Le condizioni dei lavoratori – strette tra la morsa delle politiche deflattive assunte dalle autorità europee e la posizione di forza del capitale, determinata dalla sua ampia capacità di spostarsi alla ricerca di un costo del lavoro inferiore – stanno progressivamente tornando ad essere quelle preesistenti alle conquiste del movimento operaio del secondo dopoguerra.
Con la cassa di resistenza, oltre a perseguire lo scopo di un sostegno concreto alla lotta dei lavoratori francesi, possiamo esprimere la nostra distanza dai vertici dei nostri sindacati collaborativi e dalla loro inerzia complice.
Che continuino a non proclamare scioperi per riforme come quella della Fornero o il Jobs act, passate come noto, senza colpo ferire. Che perseverino sulla strada dell’ammiccamento con un potere politico, che non si sbarazza di loro definitivamente, solo per il ruolo di ammortizzatori del conflitto sociale che continuano a svolgere. Lasciamoli soli a raccogliere firme per una Carta dei diritti universali che mai nessun parlamento nazionale approverà, visto che dovrebbe verificarsi una completa inversione di tendenza, degli stessi rappresentanti che hanno provveduto a smantellare il perno su cui si reggeva lo Statuto dei lavoratori, attraverso la cancellazione dell’articolo 18, di cui le imprese richiedono ora l’applicazione nella nuova forma senza reintegro, anche per gli assunti prima dell’entrata in vigore del Jobs Act…
Cruciale diviene allora porci al fianco dei lavoratori francesi, per sostenere la loro lotta e per riprendere quella in Italia. Tutto deve contribuire a materializzare la nostra presenza al loro fianco, anche per rompere il muro di silenzio che i nostri asserviti mezzi di comunicazione di massa hanno innalzato su tali vicende.
Il limite del contesto nazionale si può abbattere così.
Oggi il fuoco divampa in Francia. Domani sarà di nuovo in Grecia o in Portogallo. Chissà forse in Italia.
E avremo solo una certezza: quanto faremo adesso, verrà metabolizzato dal soggetto collettivo in fieri, di respiro europeo, che accrescerà sé stesso.
La lotta di ci dirà il resto.