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SOSTENERE LA LOTTA DEI LAVORATORI FRANCESI, RIPRENDERE QUELLA IN ITALIA

lottefranciaLa CUB-SALLCA è ovviamente al fianco delle lavoratrici e dei lavoratori francesi da mesi, ormai, in lotta contro la Loi Travail, il loro Job Act per capirci.

Stridente è il contrasto con il nulla che è successo in Italia in primo luogo a causa della passività dei sindacati concertativi.

Allucinante il velo di silenzio che i principali mass media tentano di stendere su quanto sta accadendo.

Anche la maggior parte dei nostri colleghi ha un livello di informazione e conoscenza dei fatti del tutto inadeguato.


A SEGUIRE (e in allegato) TROVATE UN EFFICACE DOCUMENTO PREDISPOSTO DALLA NOSTRA STRUTTURA DEL MONTE PASCHI. 

Naturalmente la situazione è in costante evoluzione (si parla di casse di resistenza internazionali, di manifestazioni di fronte alle ambasciate francesi,…) e, per quanto possibile, cercheremo ancora di informarvi su eventuali iniziative che coinvolgano direttamente la nostra organizzazione ed il sindacato di base in generale.

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SOSTENERE LA LOTTA DEI LAVORATORI FRANCESI, RIPRENDERE QUELLA IN ITALIA

La grandiosa mobilitazione della classe lavoratrice francese per il ritiro della Loi Travail, dopo aver mostrato la forza della compattezza e della determinazione, inizia ad essere attaccata dal capitale e dai suoi mestatori politici e mediatici, con le consuete formule ideologiche che fanno perno sull’incompatibilità di quanto richiesto dai lavoratori, con le esigenze relative alla competitività del Paese sullo scenario internazionale. È una commedia già vista fin troppe volte, seppur con declinazioni diverse. È, in fondo, lo stesso ricatto posto al popolo greco al tempo del referendum.
La Loi Travail per alcuni aspetti ricalca il Jobs Act del governo Renzi, per altri anticipa quelle che sono le richieste presenti nell’agenda della Confindustria.
Il provvedimento del governo Hollande pone gli accordi aziendali in posizione prevalente rispetto ai contratti collettivi, estende la possibilità dei licenziamenti economici anche per l’abbassamento significativo degli ordinativi o per una riorganizzazione aziendale, offre al datore di lavoro la possibilità di imporre per cinque anni riduzioni di salario e aumenti dell’orario di lavoro.
La lotta dei lavoratori francesi riafferma la centralità del lavoro nei processi di trasformazione sociale, rompendo la cortina che ne aveva relegato il ruolo a mera appendice di dinamiche economiche e finanziarie autoreferenziali.
Questa volta noi lavoratori europei non possiamo fallire. Nostro compito è quello di delineare una chiara strategia di sostegno alla protesta francese.
Alcune organizzazioni sindacali e politiche hanno proclamato giornate di mobilitazione con manifestazioni e presidi davanti ai consolati francesi, in diverse città d’Italia.
Accanto a queste iniziative, noi proponiamo l’istituzione di una cassa di resistenza a supporto dei lavoratori francesi, che dopo un periodo di intensa mobilitazione, si apprestano ad affrontare il peso dello sciopero illimitato, proclamato dal fronte sindacale che si oppone alla controriforma del lavoro.
La cassa di resistenza va collocata in una prospettiva a lungo termine, nella quale si dovranno sviluppare forme maggiormente strutturate di lotta su scala sovranazionale, forme che finora si sono realizzate per quanto concerne l’Europa, attraverso la fusione a freddo dei vertici burocratici sindacali, senza alcun reale peso sulla dialettica tra imprese e lavoratori.
Da ciò l’inevitabile marginalità politica del lavoro, con il proliferare di “riforme” ostili attuate da governi di destra o di “sinistra”.
Le condizioni dei lavoratori – strette tra la morsa delle politiche deflattive assunte dalle autorità europee e la posizione di forza del capitale, determinata dalla sua ampia capacità di spostarsi alla ricerca di un costo del lavoro inferiore – stanno progressivamente tornando ad essere quelle preesistenti alle conquiste del movimento operaio del secondo dopoguerra.
Con la cassa di resistenza, oltre a perseguire lo scopo di un sostegno concreto alla lotta dei lavoratori francesi, possiamo esprimere la nostra distanza dai vertici dei nostri sindacati collaborativi e dalla loro inerzia complice.
Che continuino a non proclamare scioperi per riforme come quella della Fornero o il Jobs act, passate come noto, senza colpo ferire. Che perseverino sulla strada dell’ammiccamento con un potere politico, che non si sbarazza di loro definitivamente, solo per il ruolo di ammortizzatori del conflitto sociale che continuano a svolgere. Lasciamoli soli a raccogliere firme per una Carta dei diritti universali che mai nessun parlamento nazionale approverà, visto che dovrebbe verificarsi una completa inversione di tendenza, degli stessi rappresentanti che hanno provveduto a smantellare il perno su cui si reggeva lo Statuto dei lavoratori, attraverso la cancellazione dell’articolo 18, di cui le imprese richiedono ora l’applicazione nella nuova forma senza reintegro, anche per gli assunti prima dell’entrata in vigore del Jobs Act…
Cruciale diviene allora porci al fianco dei lavoratori francesi, per sostenere la loro lotta e per riprendere quella in Italia. Tutto deve contribuire a materializzare la nostra presenza al loro fianco, anche per rompere il muro di silenzio che i nostri asserviti mezzi di comunicazione di massa hanno innalzato su tali vicende.
Il limite del contesto nazionale si può abbattere così.
Oggi il fuoco divampa in Francia. Domani sarà di nuovo in Grecia o in Portogallo. Chissà forse in Italia.
E avremo solo una certezza: quanto faremo adesso, verrà metabolizzato dal soggetto collettivo in fieri, di respiro europeo, che accrescerà sé stesso.
La lotta di ci dirà il resto.

Trivelle: Referendum del 17 Aprile

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Il 17 aprile si vota per il referendum abrogativo che punta a fermare (anche prima dell’esaurimento del giacimento) gli impianti di trivellazioni petrolifere collocati entro 12 miglia marine dalle coste italiane.

L’iniziativa è promossa dai Comitati NoTriv e da nove regioni ed è sostenuta da un ampio arco di forze politiche e sindacali.

Anche la CUB-SALLCA ritiene importante il successo del SI al referendum e si impegnerà a diffonderne le ragioni tra le lavoratrici ed i lavoratori del settore.

In primo luogo, alleghiamo un vademecum esplicativo sul quesito referendario che invitiamo tutte/i a leggere con attenzione e diffondere quanto più possibile.

Altro materiale lo potete trovare sul sito:

http://www.notriv.com/ 

o alla pagina 

https://www.facebook.com/Coordinamento-Nazionale-No-Triv-1428315400765373/

Naturalmente sono attivi o stanno sorgendo in questi giorni anche molti comitati locali attraverso i quali si può ottenere materiale aggiuntivo e/o conoscere le iniziative a livello territoriale.

E’ IL MERCATO, BELLEZZA: BANCHE FALLITE E RISPARMI BRUCIATI

banchefallitebdi Renato Strumia

Il caso delle quattro banche fallite (Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti, Cariferrara) ha messo in subbuglio il sistema bancario e portato un allarme generale tra i piccoli risparmiatori: per l’ennesima volta ci troviamo di fronte ad un caso grave di crack, come quello dell’Argentina,  di Parmalat, di Cirio. Le dimensioni del fenomeno sono questa volta più circoscritte ma le sue conseguenze non meno gravi. Quello che colpisce è ancora una volta la latitanza pluriennale delle istituzioni deputate a vigilare e intervenire, da una parte, e l’interventismo autoritario del governo, dall’altra. Senza questi due elementi devastanti, si sarebbero potute trovare soluzioni diverse, meno dannose per i piccoli risparmiatori (uno per la disperazione si è già suicidato), e più utili per una stabilizzazione sistemica. Al di là delle speculazioni politiche sul ruolo dei parenti della ministra Boschi nel fallimento di Banca Etruria (giustificabile vista la personale antipatia che sprigiona la più arrogante delle serve di Renzi), è utile provare a ragionare su quello che la vicenda esprime sul piano politico, economico e finanziario.

Le quattro banche coinvolte erano in dissesto da tempo e alcune commissariate fin dal 2013. La crisi dei “distretti” industriali (la dorsale adriatica, l’oro di Arezzo, ecc.) si è accompagnata al crollo dei prezzi degli immobili (tradizionale garanzia degli impieghi bancari). A tutto questo si è probabilmente aggiunta la responsabilità di amministratori incapaci, inadeguati nel valutare il cambiamento di scenario e superare i limiti dell’eccessiva concentrazione su attività locali destinate al fallimento. La “banca del territorio” si è dimostrata un modello superato ed ha finito per tradire proprio quella realtà locale da cui aveva tratto linfa e ricchezza, come già era accaduto, su scala ancora più ampia, con il Monte dei Paschi di Siena, minato da ambizioni di crescita e arroccamento locale. Inutile dire che in tutto questo marasma il ruolo dei politici, locali e nazionali, è stato pesantissimo, attraverso quelle Fondazioni che adesso hanno, anche loro, perso tutto: soldi, cariche, potere.

Poteva anche finire diversamente, abbiamo detto. La soluzione delle crisi bancarie ha sempre avuto in Italia una storia diversa: i depositi, i conti correnti, le obbligazioni, venivano garantite dal Fondo Interbancario di tutela dei depositi (un consorzio tra banche che mutualmente intervenivano per sostenere i risparmi affidati a istituti in difficoltà); le sofferenze venivano incluse in una “bad-bank” e messe a carico del bilancio

pubblico; la continuità aziendale veniva garantita attraverso l’assorbimento delle banche in dissesto da parte di qualcuna più sana e solvibile. Così erano stati affrontati storicamente i casi patologici: Banco Ambrosiano, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, insieme ad una miriade di casi minori che non hanno neanche fatto cronaca, se non per riempire i giornali di provincia. In questi casi, escludendo gli azionisti, nessuno si era “fatto male”: si salvava capra e cavoli e si ripartiva con bilanci ripuliti, anche e soprattutto a carico del contribuente, cioè della fiscalità generale. Era un sistema discutibile, ma certamente “mutualistico”.

Lo stesso metodo è stato applicato su scala amplissima in ambito europeo dopo la crisi Lehman. Tutti i principali paesi hanno infilato centinaia di miliardi di euro nelle banche in crisi, dai 250 miliardi della Germania, ai 600 miliardi del Regno Unito, passando per Francia, Belgio, Olanda, Spagna, Irlanda, Portogallo e così via. Il paese ad essere intervenuto di meno è stata proprio l’Italia, che varò i Tremonti Bond, utilizzati per 4 miliardi di euro dal Monte Paschi e in misura molto minore da altre tre banche: fondi a tassi d’interesse elevatissimi,  restituiti quasi tutti dopo poco tempo e sostituiti da aumenti di capitale, finanziati dagli azionisti privati e dalle fondazioni. E’ così che il sistema bancario italiano è stato aggredito e penetrato, come tutti gli altri principali settori industriali, dal capitale internazionale, dai fondi sovrani di matrice araba, cinese o norvegese, dai fondi privati di matrice anglosassone e così via. Mentre si ridimensiona, per vicende di mercato o per decreto legislativo, il ruolo delle fondazioni (presidio ormai sempre più fragile nella difesa degli assetti societari), cresce il ruolo degli investitori internazionali nel controllo del sistema italiano: la più solida delle banche italiane (Intesa Sanpaolo) ha il 65% di soci esteri; la più grande (Unicredit) annovera come principale azionista Abu Dhabi (6%), seguito da Libia (3%), Cina (2%), Allianz (2%), Abn-Amro (2%), mentre le fondazioni italiane, tutte insieme, pesano meno del 10%.

Il paradosso di tutto questa vicenda è lo sviluppo degli avvenimenti che ha preso il nome di “bail-in” (salvataggio interno). Se infatti le più grandi banche europee, minate dai titoli tossici, sono state salvate nel 2008-2009 dal “bail-out”, cioè l’intervento pubblico finanziato dai contribuenti, ora si è deciso che questo non deve accadere più. Dal 2014 è in atto questa direttiva, che doveva essere recepita negli ordinamenti nazionali entro il 1.1.2016. Era evidente a tutti che il governo italiano avrebbe dovuto salvare le quattro banche con il sistema tradizionale prima di quella data: tutti davano per scontato l’intervento del Fondo Interbancario e la loro messa in sicurezza prima della fine dell’anno, come era stato fatto poco tempo prima con la Tercas (la Cassa di Teramo). Invece è accaduto qualcosa di inverosimile: sondati non meglio precisati “ambienti europei”, sembra sia emerso un parere negativo che avrebbe considerato aiuti di stato un eventuale intervento del governo attuato con le modalità tradizionali. Da qui il blitz del governo, che a metà novembre ha recepito in anticipo le norme sul bail-in e quattro giorni dopo ha deciso di applicarlo immediatamente alle quattro banche, azzerando il valore sia delle azioni che delle obbligazioni subordinate. Come vedremo, questo è l’aspetto più sconcertante dell’intera vicenda, perché va a toccare una categoria di risparmiatori che, nella loro stragrande maggioranza, non sono speculatori professionisti e non avevano gli strumenti per pesare ciò che stavano sottoscrivendo.

Il decreto che applica il bail-in chiama all’intervento le 208 banche italiane che intervengono pro-quota in base ai propri depositi, viene varata una nuova holding che eredita le nuove banche in attesa di piazzarle sul mercato, viene creata una bad-bank dove vengono infilati 8.5 miliardi di sofferenze, e viene versata una cifra pari a 3.6 miliardi di euro (come anticipazione) da parte di Intesa Sanpaolo, Unicredit e UBI. Se qualcosa va storto la Cassa Depositi e Prestiti interviene alla fine garantendo fino a 1 miliardo di euro (quindi lo zampino di intervento di Stato c’è eccome). In questo modo vengono salvati i conti correnti, i depositi e le obbligazioni (senior), mentre vengono di fatto cancellate le azioni e le obbligazioni subordinate emesse dalle precedenti banche.

Su questo occorre aprire un’ampia parentesi, perché è qui che si tocca la parte più sensibile dell’intera operazione e si vedono le caratteristiche più scandalose della manovra.

Che una serie di banche (forse tutte) siano sottocapitalizzate, è evidente da tempo. I criteri con cui le autorità europee giungono a queste conclusioni sono spesso indifendibili: i derivati di cui è piena Deutsche Bank non vengono considerati alla stessa stregua dei crediti delle banche italiane, o portoghesi, o greche. La raccomandazione è stata quindi quella di rafforzare il capitale con strumenti ibridi: un mix di nuove azioni e obbligazioni particolari, definite “subordinate”, perché nel caso di fallimento, la loro restituzione è subordinata al veder prima soddisfatti gli altri creditori. Sono strumenti che rendono un po’ di più, ma hanno associato un rischio che si è dimostrato altissimo. Ma quelle obbligazioni sono state offerte allo sportello a risparmiatori ignari di ciò che compravano e del resto era opinione diffusa (anche nei bancari che le vendevano) che in fondo in Italia non si era mai vista una banca fallire senza salvataggio alcuno.

Il risveglio però è stato devastante: si parla di oltre 10.000 risparmiatori rimasti con il cerino in mano, dopo aver investito tutti i loro averi in questo tipo di strumenti.

La pavidità del governo nel non voler affrontare un eventuale giudizio negativo dell’Unione europea su un più tradizionale intervento di salvataggio ha messo sul lastrico migliaia di soggetti deboli, proprio in quelle regioni dove il consenso al PD era più diffuso e convinto. Dopo il latte versato, il governo sta affannosamente cercando di tamponare la rivolta popolare, varando un decreto da 100 milioni di euro per garantire un ristoro parziale (30%) alle persone che rischiano l’indigenza, ma la dimensione del disastro è ben più ampia (si parla di 800 milioni di bond subordinati, oltre al valore delle azioni andato in fumo).

Le stesse cifre sulle persone coinvolte sono molto ballerine: si va dai 10.000 ai 130.000. Comunque sia è stato inferto un durissimo colpo alla credibilità del sistema bancario, all’affidabilità del governo nel gestire in futuro situazioni similari e soprattutto al livello di sovranità ancora esistente sul piano politico.

Tutto quello che accade in Italia è deciso a Bruxelles, da un pugno di burocrati che credono (o fingono di farlo) che davvero i pensionati italiani vadano in banca a comprare strumenti speculativi, per lucrare interessi elevati, in piena consapevolezza di quanto possa accadere. E questa convinzione ipocrita viene di fatto avallata da un provvedimento del governo che preferisce tirare un colpo di spugna sulle responsabilità di Banca d’Italia, Consob e parenti dei propri ministri, mentre polverizza i risparmi di una vita di migliaia di famiglie incolpevoli.

Ora che il danno è stato fatto, non sarà facile ricostruire l’immagine di un sistema profondamente corrotto. Lo si vede nella classe politica, che esprime personalità connotate da istinti predatori. Lo si vede nella classe di governo, accomunata solo dalla sete di potere e dallo sfruttamento delle sue prerogative. Lo si vede nella classe imprenditoriale, assente e latitante rispetto alla tenuta di una struttura industriale in disfacimento.

Lo si vede nella casta sindacale, che ha di fatto tollerato lo smantellamento della struttura contrattuale (incluso il varo del jobs-act, che si applicherà anche ai 6.000 dipendenti delle quattro banche fallite). Lo si vede nel sistema finanziario in generale e in quello bancario in particolare, in cui manager ed amministratori percepiscono prebende milionarie anche quando creano buchi spaventosi, senza mai fare ammenda o chiedere scusa.

Le obbligazioni bancarie subordinate in circolazione superano i 60 miliardi di euro già solo in Italia: non sarà così facile convincere i risparmiatori che possono dormire sonni tranquilli, dopo quanto è successo. Il venir meno di ogni sicurezza, prima in campo lavorativo e previdenziale, ora anche nel campo degli investimenti

e del risparmio, porta ad un diverso ruolo dello stato: non più apparato solidale che redistribuisce in senso egualitario correggendo gli squilibri del mercato, ma istituzione ad uso esclusivo delle classi proprietarie, che ne traggono vantaggio per sé, mentre scaricano sui più deboli i costi di ogni ristrutturazione, di ogni “risanamento”, di ogni salvataggio.

Un salto in avanti rispetto al classico refrain “privatizzare i guadagni e socializzare le perdite”: qui siamo giunti al punto che anche la socializzazione delle perdite è mirata a colpire solo le categorie più indifese.

Un utilizzo dello stato sempre più imbarazzante, al servizio di meccanismi sempre più selvaggi di competizione per le risorse: questo è il paradigma che si va imponendo e che dovremo imparare a combattere.

RIFLESSIONI SULLO SCIOPERO DEL 12 DICEMBRE

    Volantino

DA SEGRETERIA NAZIONALE CUB-SALLCA

Venerdì 12 dicembre c’è lo sciopero generale indetto da CGIL e UIL cui si è unita l’UGL e, per la nostra categoria, UNISIN-FALCRI.

Per i bancari e gli assicurativi è la seconda occasione, dopo lo “sciopero sociale” del sindacalismo di base del 14 novembre, per protestare contro le politiche governative ed il Jobs Act. Non solo “articolo 18” ma anche “controlli a distanza” e “demansionamenti”, provvedimenti come noto sollecitati e attesi in particolare proprio dall’ABI. Si gioca quindi una partita decisiva anche in vista del nostro rinnovo contrattuale.

Il 12 dicembre non è chiaramente una tappa del nostro percorso. Troppo grandi rimangono le distanze che ci separano dai sindacati concertativi che sono tra i primi responsabili della situazione nella quale ora ci troviamo (come ricordiamo nel volantino allegato).

E tuttavia, di fronte all’arroganza dei banchieri e ad uno scellerato governo che fa della precarietà e ricattabilità del lavoro il suo biglietto da visita, è necessario fare fronte comune.

Le tante lavoratrici ed i tanti lavoratori che hanno scioperato con noi il 14 novembre nelle aziende e nei territori dove il SALLCA è maggiormente radicato lo hanno fatto, del resto, nella piena consapevolezza che, in una situazione così deteriorata, sono necessari tempi lunghi per far crescere e rendere più incisive le mobilitazioni e ricostruire la consapevolezza anche e soprattutto di una categoria come la nostra.

Siamo stati utili e continueremo ad esserlo.

14 NOVEMBRE: SCIOPERO GENERALE

newlokIl governo Renzi prosegue le politiche devastanti dei governi precedenti, applicando al nostro paese le ricette consigliate dalla BCE e dalla Commissione Europea. Sia la legge di stabilità che le misure sul mercato del lavoro ribadiscono la continuità con le scelte precedenti: attacco ai diritti per i lavoratori già occupati, precarietà e disoccupazione per quelli senza lavoro.
Dall’inizio della crisi sono stati persi 2 milioni di posti di lavoro, la produzione industriale è scesa del 25% ed il prodotto interno lordo del 10%, la disoccupazione giovanile sfiora il 45% ed aumenta il tasso di povertà. Chiediamo una svolta immediata nelle scelte strategiche di politica economica: bisogna ricostruire un apparato produttivo sostenibile, ricreare milioni di posti di lavoro stabili, riattivare una domanda adeguata. Bisogna riattivare una crescita sana, con più produzione e meno finanza.
Non sarà il Jobs Act a realizzare questo cambiamento: da lì può venire soltanto un colpo ulteriore alla tenuta occupazionale, sia quantitativa che qualitativa. Abolire l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori permetterebbe alle aziende di licenziare di più ad personam, modificare l’art. 4 sui controlli a distanza consentirebbe al datore di lavoro un controllo più forte sulla prestazione lavorativa, ritoccare l’art. 13 sui demansionamenti significherebbe accettare l’arretramento delle condizioni lavorative e professionali.
Quest’ultima misura sembra stare particolarmente a cuore all’ABI: le spianerebbe la strada per svuotare l’attuale normativa degli inquadramenti nel settore bancario, sostituendola con una struttura piatta, con paghe di posto (revocabili) ed incentivi legati ai risultati. Nella trattativa sul CCNL si è già costituita una commissione che lavori su questo.
Anche sul capitolo assunzioni, il Jobs Act promette bene: il contratto a tutele crescenti, l’azzeramento dei contributi nei primi tre anni, la prospettiva di un periodo di prova dilatato per anni, consentirebbe alle banche una forte riduzione dei costi, anche rispetto all’attuale apprendistato. Si parla di un ulteriore abbattimento del salario d’ingresso rispetto alle tabelle retributive. Un paradiso per i tagliatori di costi.
Nel settore assicurativo la tornata contrattuale si preannuncia ugualmente pesante. Nel settore esattoriale vige ancora il blocco dei contratti imperante per tutto il settore pubblico.
Occorre fermare questa deriva deleteria per i diritti del lavoro e per la democrazia.
Anche nei nostri settori è necessario dare una risposta forte ai progetti aziendali e governativi. Per questo la CUB-SALLCA sostiene lo sciopero generale e invita tutti i lavoratori e lavoratrici dei nostri settori a scioperare.
Lo sciopero del sindacalismo di base è stato regolarmente indetto, come sempre, nel rispetto delle normative di legge, anche per i nostri settori, per l’intera giornata di VENERDI’ 14 NOVEMBRE con manifestazioni nelle principali città.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni

VERSO LO SCIOPERO GENERALE DEL 14 NOVEMBRE PER NON TORNARE A ESSERE SCHIAVI

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DA SEGRETERIA NAZIONALE CUB SALLCA

Sul Jobs Act molte discussioni (e molte chiacchiere) sono state fatte, il più delle volte sollevando un polverone che impedisce di capire come stanno realmente le cose.
Tralasciando il fatto che la delega votata al Senato è veramente una delega in bianco, proviamo a fare il punto della situazione con alcune nostre righe di commento, ma vi invitiamo a leggere con attenzione il documento allegato, scritto da due studiosi della materia: le conclusioni non esprimono necessariamente il nostro punto di vista, ma l’analisi delle ultime “riforme” sul lavoro è chiarissima e vale la pena di leggere fino in fondo.
Il punto di partenza della politica del governo Renzi sul lavoro doveva essere la lotta della precarietà. Infatti il primo atto, attraverso il decreto Poletti, è stato rendere ancora più precario il contratto a tempo determinato cancellando l’obbligo della causale, ponendo il limite di 5 rinnovi al contratto, ma non in capo alla persona, bensì alla mansione: dopo il quinto rinnovo basta riassumere lo stesso lavoratore con una mansione diversa e la giostra precaria può ripartire.
Ora, con il Jobs Act, il governo vorrebbe di nuovo far credere di combattere la precarietà con il contratto chiamato pomposamente “a tutele crescenti”.
Intorno a questo “nuovo” contratto si è aperto uno stucchevole dibattito rispetto all’art. 18. Tale articolo non solo è stato abbondantemente manomesso dalla riforma Fornero, ma la discussione ha sempre girato intorno al dilemma se applicarlo o meno ai neoassunti dopo 3 anni: prima saranno liberamente licenziabili in ogni momento e senza motivazione!
Così lo smantellamento dei diritti è completo tra contratti a tempo determinato privi di vincoli e contratti a tutele crescenti inesistenti.
Per finire due parole su quanto resta dell’art.18.
La riforma Fornero aveva prodotto uno strappo, purtroppo, decisivo, consentendo il licenziamento individuale per motivi economici. Un licenziamento consentito, fino a quel momento, solo in forma collettiva (la “famosa” Legge 223) in presenza di una formale dichiarazione di crisi aziendale.
Ora il licenziamento individuale per motivi economici diventa un giustificato motivo per mandare a casa il dipendente: in questi casi il giudice, il più delle volte, evita di entrare nel merito delle ragioni economiche addotte dalle aziende e anche quando il lavoratore, che ha l’onere della prova, riuscisse a dimostrare la pretestuosità della misura, il reintegro resterebbe comunque a discrezione del giudice.
Allo stesso modo, per quel che riguarda il licenziamento per motivi disciplinari, il reintegro è possibile solo se il lavoratore dimostra che il fatto non sussiste. Resta qualche margine se i motivi disciplinari sono pretestuosi o il provvedimento è sproporzionato.
Rimane solo il reintegro per i licenziamenti discriminatori, una misura che deriva direttamente dal nostro ordinamento costituzionale ma, come abbiamo già scritto, nessuna azienda è così sprovveduta da dichiarare un licenziamento con tale motivazione: sarà ancora il lavoratore a dovere dimostrare che dietro al licenziamento economico o per motivi disciplinari si nasconde altro.
Quindi il governo si appresta a togliere anche quel poco che resta dell’art.18 per i futuri assunti. Pensare che l’occupazione possa crescere facilitando i licenziamenti e azzerando i diritti non è solo iniquo, è semplicemente inefficace senza misure di rilancio dell’economia che nella legge di stabilità sono assenti.

JOBS ACT: L’UGUAGLIANZA SECONDO IL GOVERNO RENZI

Dopo tanti anni di ingiustizia sociale, finalmente il governo Renzi ha scoperto che ci sono lavoratori garantiti e lavoratori senza garanzie e ha deciso, attraverso il “Jobs Act”, di superare questo stato di disuguaglianza inaccettabile: via le garanzie per tutti!!

Il dibattito sulle tutele crescenti (ma non troppo) per i neoassunti è cascato ancora una volta sulla vecchia questione dell’art.18 e ancora una volta sta scadendo a livelli aberranti.
 
Si sostiene che per aumentare l’occupazione si deve…licenziare. Non aggiungiamo commenti, anche perchè nell’epoca delle guerre “umanitarie” la logica non è più di casa.

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1984 MINERS STRIKE

Il 1984 è l’anno del big strike, il grande sciopero dei minatori in Gran Bretagna, di cui ricorre il trentennale. Il governo Thatcher scelse di privatizzare il settore dell’energia e nel contempo di scardinare il potente movimento sindacale britannico, colpendo la categoria più forte…i minatori.

Per un intero anno, dal 6 marzo 1984 al 5 marzo 1985, migliaia di minatori gallesi e inglesi scioperarono per la difesa dei loro posti di lavoro, per impedire la chiusura delle miniere e per evitare lo stravolgimento della vita d’intere comunità, storicamente basate sull’attività mineraria.Fu uno scontro durissimo tra il governo del primo ministro Margaret Thatcher insieme alla National Coal Board (l’ente di controllo dell’industria carbonifera) da una parte e dall’altra la NUM-National Union of Mineworkers (il sindacato dei minatori britannici). Intere comunità, migliaia di famiglie arrivarono a soffrire letteralmente di fame e di freddo in seguito alla durezza e alla lunghezza dello sciopero, ma la maggioranza di loro tenne duro, tra pestaggi della polizia e continui arresti.

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