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FIRMATA L’IPOTESI DI ACCORDO PER IL RINNOVO DEL CCNL BANCARI

IL COMUNICATO DELLA SEGRETERIA NAZIONALE DELLA CUB-SALLCA

 

E’ stata firmata in data odierna l’ipotesi d’accordo per il rinnovo del contratto dei bancari.

Il testo andrà analizzato in modo approfondito, ma un commento a caldo si impone, data anche la solita roboante girandola di giudizi esaltanti e sproloqui retorici che in queste occasioni si sprecano. Pochi punti danno il senso dell’operazione di rinnovo:

1) l’aumento medio a regime di 190 euro mensili è scaglionato in tre anni, a partire dal 1/1/2020;

2) non c’è alcun recupero per l’intero 2019;

3) il contratto slitta di un anno, fino al 31/12/2022;

4) non viene ripristinata la base di calcolo per il TFR, che secondo gli stessi conteggi dei sindacati, da solo fa risparmiare alle aziende 690 euro medi a dipendente all’anno;

5) non ci sono novità certe per quanto riguarda il ripristino dell’art. 18 sulla norma relativa ai licenziamenti;

6) l’abbattimento della riduzione per il salario d’ingresso degli assunti già in servizio grava sul Fondo per l’Occupazione, cioè in fin dei conti sui contributi versati dai lavoratori con maggior tempo lavorato.

 

Detto questo per correttezza di informazione, vanno riconosciuti e valorizzati quei punti normativi che rappresentano oggettivi passi in avanti per la difesa degli interessi non solo economici dei lavoratori. Un giudizio complessivo affrettato non potrebbe che basarsi su ragionamenti sommari, mentre invece merita di prendere le mosse da un’attenta lettura dell’articolato contrattuale, che potrà avvenire con tempi adeguati, visto che le assemblee partiranno solo tra qualche settimana.

BANCHE: LA MAPPA DELLE CRISI ED IL CASO UNICREDIT

 

Il sistema bancario italiano continua ad essere investito da crisi cicliche che ne mettono a dura prova stabilità ed equilibrio. Mentre a livello nazionale si chiude il rinnovo del contratto, scaduto da un anno, con modalità che definire opache è un eufemismo, continuano a riproporsi crisi e vicende aziendali caratterizzate da forti difficoltà.

Il caso Carige sembra avviarsi verso una possibile soluzione, dopo l’assemblea dei soci di settembre, l’accordo sindacale da 1.200 esodi di novembre ed il recente aumento di capitale da 800 milioni di euro, che ha aperto la strada al ritorno delle contrattazioni in borsa ed il passaggio alla nuova gestione della Cassa Centrale Banca e del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi.

Un’altra vicenda drammatica è quella della Banca Popolare di Bari, che è stata commissariata da Banca d’Italia il 13 dicembre, con l’esigenza di ricapitalizzare per almeno un miliardo di euro, con il prevedibile concorso di Mediocredito Centrale e (nuovamente) del Fondo Interbancario. Un caso che è subito diventato anche un caso politico, perchè richiama in causa la questione dei salvataggi bancari, così come sono stati attuati in Italia dopo l’introduzione del bail-in e poi con la nazionalizzazione del Monte Paschi, la rottamazione delle banche venete a cura di Intesa Sanpaolo e per ultima la soluzione già citata del caso Carige, con un forte intervento statale.

La varietà dei governi non ha impedito l’adozione di provvedimenti simili, se non addirittura copiati, in mezzo a polemiche accese e spesso strumentali, che non hanno portato alcun elemento di chiarezza rispetto al ruolo pubblico nella gestione delle banche “fallite”: la nazionalizzazione MPS è restata alla fine la classica socializzazione delle perdite, mentre le banche “private” che sono intervenute per rilevare le banche decotte hanno incassato lauti contributi statali, presto trasformati in distribuzione di dividendi agli azionisti.

Ora siamo però, con il caso Unicredit, ad un punto di svolta che impone serie riflessioni sul futuro del “business” bancario e le annesse conseguenze sul lavoro impiegato nel settore. Con la presentazione del piano industriale 2020-2023 la banca ha gettato la maschera, confermando sostanzialmente le voci che correvano sin dall’estate scorsa: 8.000 esuberi, di cui 5.500 in Italia, e chiusura di 500 filiali di cui 450 in Italia.

Non si tratta, come negli altri casi citati, di un’azienda in crisi: nei primi nove mesi del 2019 la banca ha fatto 3.3 miliardi di euro di utile. Non si tratta di una banchetta locale investita da eventi imprevisti: parliamo di un colosso presente in 17 paesi, con 84.600 dipendenti e 4.500 filiali, che produce i suoi ricavi per il 47% in Italia, per il 21% in Germania, per il 10% in Austria e per il 22% nell’Europa dell’Est. E’ un’azienda che sin dai tempi di Alessandro Profumo ha basato la sua strategia su un modello di espansione paneuropea, realizzata con previsioni sbagliate, aspettative deluse, errori gestionali gravi.

L’esplosione della crisi finanziaria del 2008 ha fatto giustizia di progetti poco ponderati e costretto tutte le banche a fare i conti con la realtà. Unicredit ha dovuto dare corso ad aumenti di capitale corposi (l’ultimo, nel 2017, da ben 13 miliardi di euro) e nello stesso tempo battere in ritirata, vendendo tutti i migliori gioielli di famiglia (BankPekao, Fineco, Pioneer, Mediobanca) ed uscire dalle zone disastrate (Ucraina, Turchia).

Non resta molto su cui fare affidamento, le previsioni sul contesto economico sono molto conservative e prudenti (oseremmo dire realistiche). Nel nuovo piano Team 23 i tassi vengono visti molto bassi (Euribor – 0,50% fino al 2022 e poi – 0,40% nel 2023) e questo per una banca è un problema serio. Anche le altre componenti di ricavo (le commissioni sul gestito, le negoziazioni in proprio) vengono viste in stallo o addirittura in calo. Come si fa allora a garantire agli azionisti un adeguato ritorno sul capitale investito, se non c’è neanche più la possibilità o la convenienza di ulteriori fusioni e quindi nuove economie di scala?

Restano com’è ovvio soltanto i tagli lineari al personale e la chiusura degli sportelli! Tagliare sui costi per difendere gli utili, questo diventa il mantra di Unicredit per i prossimi 4 anni…

Certo non si tratta di una vera e propria novità: dal 2007 ad oggi la banca ha già fatto a meno di 22.000 addetti e si è liberata di altri 3.000 con cessioni ed esternalizzazioni. Tuttavia non sfugge a nessuno il salto di qualità, nell’adottare un piano che esplicitamente si propone di tutelare solo gli interessi degli azionisti e rompe con la retorica dominante che di solito parla in difesa di tutti gli “stake-holders”.

Obiettivo dichiarato è infatti quello di generare 16 miliardi di euro di nuovo capitale e distribuirne metà ai soci (6 miliardi tramite dividendi cash e 2 miliardi tramite buy-back delle azioni), mentre l’altra metà andrebbe al rafforzamento patrimoniale per soddisfare i requisiti regolamentari.

Un miliardo di euro dovrebbe provenire dal taglio del personale, con oneri di ristrutturazione che per la gran parte sarebbero concentrati in Italia e spesati già nel 2020.

Il costo del personale subirebbe in questo modo un vero e proprio tracollo: il totale degli stipendi pagati passerebbe da 6.423 milioni del 2018 ai 5.844 del 2023, mentre invece il rapporto costi/ricavi risulterebbe in calo di oltre tre punti già alla fine del 2021, scendendo dal 58,5% al 55,1%. Un bel caso di contenimento dei costi sulla pelle dei lavoratori…

Per gli azionisti invece si profilerebbe un bell’incremento di redditività, perché il dividendo distribuito per azione passerebbe da 0,27 euro del 2018 a 0,94 nel 2023, con una stabilizzazione del tasso di rendimento del capitale quantificabile nel 6,6% annuo. Non stupisce quindi che gli analisti e i gestori di fondi abbiano valutato molto positivamente il piano Team 23, dandogli un titolo adeguato: “da un comune caso di ristrutturazione si passa ad una storia molto attraente di distribuzione di capitale”.

I sindacati del settore hanno definito “irricevibile” il piano Unicredit e persino Landini, il segretario generale della CGIL, ha invitato l’azienda a “rivedere” il suo piano. Anche la politica ha alzato i toni, sollevando critiche alla gestione del CEO francese (ex-parà) Jean Pierre Mustier, arrivando anche a ipotizzare un disimpegno dall’Italia in vista di una fusione paneuropea che invece Unicredit ha escluso.

Intanto esistono ragionevoli dubbi che la massa di esuberi dichiarati possa essere gestita con il normale ricorso al Fondo di settore, vista la mole degli sfoltimenti già realizzata nel recente passato con il coinvolgimento “volontario” di tutti i colleghi che avevano i requisiti anagrafici e previdenziali per poter accedere al Fondo.

Ma anche se così fosse e quindi nessuno fosse costretto a farsi male, resta la questione della legittimità a tagliare l’organico per un’azienda che realizza ingenti profitti e che non mette sul piatto alcuna assunzione compensativa rispetto ad un piano draconiano.

Perché i sindacati non provano a ricostruire la mappa degli organici, analizzando filiale per filiale, ufficio per ufficio, per ogni posto di lavoro che si vuole sopprimere, la reale necessità di personale per fornire un servizio adeguato e lavorare in condizioni dignitose?

Non sarebbe opportuno contrattare un rapporto fisso tra “esuberi” e nuove assunzioni, anziché accettare la posizione della controparte che unilateralmente decide quanti posti distruggere?

Se ci sono nel nostro Paese 160 tavoli di crisi aperti, con il rischio di perdere centinaia di migliaia di posti di lavoro, legati in qualche modo a crisi aziendali “oggettive”, perché dovremmo permettere una riduzione di organico ed il conseguente calo della base occupazionale, solo perché Unicredit vuole incrementare i profitti per gli azionisti? Non sarebbe il caso di farne una questione di principio e provare ad opporsi, resistere, difendersi?

Una lotta dura può anche diventare una sconfitta, ma chi non lotta ha già perso in partenza…

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni

SUI PRESUNTI ESUBERI IN UNICREDIT

 

La sparata di Unicredit relativa a 8.000 esuberi in tutto il gruppo (6.000 in Italia) non costituisce, purtroppo, una sorpresa.

A fine luglio avevamo inviato un commento su quella che, allora, era stata presentata come una “fuga di notizie” e avevamo osservato come tale notizia ufficiosa fosse uscita mentre si avviavano le trattative del ccnl. Ora giunge la notizia ufficiale proprio quando il ccnl sembrerebbe arrivare ad una stretta finale (di nuovo un caso?).

Quello che si può dire è che i pesanti carichi di lavoro nelle filiali e negli uffici di Unicredit smentiscono l’esigenza di ridurre così drasticamente gli organici.

Se si accetta il parametro in base al quale per aumentare i profitti si possono decidere a tavolino tagli lineari del personale, allora non ci sono più limiti.

Da troppo tempo, non solo in Unicredit, i sindacati firmatari accettano uscite massicce di lavoratori, chiedendo in cambio quantità limitate di nuove assunzioni, aggravando sempre più le condizioni di lavoro e facendo crescere la “voglia di fuga” di chi potrà accedere all’esodo successivo.

Decisamente Unicredit ha superato il segno e vedremo se i proclami bellicosi dei sindacati firmatutto avranno un seguito.

La vicenda, a nostro avviso, non può essere gestita solo a livello aziendale, ma va mobilitata tutta la categoria. E’ ora di far capire ai signori banchieri che si deve partire da condizioni dignitose di lavoro e non dall’esigenza di aumentare i profitti senza curarsi delle conseguenze.

CREDIT AGRICOLE: IL GIOCO DELLE TRE CARTE NEL PIANO A MEDIO TERMINE 2019-22

La situazione della rete filiali è oggetto di numerosi comunicati anche dei sindacati firmatutto.

Alla base dei problemi vi è la carenza cronica di organico e le continue sollecitazioni ai risultati commerciali.

E’ necessario contrastare alcuni fenomeni, non abituandosi a certi comportamenti che sono al di fuori delle regole e delle norme contrattuali. Ci sono alcuni punti fermi da cui non si deve venire meno se non si vuole essere travolti.

Partiamo dall’ultima trovata di chiudere il servizio di cassa pomeridiano in oltre 500 filiali.

Come evidenziato anche nei comunicati degli altri sindacati, il tempo per chiudere lo sportello  e quadrare i bancomat  è troppo poco.

In prima battuta l’orario di chiusura delle casse va rispettato, cioè non devono più esservi clienti oltre l’orario di sportello, o impedendo preventivamente il flusso se eccessivo o avvisando i clienti che all’orario stabilito la cassa chiuderà e chi è in attesa non verrà servito.

Anche così i tempi di quadratura del bancomat restano stretti. Quando il tempo non è sufficiente non si deve rinunciare a fruire dell’intera pausa pranzo. Se le operazioni non vengono completate per tempo vanno lasciate in sospeso, l’azienda trovi la soluzione, magari consentendo la possibilità di accedere ai valori nel pomeriggio.

Ricordiamo che i bancomat vanno sempre quadrati in contradditorio con due colleghi.

 Il vero problema è la verifica dei valori in caso di mancata quadratura, verifica piuttosto problematica se i valori sono già chiusi.

In questo caso l’unica soluzione è che il giorno dopo non si apra cassa prima di aver fatto le verifiche necessarie. Lo stesso vale per il passaggio di consegne e la presa in carico di valori, i quali vanno sempre controllati preventivamente.

Giova ricordare che questa azienda non si crea problemi a chiudere le casse per i clienti, dovremmo farcene noi quando questo è necessario?

In tutto questo bailamme va ricordata la centralità della formazione. Nessuno si metta a fare lavori che non conosce, si deve pretendere di ricevere le conoscenze necessarie!

Va anche ricordato che la formazione è un obbligo in capo all’azienda: è lei che deve mettere il lavoratore in grado di fruirla, in orario di lavoro e in condizioni ottimali (cioè senza continue interruzioni di clienti e colleghi).

 

CUB-SALLCA – Federazione di Torino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quindi non va fatta nei ritagli di tempo o, peggio, fuori orario, va fruita correttamente e per intero, in orario di lavoro.

Torniamo anche a ribadire alcuni concetti relativi alle pressioni commerciali. Noi siamo dipendenti pagati per la prestazione e non per i risultati. Questo significa che dobbiamo certamente fare proposte commerciali ai clienti, ma non siamo obbligati a portarle a buon fine e, soprattutto, dobbiamo sempre dare spiegazioni chiare e complete dei prodotti che proponiamo.

Qualsiasi richiesta che vada oltre quanto riportato è illegittima!!

Ricordiamo anche che il cellulare fornito dall’azienda, al di fuori dell’orario di lavoro, può essere tranquillamente spento: nessuno di noi ha la reperibilità, tanto meno riceve un’indennità in tal senso.

Per finire, l’invito è di lavorare rispettando le regole e cercando di limitare il più possibile gli straordinari ma, quando proprio ci si deve fermare oltre l’orario, va preteso sempre che venga riconosciuta la prestazione

 

 

 

 

 

CARIGE: SULL’ACCORDO DEL 20 NOVEMBRE

Dopo il commissariamento da parte della BCE a inizio anno, il salvataggio da parte del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi e l’assemblea di settembre che ha approvato l’ingresso come nuovo socio di riferimento di Cassa Centrale Banca, è pronto a partire l’aumento di capitale da 900 milioni di euro per mettere definitivamente in sicurezza CARIGE.

Prima però di metterci i soldi, i nuovi soci vogliono garanzie sulla ripresa di redditività e sul ritorno degli investimenti. E’ l’ora di tagliare i costi in modo strutturale e si parte sempre dai lavoratori, come già è stato in questi sette anni di disgrazie e tribolazioni. L’accordo siglato in data 20.11.2019 taglia altri 680 posti di lavoro e ricalca le orme di altri casi simili, chiudendo decine di filiali. Come sempre accade in queste situazioni, i lavoratori con i requisiti si precipitano “volontariamente” verso l’esodo, mentre la sorte che attende i lavoratori che restano è tutt’altro che invidiabile.

I nuovi padroni chiederanno risultati strabilianti per recuperare il capitale investito e le pressioni sui dipendenti saliranno ulteriormente: vietato lamentarsi perché già si deve essere contenti per aver salvato il posto di lavoro!

Alleghiamo un commento all’accordo scritto da chi lavora in Carige e una scheda tecnica di sintesi che può essere utile ai lavoratori che hanno diritto all’uscita. Invitiamo comunque gli interessati a leggere attentamente l’accordo nei dettagli e contattarci in caso di necessità.

CUB-SALLCA Gruppo Carige

INTESA SANPAOLO: E ORA VENGONO CEDUTI ANCHE I LAVORATORI DEL MONTE PEGNI, CHI SARANNO I PROSSIMI?

In Intesa Sanpaolo c’è molta retorica sul senso di appartenenza e sulla valorizzazione delle risorse umane, ma la storia del nuovo Gruppo è sempre stata costellata, fin dalla sua nascita, dalla cessione di centinaia di lavoratori.

Per ricordare i casi più noti, si è cominciato nel 2007 e 2008 con le cessioni delle filiali a seguito della fusione tra Intesa e Sanpaolo e dell’intervento dell’autorità antitrust. Poi è stata la volta di Banca Depositaria nel 2010. Poi nel 2018 è toccato al Recupero Crediti e arriviamo ai giorni attuali con Banca 5 e, mentre ancora le trattative per la cessione di quest’ultima a Sisal sono in corso, lunedì 18 novembre è arrivata la notizia della cessione delle filiali del Monte Pegni, dove i lavoratori hanno appreso la notizia direttamente a mezzo stampa.

Tutte queste cessioni hanno coinvolto le attività, ma anche i lavoratori che le svolgevano.

Anche quando il contratto del credito è stato mantenuto, non sono mancati i problemi ogni qualvolta le aziende acquirenti hanno manifestato difficoltà (si pensi a Carige, Pop. Bari, fino alla Veneto Banca rientrata nel Gruppo dopo le note vicende delle ex banche venete) o quando alcune garanzie vengono a scadere.

Alla luce di queste considerazioni e della sgradevole sensazione, che deriva da queste vicende, di essere considerati come merce che può essere comprata e venduta, riteniamo che le trattative debbano sempre partire dal “diritto d’opzione”, cioè dalla possibilità per il lavoratore coinvolto di scegliere di non essere ceduto, ma di poter continuare il vecchio lavoro per il nuovo acquirente attraverso il “distacco”.

Si tratta di una richiesta del tutto ragionevole perché consente la continuità operativa e, nel momento in cui il distacco dovesse cessare, sfidiamo Intesa Sanpaolo a sostenere che nella rete filiali non ci sia posto per poche decine di lavoratori.

Era una richiesta già avanzata dai sindacati firmatutto in occasione della trattativa per il Recupero Crediti e lasciata cadere troppo in fretta.

Torneremo in un secondo momento ad analizzare il significato di questa operazione e le caratteristiche dell’acquirente. Nel frattempo, riteniamo che i lavoratori di tutto il Gruppo debbano far sentire la loro solidarietà ai colleghi di Banca 5 e del Monte Pegni. Nessuno pensi che a lui non toccherà mai l’esperienza di essere oggetto di cessione, il prossimo potresti proprio essere tu!

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo

Costruiamo insieme l’alternativa sindacale, iscriviti alla Cub Sallca

Sono passati 20 anni da quando nel settore bancario nasceva il sindacato di base Cub Sallca.

Le ragioni che ci avevano indotto a creare un’alternativa ai sindacati esistenti restano più che mai attuali.

Se allora polemizzavamo contro una linea sindacale troppo cedevole, che aveva portato al disastro del rinnovo contrattuale del 1999, oggi non sapremmo nemmeno più cosa contestare, visto che una linea sindacale (parliamo di chi siede al tavolo di trattativa) semplicemente non c’è più.

A livello aziendale una conferma di quanto stiamo dicendo è apparsa evidente sui temi degli inquadramenti e dei sistemi premianti. L’azienda fa quello che vuole, avanza lei le proposte ed i sindacati al tavolo si limitano a chiedere qualche correzione e poi firmano.

A livello di categoria, dopo il disastro del ’99, piattaforme apparentemente allettanti per i lavoratori vengono abbandonate e la discussione avviene sulle proposte dell’Abi. La strategia è quella del “contenimento del danno”, che però nel 2012 non ha funzionato, portando a pesanti arretramenti, come il calcolo su base limitata del TFR e gli orari estesi.

Lo stesso rinnovo in corso procede in modo altalenante (si vedano i nostri ultimi comunicati)

L’unica cosa che i sindacati firmatari possono effettivamente vantare è la fuoruscita di decine di migliaia di lavoratori con piani di esodo relativamente “morbidi”, cui fa da contraltare il pesante degrado delle condizioni lavorative di chi ha la sfortuna di restare in azienda.

Riteniamo che si debba reagire a questo stato di cose: per farlo serve la volontà dei lavoratori di rafforzare l’unica alternativa sindacale oggi esistente.

Passa dalla tua parte, iscriviti alla Cub Sallca, collabora con noi per cambiare lo stato di cose esistente.

LA VENDEMMIA

 

L’autunno, dopo una lunga estate, porta anch’esso frutti importanti e preziosi; così è in natura ed anche in campo sindacale. In Intesa Sanpaolo non si fa eccezione: il 10 ottobre di quest’anno arriva il fondamentale accordo sul PVR (per chi fosse poco aduso agli acronimi sta per Premio Variabile di Risultato).

Finalmente i lavoratori sapranno per quale cifra stanno correndo, spinti dalle pressioni commerciali ufficialmente messe sotto controllo, da quasi 10 mesi. Che bello non dover convivere con l’angoscia di sapere da gennaio le regole del gioco della retribuzione variabile e correre “liberi” senza ansie da arricchimento.

Ormai da anni gli accordi sul premio sono frutti autunnali, ma questa volta le Organizzazioni Sindacali trattanti hanno voluto superarsi e nel bouquet elargito ai propri rappresentati hanno inserito nuovamente un accordo dedicato ad un premio integrativo dell’integrativo, chiamato SET (anche qui per gli insofferenti degli acronimi SET sta per Sistema Eccellenza Tutela) e persino un accordo sulla formazione flessibile.

Uno dei frutti più famosi ed apprezzati dell’autunno è l’uva, che, da mani esperte vendemmiata si trasforma nel sapido vino, cui sono dedicati sonetti, romanzi e poesie. A giudicare dal loro comunicato unitario sull’argomento le Organizzazioni trattanti hanno fatto una buona vendemmia. L’antico proverbio tuttavia recita “non chiedere mai se il vino è buono all’oste che te lo vende”.

Abbiamo verificato il mosto che sta fermentando nei tini per vedere se il proverbio è azzeccato. Possiamo subito dirvi che l’impianto generale è rimasto lo stesso. Le uniche variazioni riguardano un modesto aumento del premio base destinato a tutti di ben 50 euro, un’erogazione del premio aggiuntivo dalle maglie un pò più larghe, che permetterà a qualche collega in più di ricevere qualche altro centinaio di euro, che verrà erogato al 100% anche ai lavoratori di qualche agenzia dalle performance considerate non esaltanti.

Tutto qui. L’asticella, altissima, per arrivare al premio di eccellenza, che prevede cifre importanti, resta tale, anzi le cosiddette score cards si arricchiscono di nuovi e, naturalmente sfidanti, obiettivi. A ben vedere l’aumento del premio base, pari al 17% è ben poca cosa se raffrontata con un dividendo agli azionisti che in meno di 5 anni è quasi quadruplicato. Del resto nel 2017 è stata la stessa azienda di propria iniziativa, a raddoppiare il valore del premio base da 300 a 600 euro quale riconoscimento per aver raggiunto i 10 miliardi di euro di dividendi cumulati nel corso del piano industriale 2014-2017.

In conclusione di mosto di qualità al momento dell’imbottigliamento pare essercene ben poco, e se ne devono essere resi conto anche ai piani alti, poiché l’anno scorso è andato in scena, con replica quest’anno, un premio specifico sul collocamento di polizze, che da solo vale quasi il 40% di tutto il PVR .

Quale migliore prova del fatto che, da parte dei suoi stessi ideatori il premio risulta ben poco premiante ed è necessario la proliferazione delle erogazioni e la moltiplicazione degli indicatori per mettere insieme una somma annua che, per i comuni mortali, si possa paragonare a quanto ci veniva erogato quando esisteva il Vap. Figura retorica appartenente ad altra generazione di premio, ormai, che,per lungimirante scelta delle delegazioni trattanti, è stato trasferito al museo delle specie estinte.

Un vero peccato perché, quando si scende dall’empireo dei convegni pieni di aulici quanto inconsistenti dibattiti oggi in voga fra le file dei dirigenti sindacali, e si fanno i prosaici “conti della serva”, dati alla mano il confronto fra prima e dopo diventa impietoso. In un volantino di poco più di un anno fa avevamo analizzato in dettaglio quale fosse la situazione. Qui possiamo solo ricordare che, nell’ultimo anno di applicazione il Vap garantiva ad un collega medio 1700/1800 euro lordi. Oggi per la maggior parte dei lavoratori non si giunge a tale cifra neanche calcolando il Lecoip, che peraltro nella sua attuale versione è inchiodato al livello di partenza. Ben si comprende dunque perché nasce il SET per “lubrificare” l’entusiasmo della truppa.

In ultimo occorre dire qualcosa sulla formazione flessibile, argomento che pare lontano dal discorso delle erogazione premianti, ma che in realtà vi è legato; indirettamente a causa della necessità di capire almeno qualcosa di certi contratti che poi saranno oggetto degli appuntamenti. Ma direttamente perché il completamento della formazione entra nelle score cards e nelle valutazioni personali ai fini di un percorso professionale, là dove ancora esistono.

L’accordo è piuttosto stringato e, a nostro avviso consta di due soli punti concreti, si fa per dire. Nel primo l’Azienda si impegna a “favorire la fruizione della formazione in modalità cosiddetta protetta”. Non è precisato cosa il termine “protetta” voglia dire, ma speriamo che si tratti finalmente della possibilità di seguire i corsi on line non mentre si serve il cliente o fra una telefonata e l’altra. Il generico impegno aziendale, oltretutto sperimentale e a partire dal 2020, non promette molto nel concreto e il fatto che la formazione si possa svolgere nelle “strutture di appartenenza o in altri locali aziendali ritenuti idonei e disponibili” la dice lunga sull’esigibilità dell’impegno stesso da parte del singolo.

Nel secondo punto si toccano inarrivabili e ineffabili vette di ipocrisia. Infatti viene introdotto per il personale della Rete il diritto a ben due giorni di formazione flessibile da casa (badate bene in linea di massima 1 per semestre dell’anno, non vi allargate) a patto però che la fruizione non comprometta l’apertura della filiale e il funzionamento di tutte le sue componenti.

In epoca di esodi spesso non rimpiazzati, di assunzioni con il contagocce, oltretutto in gran parte contratti misti con orario part time, di difficoltà spesso insormontabili per ottenere o rinnovare un orario ridotto per quei colleghi che hanno necessità personali o familiari non rinviabili, il tutto suona come una barzelletta di pessimo gusto. Il commento ci sembra superfluo.

L’autunno concede buoni frutti, ma sembra che questi siano solo per qualcuno.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo

Gruppo Credit Agricole. COSA STA SUCCEDENDO NEL CAGS?

Sono passati poco più di 5 anni da quando Credit Agricole ha effettuato la cessione di ramo d’azienda verso il CAGS. 5 anni durante i quali i lavoratori della newco hanno continuato a portare avanti i loro compiti, sia ordinari che straordinari, in maniera egregia permettendo il concludersi, sempre nei tempi prestabiliti, di diverse operazioni di acquisizione e di riorganizzazione.

Ma, all’inizio dell’autunno, il responsabile dell’area infrastrutture ha organizzato una serie di riunioni per informare di un’operazione societaria che avrebbe potuto vedere l’avvio di una importante “partnership”!

Nei diversi incontri però i toni si sono smorzati, se nei primi si diceva che le approvazioni erano già arrivate da tutti i livelli della banca e mancava solo l’ok della proprietà francese negli ultimi si parlava di un progetto ancora in fase di studio, se nei primi non si escludeva una eventuale cessione della maggioranza del pacchetto azionario negli ultimi si rimaneva molto sul vago, se nei primi si diceva chiaramente che oltre a dare in appalto la “server farm” si sarebbe lavorato in team con colleghi di altre società negli ultimi ci si fermava alla cessione delle macchine e della loro  gestione.

E’ molto probabile che il responsabile abbia sentito la necessità di informare i lavoratori perché, in ogni caso, questi ne sarebbero venuti comunque a conoscenza in quanto le gare di appalto erano già in essere ed è altresì palese che lo stesso sia stato richiamato dall’azienda ed abbia abbassato il tiro negli incontri successivi.

Quello che non è così comprensibile è come le organizzazioni sindacali del tavolo aziendale abbiano richiesto informazioni, giustamente richiestegli dai lavoratori seriamente preoccupati da possibili operazioni che raramente portano benefici ma, molto più comunemente, sono foriere di mobilità ed esuberi, e si siano però “accontentate” delle rassicurazioni aziendali che “nessun progetto è in corso”.

E’ lampante che qualcuno stia mentendo o, come si dice a Parma, ballando nel manico!

Se è vero che è legittimo che le aziende pensino a come strutturarsi e che l’accordo di cessione di ramo d’azienda che ha costituito il CAGS sia “abbastanza” tutelante (l’abbastanza è dovuto al fatto che esiste un’opzione di rientro nelle aziende cedenti, ma vengono meno i km previsti dal ccnl per i trasferimenti e la dislocazione potrà avvenire “nell’ambito della regione di residenza o comunque maggiormente prossima…”), è anche vero che siamo di fronte ad una grave subalternità delle organizzazioni sindacali del tavolo e ad una pesante mancanza di trasparenza e di rispetto da parte dell’azienda nel tenere nascosto quanto si sta architettando sulla testa di chi dovrà in ogni caso subirlo.

A questo punto i lavoratori hanno 2 possibilità: o continuare come sempre sperando che le cose non vadano poi così male o iniziare a far sentire la propria voce, per esempio aderendo allo sciopero generale già previsto per l’intera giornata di venerdì 25 ottobre indetto dalla CUB insieme ad altri sindacati di base per cambiare in modo radicale la politica economica del nuovo governo, che ripropone la linea dell’austerità imposta dall’Unione Europea, la stessa che ha prodotto crisi, recessione, sacrifici, disoccupazione, impoverimento.

Lo sciopero è indetto con il rispetto dei preavvisi di legge e ricordiamo che tutti i lavoratori, anche aderenti ad altri sindacati, possono partecipare.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Credit Agricole

Fondo Sanitario Integrativo Intesa Sanpaolo: NESSUN TAGLIO PER NESSUNO SBLOCCHIAMO LE RISERVE, SALGA IL CONTRIBUTO AZIENDALE

La storia del Fondo Sanitario Integrativo del Gruppo Intesa Sanpaolo è vicino ad un’ennesima svolta.

Dalla fusione delle precedenti gestioni nel 2011, avvenuta in spregio alle norme statutarie dell’Ex Cassa Intesa, è sortita una causa che tiene tuttora bloccate ingenti riserve.

Lo squilibrio strutturale della gestione quiescenti è stata ripianata nel tempo dagli attivi della gestione dei lavoratori in servizio e dai risultati finanziari delle riserve.

Ma nel 2018 i mercati sono andati male e si vuole usare questo episodio per giustificare una revisione peggiorativa delle prestazioni per i quiescenti (ma non si esclude qualche intervento anche per gli attivi).

Proprio coloro che sono già stati penalizzati dalle revisioni precedenti e che trovano sempre meno conveniente restare iscritti.

Lo scadimento del servizio di Previmedical (su cui intendiamo tornare), segnalato da molti iscritti, colpisce in particolare proprio i pensionati, che hanno meno familiarità con le nuove tecnologie e più difficoltà nel seguire le richieste di rimborso (spesso cartacee).

Nel volantino allegato diffidiamo le parti in causa (azienda e sindacati) a procedere ad ulteriori peggioramenti ed avanziamo proposte alternative (tecnicamente sostenibili) per fare il contrario di quanto si propongono gli altri.

Teniamo gli occhi aperti e ricordiamoci che un giorno saremo tutti pensionati!


 

Fondo Sanitario Integrativo: NESSUN TAGLIO PER NESSUNO
SBLOCCHIAMO LE RISERVE, SALGA IL CONTRIBUTO AZIENDALE

Dopo essersi visti tagliare del 50% la quota differita, i quiescenti iscritti al Fondo Sanitario
del Gruppo Intesa Sanpaolo devono ora preoccuparsi di vedersi ulteriormente ridurre le
prestazioni o di dover sborsare ancora di più di quanto già versano.
Come avevamo già ipotizzato nel nostro precedente volantino, la perdita rilevata sulla
gestione finanziaria delle riserve, dovuta ai mercati finanziari a fine 2018, viene ora usata
come giustificazione per un intervento sulle condizioni economiche e/o sulle prestazioni
dei quiescenti.
Ricordiamo che, al netto della gestione finanziaria, il risultato previdenziale 2018, (dato
dalla differenza tra contributi e prestazioni, -€ 5.675.314) è peggiorato rispetto al 2017 (-€
4.857.218) di circa soli € 800.000, la metà del peggioramento rilevato nei precedenti anni.
Anche la spesa pro-capite per iscritto in quiescenza sembra sotto controllo, essendo
aumentata nel 2018 solo del 2,31%.
Se la gestione complessiva ha subito un significativo impatto nel 2018, bisogna anzitutto
ricordare che negli anni precedenti la gestione finanziaria aveva contribuito alla
creazione di un plusvalore che è stato accantonato. Attualmente le riserve del comparto
quiescenti ammontano a oltre € 35 milioni e solo negli ultimi due anni il surplus di bilancio
ha consentito maggiori riserve per oltre € 4 milioni. Perché non sono state utilizzate invece
di penalizzare gli iscritti?
Purtroppo, le regole di bilancio previste dallo Statuto prevedono forti limitazioni all’uso
delle riserve (ma tutti sanno bene che queste regole sono modificabili anche
rapidamente quando si vuole…). In altre parole: quando i mercati finanziari vanno bene
si accumula ma se vanno male non si utilizzano le riserve degli anni precedenti. Come
dire: la quota differita è legata alla volatilità dei mercati finanziari! Assurdo.
Ma allora perché tutta questa concitazione nel voler rivedere le regole, ovviamente in
senso peggiorativo?
Perché l’azienda si è preoccupata di produrre una serie di documenti che conducono
inesorabilmente alla necessità di intervenire, tagliando prestazioni o aumentando le
quote di partecipazione?
Tanto fumo e poco arrosto che distolgono l’attenzione dall’unico dato incontrovertibile:
il contributo aziendale è sceso di quasi mezzo milione di euro ogni anno.
Alcune simulazioni evidenziano un eventuale problema di sostenibilità non prima di 7/8
anni, ma certamente le dinamiche occupazionali porteranno sempre più verso una
riduzione della quota degli attivi sul totale degli aderenti. È quindi essenziale che venga
richiesto che l’Azienda continui almeno a versare quello che ha sempre versato, anche
se sarebbe da prevedere un progressivo aumento che tenga conto dell’oggettivo
incremento dei costi dell’assistenza sanitaria.
Che la gestione dei quiescenti sia strutturalmente deficitaria è indubitabile e infatti i
fondi sanitari si fondano sul principio di mutualità intergenerazionale. Proprio in questo
senso andrebbero poi cambiati i meccanismi di utilizzo delle riserve, che devono poter
essere utilizzate in casi come quello dello scorso anno, dove l’evidente volatilità dei
mercati finanziari ha avuto un impatto fortemente negativo!
Per quanto detto sopra, ci sembra evidente il tentativo aziendale di procedere con un
peggioramento dell’offerta che viene “venduto” anche come risposta (sbagliata) alle
proteste di alcuni quiescenti che hanno fatto notare come le contribuzioni siano troppo
onerose.
A nostro avviso è assolutamente prematuro agire in modo così drastico. Quello che le
Fonti Istitutive (per quanto questo termine non sia previsto sul piano normativo…)
dovrebbero fare è ben altro, ovvero:
– Ripensare l’uso delle riserve: l’attuale impostazione prevede un tetto massimo di
trasferimento alla gestione in caso di deficit, ma occorre modificare gli attuali limiti.
– Creare un nuovo fondo rischi nel quale far confluire gli extra-rendimenti della
gestione finanziaria per eliminare, o almeno contenere, volatilità avverse che si
possono realizzare negli anni futuri.
– Modificare le modalità di imputazione del risultato di esercizio sia in caso di surplus
(riserva e fondo rischi), che in caso di disavanzo, considerando separatamente la
gestione previdenziale (differenza tra contributi e prestazioni) dalle altre (finanziaria
in primis).
– Rivedere il meccanismo del contributo di solidarietà: il limite di trasferimento
definito in base al surplus complessivo della gestione degli attivi andrebbe rivisto
per consentire, con mercati negativi, l’utilizzo del neocostituito fondo rischi.
– Eliminare l’odiosa “quota differita”: se questo meccanismo aveva una sua ragione
nel momento dell’integrazione di numerosi colleghi infragruppo, ora la situazione si
è stabilizzata, è in buona misura prevedibile e opera entro margini sufficientemente
ampi per consentire una liquidazione immediata dell’intero importo rimborsabile.
– Ridare poteri al CdA: in questo momento, statutariamente, svolge un ruolo troppo
marginale, tenuto conto che è l’unico organo eletto da tutti gli iscritti.
Infine, sempre le Fonti Istitutive dovrebbero forse riconsiderare la loro posizione di
chiusura nei confronti dei ricorrenti nella causa che tiene sospesi 37 milioni di riserve
dell’ex Cassa Intesa. Il ricorso in Cassazione molto difficilmente sconfesserà i due
precedenti gradi di giudizio che hanno visto l’Azienda soccombere. Peraltro, anche i
ricorrenti, ex Consiglieri della Cassa, dovrebbero rivedere e attualizzare nell’attuale
scenario una proposta transattiva che possa avere un effetto concreto sul comparto dei
quiescenti. Inoltre, li invitiamo a porre massima attenzione al tentativo in atto di un
intervento statutario in emergenza e peggiorare ulteriormente la gestione dei quiescenti,
che vanificherebbe il loro tenace operato.
Come nota a latere, evidenziamo che le autoproclamate Fonti Istitutive si arrogano
comunque il diritto di modificare i diritti di iscritti per i quali non hanno un mandato di
rappresentanza… Per quanto possa sembrare a qualcuno noioso e ripetitivo, è un altro,
ennesimo effetto della cronica mancanza di democrazia e di rappresentatività nel nostro
settore.
In generale, in presenza di una progressiva tendenza allo smantellamento del welfare
sanitario nazionale, invece di toccare sempre le regole, sarebbe opportuno procedere
ad efficientare le prestazioni, eliminando palesi sprechi ed utilizzi ingiustificati al fine di
ampliare, e non restringere, le coperture assistenziali!
E poi ricordiamo a tutti gli iscritti attivi che salvaguardare i diritti dei quiescenti vuol dire
occuparsi del proprio futuro perché speriamo tutti di arrivare a far parte della gestione dei
quiescenti!

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo