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PETIZIONE A FAVORE DEI LAVORATORI A TEMPO DETERMINATO DELLE EX BANCHE VENETE: MANDATI VIA DAL “PIU’ BEL POSTO DOVE LAVORARE”?

DA CUB SALLCA INTESA SANPAOLO
a iscritti/e, lavoratrici e lavoratori

 La vicenda delle ex banche venete ha un aspetto poco conosciuto: vi sono decine e decine di lavoratori a tempo determinato che hanno perso o stanno per perdere il lavoro. Siamo venuti a conoscenza di iniziative di lavoratori, di varie realtà territoriali, per sostenere la causa di questi colleghi meno fortunati.

Sotto vi proponiamo un appello da leggere e, nel caso da condividere, inviando una mail a sallca.cub@sallcacub.org scrivendo “aderisco”, indicando nome, cognome, matricola e luogo di lavoro.

E’ stata lanciata da alcuni lavoratori di Intesa Sanpaolo (e poi ripresa da strutture locali dei sindacati firmatari) una petizione per chiedere alla delegazione trattante per gli esodi nelle banche venete di prendere in considerazione, nel corso delle trattative, il problema della mancata conferma di lavoratori con contratto a termine, in scadenza o scaduto da poco, tra cui alcuni dipendenti assunti in base alla Legge 68/99 che disciplina l’assunzione di lavoratori disabili.

I sottoscritti lavoratori e lavoratrici condividono questa richiesta anche perché, come giustamente viene ricordato nell’appello, l’operazione di salvataggio delle banche venete è avvenuta con robusti contributi pubblici.

In un recente video, relativo ad una riunione di direttori di Area, Stefano Barrese ricordava come l’intervento di Intesa Sanpaolo abbia evitato licenziamenti. Riteniamo che se la banca, al di là dei contributi ricevuti per la gestione degli esodi volontari, volesse impegnarsi per risolvere i problemi di questi giovani precari, che hanno lavorato fianco a fianco con i lavoratori “salvati”, dimostrerebbe in modo più concreto la propria vocazione etica.

Brevi considerazioni sugli “esodi” al Monte Paschi

DA CUB SALLCA GRUPPO MPS
a iscritti/e lavoratrici e lavoratori

La firma dell’accordo per l’accesso al Fondo di 1200 colleghi, come quota per il 2017 dell’attuazione del Piano di Ristrutturazione 2017-2021, si presta ad alcune considerazioni

E’ evidente che la situazione di crisi di MPS non dipende dai lavoratori, ma dalle scelte sciagurate del management. E’ peraltro noto che in questo paese chi sbaglia, stando in alto, non paga mai ed infatti il prezzo degli errori è stato pagato dai lavoratori, con accordi che hanno azzerato il contratto integrativo e portato all’esternalizzazione di un migliaio di lavoratori (su questo torneremo).
Un esodo su base volontaria, quindi, non è certo la peggior sciagura capitata finora ai lavoratori di MPS. Eppure un dettaglio fastidioso (per usare un eufemismo) c’è anche qui. Laddove si ipotizza un eventuale cambiamento delle regole pensionistiche durante la permanenza nel fondo (allungamento dell’età pensionabile), l’accordo prevede un generico impegno delle Parti a reincontrarsi, ma, nel frattempo, si offre ai lavoratori in difficoltà l’opportunità di accedere ad un prestito, fino al raggiungimento della pensione, al modico tasso del 4,50% (si veda allegato). Davvero una condizione di maggior favore ai dipendenti nell’epoca dei tassi negativi!

Sempre nell’accordo, si cita “l’importanza di un coinvolgimento attivo del Sindacato”. Vista questa generosa disponibilità aziendale, perchè non utilizzarla, come primo gesto, per discutere del reintegro degli oltre 1.000 dipendenti esternalizzati in Fruendo di cui parlavamo all’inizio?
Un obiettivo che sanerebbe un’operazione illegittima (come già stabilito da numerose sentenze di secondo grado), porrebbe fine al trascinarsi del contenzioso legale, soprattutto ribadirebbe un principio che i sindacati dovrebbero sempre tenere come stella polare del loro operato, l’unità del processo produttivo, contro ogni tentativo di spezzettarlo in modo strumentale.

BANCHE VENETE E MONTE PASCHI: CRONACHE DI UNA MORTE ANNUNCIATA

Alla fine è avvenuto quello che era largamente prevedibile: le banche venete sono fallite e sono state azzerate, il Monte dei Paschi di Siena è stato nazionalizzato con la procedura di risoluzione e lo stato si fa carico di un disastro senza precedenti.

I venti miliardi stanziati a fine anno per risolvere i casi disperati saranno utilizzati a piene mani per prevenire una crisi di tipo sistemico che avrebbe potuto assumere dimensioni disastrose. Paghiamo anni d’inerzia e d’ipocrisia, di mancanza di controlli, di complicità politiche e storture istituzionali, di latitanza dei sindacati trattanti e di vincoli giuridici assurdi.

Lo Stato e quindi noi, come contribuenti, pagheremo il costo più salato (non meno di 12-15 miliardi), mentre come dipendenti bancari, ancora noi,  saremo tutti chiamati a contribuire al risanamento tramite la sopportazione di tagli di costo che devono ancora essere quantificati.

Proviamo a ricostruire come si è arrivati a questa tragica conclusione e quale futuro ci attende per i prossimi mesi.

La crisi delle banche italiane è emersa con ritardo, rispetto al panorama internazionale. Subito dopo l’esplosione del caso Lehman, le banche più grandi del mondo erano così esposte ai derivati e ai  mutui subprime da dover fare massiccio ricorso a ricapitalizzazioni statali per restare a galla.

Mentre esaltavano le virtù del mercato e del privato, i grandi colossi della finanza venivano salvati con risorse e garanzie pubbliche, usate per comprare i loro titoli tossici ed evitare un crollo generale. Superato il guado, sono tornate puntualmente le pratiche speculative precedenti, i bonus ai super manager e la prassi delle “porte girevoli”, fino al prossimo giro di giostra…

Come si ricorderà, le banche italiane disdegnarono gli aiuti pubblici, vantando solidità inesistenti derivanti dal proprio modello di business, ancorato al finanziamento dell’economia reale. Chi, come MPS, aveva appena comprato a prezzi stratosferici una banca destinata a svalutarsi nel breve, tentò di camuffare la realtà attraverso derivati leggendari (Alexandria, Santorini, ecc.).

In questo ha pesato anche la dottrina ideologica imperante: mai più lo stato nelle banche, basta lasciare i privati liberi di agire ed ogni problema si risolve in automatico!

Un primo segnale di allarme arrivò con il 2011: la crisi dello spread fece emergere che i bilanci bancari, pieni di titoli di stato in picchiata, non erano poi così solidi di fronte a shock “esogeni”. Ma arrivò Draghi alla BCE e varò prima l’LTRE (che fornì alle banche dell’area euro enorme liquidità a tasso zero, per ricomprare i BTP e   titoli simili a prezzi infimi), e poi il Quantitative Easing che riuscì a riportare in alto proprio i prezzi dei titoli in portafoglio. Scampato pericolo!

Intanto il governo italiano prestava qualche aiutino: nel 2013 la rivalutazione delle quote in Banca d’Italia, una nuova disciplina fiscale degli ammortamenti per smaltire le perdite in bilancio in cinque anni anziché diciotto, procedure più rapide per escutere le garanzie sui crediti finiti mali.

Fino alla fine del 2015 sembrava che tutto questo fosse bastato. Persino la borsa italiana (piena zeppa di titoli bancari e finanziari) ci credette e l’anno finì con un +13.9%, l’indice migliore tra quelli dei paesi avanzati. Ma le cose belle sono destinate a finire presto.

Tra il 2013 ed il 2014 era accaduto qualcosa di travolgente. Sulla spinta dei paesi “core” dell’Unione Europea, che avevano già risolto prima i loro casini bancari con capitali e garanzie pubbliche, si era arrivati all’approvazione della direttiva sul bail-in, cioè il divieto di affrontare e risolvere le crisi bancarie con il concorso di risorse pubbliche. L’intento era quello di impedire ai paesi “lassisti” di salvare i risparmiatori a spese dei bilanci statali: il risultato pratico è stato quello di innescare una miccia in grado di attivare una bomba ad orologeria, che è puntualmente arrivata ad esplodere nell’arco di pochissimo tempo.

La normativa sul bail-in viene applicata in Italia per la prima volta con la risoluzione delle banche del centro, nel novembre 2015. Per valutare i crediti deteriorati viene applicato un parametro sorprendentemente basso: il 17%. Se questo parametro venisse applicato a tutte le banche italiane, i trecentosessanta miliardi di sofferenze lorde, o gli ottantacinque miliardi di sofferenze nette, varrebbero molto meno di quanto sia correntemente contabilizzato nei bilanci ufficiali: l’effetto sul patrimonio e sulle quotazioni azionarie è devastante. Nell’arco di poche settimane il valore di borsa delle banche italiane scende di cinquanta miliardi di euro!

Siamo di fronte ad un brusco risveglio: dalla crisi Lehman il Pil italiano è già sceso del 10% ed il prodotto manifatturiero di circa il 25%. Le banche hanno reagito con una contrazione del credito, che non le ha però esentate da una crescita spaventosa di crediti incagliati, crediti dubbi e sofferenze conclamate.

L’abbattimento dei tassi da parte della BCE ha peraltro inferto un colpo durissimo al margine d’interesse, la storica componente principale dei ricavi bancari: l’effetto congiunto dei tassi zero e delle sofferenze a palla ha incrinato definitivamente l’equilibrio fragile su cui poggiavano le banche. Chi non aveva spalle abbastanza larghe, cioè canali di raccolta a basso costo e struttura dei ricavi orientata alla gestione del risparmio, è entrato nella fase della lotta per la sopravvivenza. La crisi di fiducia e la fuga dei depositi dalle banche percepite come “a rischio” ha fatto il resto e precipitato gli avvenimenti.

Il Monte dei Paschi non ha trovato soci privati per il suo aumento di capitale nel 2016, né partner bancari che se la siano sentita di assumerne attività e passività: l’intervento dello Stato al 70% è diventato, obtorto collo, l’unica via.

Per le banche venete è stata adottata una soluzione diversa: parte sana a Intesa Sanpaolo per un euro, bad-bank e cause legali allo Stato. Adesso colti ed incliti gridano allo scandalo, ma nessuno è stato in grado di proporre alternative concrete.

ISP assume nel proprio perimetro cinquanta miliardi di raccolta da garantire e 11.000 lavoratori che avrebbero rischiato moltissimo. I termini sono noti e la trattativa ha già prodotto un primo accordo: 1.000 esodi dalle ex banche venete, su base volontaria e senza incentivi. Saranno coinvolti tutti i dipendenti, dirigenti esclusi, che maturano i requisiti pensionistici entro il 2024 (7 anni). A latere: “superamento” della contrattazione integrativa aziendale, fatti salvi in via transitoria alcuni punti cardine (assistenza sanitaria, previdenza complementare, ticket pasto, condizioni agevolate, ecc.).

Più avanti si comincerà a discutere di taglio dei costi e si porrà il grave problema della mobilità territoriale, inevitabile conseguenza del piano di sostanziale azzeramento della rete distributiva delle ex-banche venete, cui si aggiunge la “razionalizzazione” della rete ISP. Oltre 600 filiali da chiudere non lasciano grandi margini di speranza in regioni di forte insediamento come il nord-est, ma anche Toscana, Puglia o Sicilia non saranno esentate.

A traguardo raggiunto, cioè acquisito il consenso dei primi 1.000 esodandi, partirà la procedura per almeno altri 3.000 dal perimetro ISP, appartenenti ad un bacino che ricomprende 6.500 lavoratori/trici (in questo caso dirigenti inclusi, con requisiti in maturazione entro il 2022). Per gli uni e per gli altri verranno utilizzate risorse pubbliche, con rifinanziamento del Fondo a carico dello Stato.

Entro la fine dell’anno avremo quindi un quadro definitivo delle “partenze”. In questo contesto verrà chiesto dall’azienda un taglio dei costi, che dovrà essere contrattato in un quadro di rapporti di forza ben diverso rispetto a quello precedente: sembrano passati anni luce dai precedenti rinnovi contrattuali. Quello del 2012 (sotto il governo di salute pubblica di Monti-Fornero), in cui la categoria subì un durissimo ridimensionamento in termini di tutele, al punto di bocciare in massa il contratto nelle assemblee (evento che fu arginato con i soliti trucchetti dai sindacati firmatari). Ma anche quello del 2015, quando, dopo quattro scioperi nazionali, si arrivò ad un compromesso transitorio, a costo zero per le aziende, in cui si scambiarono aumenti ridicoli e differiti con ulteriori sterilizzazioni di oneri contributivi su TFR e Previdenza complementare.

Adesso le banche pensano che siano maturi i tempi per mettere mano a quello stravolgimento dell’impianto contrattuale che è da lungo tempo auspicato e su cui si registrano fin troppe disponibilità da parte sindacale.

Lavoro di manomissione che è già cominciato concretamente proprio in quella banca (ISP) che si è fatta carico di risolvere il problema veneto come “banca di sistema” e che ora si candida a modello da seguire, pensando di avere conquistato la credibilità, il prestigio e la legittimità per chiedere e ottenere quello che vuole.

Nell’accordo sulle assunzioni ibride in ISP, del 1^ febbraio scorso, c’è già il modello prescelto per affrontare il nodo della scarsa redditività delle banche degli anni a venire: la condivisione degli oneri con i lavoratori (e con i clienti, aggiungiamo noi).

Infatti è noto che sta per entrare in vigore la MIFID II, che impone agli intermediari bancari di esplicitare ai clienti il totale dei costi cui sono sottoposti nel loro rapporto commerciale con l’azienda. Il recepimento della direttiva (dopo dilazioni e rinvii non più differibili) è previsto in Italia per il 1^ gennaio 2018: non sarà molto diverso, come impatto, da quello che è stato il bail-in.

Ma mentre questo agiva sul livello di affidabilità (reale o percepita) delle banche, la Mifid II avrà un impatto diretto sui ricavi, perché costringerà a ridurre o azzerare le commissioni di caricamento (implicite o esplicite) sui prodotti collocati e dare maggiore visibilità anche alle commissioni di gestione applicate.

Non è difficile pensare alla reazione dei clienti e alla loro prevedibile disaffezione verso modelli distributivi orientati su gamme di prodotti opachi e costosi, che dovranno avere per legge una struttura dei costi molto più trasparente ed esplicita.

Le banche dunque esprimono l’intenzione di muoversi su due piani: da un lato sostituire le commissioni sul gestito con il contratto di “consulenza evoluta” per stabilizzare i ricavi, dall’altra sostituire i contratti di lavoro dipendente con forme di lavoro autonomo, per ridurre i costi in misura correlata al prevedibile calo dei ricavi.

Non è altro che la richiesta del 2013 di ridurre la componente fissa del salario e la pressione per spostare sui lavoratori il rischio della variabilità dei risultati, in modo da condividere l’imprevedibilità del mercato, E nello stesso tempo si rafforza, in automatico, la responsabilità, la disciplina, l’autosfruttamento (diremmo noi!) del lavoratore. Le pressioni commerciali diventerebbero finalmente superflue, perché incorporate nel meccanismo di funzionamento del sistema. A questo punto si può anche fare a meno di una buona dose di capetti, che ora hanno il solo compito di controllare i vari fogli excel (non previsti dalle procedure aziendali) per poi redarguire chi non riempie a sufficienza le caselle.

Come categoria abbiamo quindi di fronte il rischio gigantesco di arretrare in modo sensibile su tutto l’impianto contrattuale, a coronamento di una fase in cui abbiamo già perduto molto: il controllo sull’orario di lavoro effettivo, il potere d’acquisto, la dignità professionale, la vivibilità del clima aziendale.

La difesa dell’occupazione, che ovviamente resta la priorità assoluta in una fase di forti turbolenze come l’attuale, non deve fare perdere di vista la necessità di difendere anche i diritti normativi e le condizioni retributive.

Si tratterà sotto ricatto e avremo pressioni enormi per cedere in via definitiva diritti fondamentali. Tutto rischia di avvenire nel più totale distacco tra rappresentati e rappresentanti, senza alcun rispetto delle più elementari norme di democrazia e di partecipazione. Cercheranno di calarci dall’alto accordi impresentabili e vorranno imporli senza discussione. Dipende da noi subire ancora una volta, o provare a cambiare strada.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni

SINDACATINI, SINDACATONI E ATTACCO AL DIRITTO DI SCIOPERO

DA SEGRETERIA NAZIONALE CUB SALLCA
A iscritti/e, lavoratrici e lavoratori

Il recente sciopero nel settore dei trasporti ha provocato reazioni isteriche da parte di alcuni personaggi politici, che meritano una nostra riflessione .

Per parlare di diritto di sciopero potremmo partire dal settore che conosciamo meglio, quello bancario. Cominciamo col dire che anche da noi va avviata una procedura di “raffreddamento” che dura in tutto una ventina di giorni, va dato il preavviso dieci giorni prima (ma le aziende possono anche decidere di non mettere i cartelli) e spesso la controparte neppure si presenta in sede di conciliazione. Insomma, gli obblighi sono solo per noi.

Ma quali diritti dell’utenza devono essere tutelati? Il settore bancario venne inserito a suo tempo tra quelli nei quali deve essere garantito il servizio minimo essenziale, costituito, nel nostro caso, dal pagamento di stipendi e pensioni e dai mezzi di sussistenza  per le persone.

In origine,  nelle giornate di sciopero, doveva essere garantita la presenza di una cassa funzionante per i prelievi, appunto, di pensioni e stipendi. Poi si è passati alla formulazione attuale: i bancari non possono scioperare di mercoledi, giorno di franchigia per qualsivoglia tipo di astensione dalla prestazione lavorativa. Nel frattempo le banche ci hanno spiegato in tutti i modi che i clienti vanno (o devono andare) su Internet, usano il cellulare ed il bancomat e perciò hanno cominciato a chiudere filiali e sportelli di cassa. Ma il mercoledi si continua a non poter scioperare (ed a fare ogni tipo di operazione)…

Tutto questo dimostra che la legislazione sullo sciopero, lungi dal tutelare l’utenza, serve solo a ostacolare l’esercizio di questo diritto che, evidentemente, continua ancora a dare molto fastidio a lor signori.

Questa ampia premessa serve a presentare le nostre valutazioni sull’attuale, stucchevole, dibattito scatenato dal (riuscito) sciopero dei trasporti del 16 giugno indetto dal sindacalismo di base, tra cui la nostra confederazione.

Il settore dei trasporti è stato uno dei più penalizzati dalle politiche antipopolari dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Ci sono stati tagli, privatizzazioni, mancanza di manutenzione dei mezzi, continui attacchi ai diritti dei lavoratori e degli utenti. La vicenda Alitalia è poi emblematica della volontà delle oligarchie europee di distruggere la compagnia di bandiera italiana per favorire  pochi gruppi (devono restarne solo tre: British Airwais, Air France, Lufthansa), impresa favorita dalla sudditanza di politici italiani imbelli e da manager incapaci (o forse capaci proprio di raggiungere l’obiettivo del fallimento). Una cosa è certa: l’unico fattore a non portare responsabilità per il disastro è il costo del lavoro, notevolmente più basso di quello dei principali competitori e persino di molte compagnie low cost.

A fronte di questa situazione, i soliti politici (con la complicità della segretaria della Cisl, Furlan) non hanno trovato di meglio che gridare allo scandalo e chiedere nuovi restringimenti del diritto di sciopero. Tra gli argomenti surreali utilizzati spicca quello per cui non dovrebbe essere consentito di indire scioperi a sindacati scarsamente rappresentativi: ma se un sindacato non è rappresentativo lo sciopero dovrebbe fallire, al contrario, se riesce, forse chi l’ha indetto non è così poco rappresentativo.

Geniale come sempre il presidente del consiglio ombra, Renzi, che ha tuonato contro gli scioperi di venerdi. Forse gli sfugge che chi lavora nei trasporti, turnando, lavora anche il sabato e la domenica, per cui la sua maliziosa osservazione è malposta, fermo restando che chi sciopera non viene pagato, quindi potrà pure scegliere quando non lavorare.

Resta il fatto che il ministro Delrio (si veda il sito www.cub.it) ha tentato di chiedere il rinvio dello sciopero ai sindacati promotori, che hanno risposto chiedendo al governo un incontro urgente al quale nessuno ha mai risposto. Insomma, tagliano, privatizzano, negano diritti, rifiutano di parlarci e poi ci chiedono anche di essere responsabili !! In allegato anche il comunicato della nostra confederazione

Il mondo alla rovescia

I risultati delle elezioni per il rinnovo del Consiglio di Amministrazione della Cassa di Previdenza San Paolo, per la parte di competenza degli iscritti in servizio appartenenti a Quadri Direttivi ed Aree Professionali, sono stati i seguenti.

  n.ro voti % su preferenze

espresse

Piccinino/Merlo (SALLCA-CUB) 1693 34,30%
Martino/Cirillo (FISAC-CGIL) 1173 23,76%
Innamorati/Ruda (UILCA-UIL) 875 17,73%
Picollo/Grippaldi (FABI) 742 15,03%
Gammarota/Sucato (FIRST-CISL) 453 9,18%

Per la quarta volta consecutiva, quindi, la coppia indicata dalla Cub-Sallca (in parte rinnovata) è stata di gran lunga la più votata.

Certo, il meccanismo delle preferenze plurime non consente di attribuire automaticamente le percentuali ottenute dai candidati ad un’organizzazione piuttosto che ad un’altra.

Certo, rispetto a tre anni fa i nostri voti sono diminuiti sia in termini assoluti (e questo è fisiologico) sia percentualmente e ciò in gran parte a causa della più elevata incidenza dei pensionamenti nelle zone di nostro maggior radicamento (a partire dal Piemonte).

Certo, stiamo parlando di una platea elettorale, quella dei sanpaolini ex-istituto di diritto pubblico, che al prossimo esodo di massa diventerà residuale.

E, tuttavia, i numeri sono inequivocabili. Il sindacato che non c’è, quello che non può indire assemblee, utilizzare le bacheche, beneficiare di permessi retribuiti ancora una volta mette in fila, ordinatamente, organizzazioni potenti, ricche, con un esercito di quadri sindacali che godono di decine di migliaia di ore di distacchi all’anno.

E il fatto che si tratti “solo” del mondo del vecchio Sanpaolo non può che inorgoglirci. Quello, infatti, è uno dei nostri luoghi di nascita e le/i colleghe/i che ci votano, quindi, ci conoscono da vent’anni o più. Il carattere durevole del sostegno accordatoci è una medaglia da esibire.

Resta da capire, invece, perché tra questi nostri fedelissimi elettori siano ancora relativamente troppo pochi (per quanto in aumento) quelli che si iscrivono al nostro sindacato (che è una condizione necessaria per dare continuità all’esperienza del Sallca) e relativamente troppi quelli che continuano a pagare le quote a sigle che non perdono l’occasione di dimostrare la singolare interpretazione che hanno (diciamo così…) delle più elementari regole della rappresentanza e della democrazia sindacale.

Ben al di là di vittorie o sconfitte, infatti, è solo la nostra esistenza che, talvolta, riesce a restituire la parola alle lavoratrici ed ai lavoratori, altrimenti ridotti a spettatori passivi.

Per la Cassa di Previdenza ha votato il 46% degli aventi diritto (il 66% di quelli in servizio). Una percentuale secondo noi insoddisfacente e preoccupante (in primo luogo per i temi che si dovranno affrontare nel prossimo mandato e che riguardano le stesse prospettive dell’Ente) ma che, tuttavia, è stata abissalmente superiore a quella registrata, ad esempio, nelle recenti elezioni per i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (pur molto importanti) alle quali, come noto, a noi viene letteralmente impedito di partecipare.

E dove, conseguentemente, i sindacati “rappresentativi” si sono potuti tradizionalmente dividere a tavolino “gli eletti” ed ai lavoratori è stato ancora una volta sottoposto lo sconcio di schede con X candidati per X posti, senza nemmeno la possibilità di scegliere i più meritevoli e scartare i più inutili tra di loro.

Al peggio comunque non c’è mai limite e, paradossalmente, un esempio chiarissimo del devastante concetto di “rappresentanza” che hanno i sindacati firmatari si è avuto proprio in occasioni di queste Elezioni per la Cassa di Previdenza.

Alcuni lavoratori ci hanno chiesto come mai, malgrado la nostra presenza, i candidati per Aree e Quadri fossero 5 per 5 posti. Eravamo forse entrati anche noi nella grande famiglia?

No di certo, naturalmente. Il punto è che gli strateghi delle sigle ritenendo (correttamente) che era sicuro che uno degli eletti sarebbe stato del Sallca hanno preferito “autoridursi” a quattro (l’escluso riceverà comodamente una compensazione altrove) piuttosto che perderne uno per strada. E questo, non tanto per toglierci la “soddisfazione” di aver eliminato qualcuno, ma ancora una volta per poter decidere a tavolino i nomi degli eletti senza lasciare alcun spazio a quel fastidio che è il giudizio dei lavoratori. E così nessuno si è dovuto affannare più di tanto o differenziarsi dagli altri spiegando, ad esempio, le proprie posizioni sulle ipotesi di chiusura della Cassa…

E infine una chicca. Come noto, i CdA degli Enti sono organismi bilaterali che prevedono la parità numerica tra i rappresentanti degli iscritti/lavoratori e quelli di nomina aziendale. La furbata strategica dei sindacati firmatari, se noi avessimo deciso di non presentarci (o qualcosa fosse andato storto, per esempio, nella raccolta delle firme) avrebbe determinato che la rappresentanza degli iscritti/lavoratori sarebbe stata inferiore di un’unità rispetto a quella padronale oltreché a quella statutariamente prevista! Ogni commento è superfluo.

Ma si sa, sul “sindacato che non c’è” si può sempre contare!!

Come sanno bene, del resto, le/i 1694 lavoratrici e lavoratori che hanno dato la loro preferenza ad Amalia e Piero che oggi, insieme a noi, non possono che ringraziarle/i per la fiducia accordata (e che è certamente ben riposta).

Ed a questo proposito un grazie particolare va a Cinzia, che per nove anni è stata la nostra rappresentante in CdA, svolgendo il proprio compito con competenza, stile e piena disponibilità. Per tre elezioni consecutive è stata di gran lunga la più votata di tutte/i le/i candidate/i e le sarebbe spettato di diritto, almeno in un’occasione, il ruolo di vice-presidente dell’Ente che invece, con le solite pratiche para-democratiche, i sindacati firmatari (di concerto con l’azienda) hanno avocato a sé, infischiandosene dei risultati del voto. Ancora.

Il mondo va così ed è per quello che noi vogliamo cambiarlo. Sapete dove trovarci.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo

Pressioni commerciali. Iniziative mirate e scelte di fondo

Nei giorni scorsi, due tra i non pochi lavoratori che ci avevano chiesto i link per poter vedere l’assemblea che abbiamo organizzato il 9 marzo a Torino su assunzioni ibride” e “pressioni commerciali” ci hanno riscritto domandando, quasi con le stesse parole, se il nostro reiterato appello a pensare e mettere in campo unitariamente delle iniziative di mobilitazione per contrastare le devastanti politiche aziendali che avvelenano sempre più il clima lavorativo nella Rete (e non solo) avesse sortito qualche effetto tra le altre sigle sindacali.

Ci è sembrato naturale girare loro il materiale prodotto dalla Fisac dell’Area Torino e Provincia a sostegno della loro campagna contro la “Vendita malata” che è stata recentemente lanciata con tanto di video interviste ai dirigenti sindacali locali.

La cosa ha fortemente sconcertato i due colleghi (non nostri iscritti e che lavorano rispettivamente nel Veneto e nelle Marche) che, ancora una volta con accenti molto simili, ci hanno risposto che anche da loro il problema è gravissimo ma che i sindacati firmatari, dopo aver scritto volantini di fuoco, non hanno fatto nulla di nulla e che il tran tran non è certo cambiato negli ultimi tempi.

Perché si muove qualcosa solo a Torino?

Confessiamo di nutrire anche noi qualche dubbio.

Ad una prima lettura, infatti, abbiamo giudicato l’iniziativa della Fisac con un certo compiacimento. Per il luogo, i tempi, per alcune delle modalità di lavoro previste e persino per qualche passaggio testuale ci è sembrato del tutto evidente che essa avesse (anche) il carattere di una risposta alle nostre sollecitazioni (o meglio a quelle di tanti lavoratori).

Ma perché di fronte ad un problema di ovvia rilevanza nazionale un’organizzazione potente e ricchissima di mezzi come la Fisac si limita ad un’iniziativa locale? A cosa serve? Quali spazi di contrattazione e possibilità di mobilitazione apre? E non ci si dica che è un “pilota” destinato ad essere poi replicato in altre aree territoriali! Abbiamo già perso sin troppo tempo, abbiamo bisogno di agire ora!

E allora, perché solo Torino?

La questione è rilevante per provare a capire se siamo di fronte ad una cosa utile e seria oppure no.

Un fatto è certo. Noi, proprio in provincia di Torino, dove siamo maggiormente radicati, abbiamo davvero lavorato tanto sull’argomento. E lo abbiamo fatto, pur nelle difficilissime condizioni “operative” alle quali siamo costretti, alternando parole a fatti: dalla distribuzione dei questionari sulle pressioni commerciali agli esposti alle Asl sullo “stress lavoro correlato”; dalle assemblee con nuclei omogenei di lavoratori (ex-assistenti alla clientela, gestori personal, gestori e addetti imprese, ecc..) ai volantinaggi alla clientela.

E tutto questo ha ovviamente generato un’attenzione ed un consenso ampio anche da parte di tante/i iscritte/i ad altre sigle che hanno apprezzato il nostro modo di operare e le nostre iniziative quanto meno rispetto agli imbarazzi ed all’inconcludenza di altri.

Non è che il problema vero che si vuol risolvere è questo?

Ognuno può ovviamente pensarla come meglio crede. Non ci piace scadere nella dietrologia e comunque sabbiamo bene di non essere “al centro del mondo”. Tuttavia le perplessità ci sembrano fondate anche se, fossimo inclini all’autocompiacimento, dovremmo essere soddisfatti in ogni caso. Sarebbe l’ennesima dimostrazione che laddove il sindacalismo di base è più forte non solo ottiene risultati diretti ma riesce talvolta ad influenzare le stesse dinamiche sindacali complessive. (E ovviamente lo diciamo in primo luogo a chi ci segue da territori dove siamo più deboli).

Ma naturalmente il punto centrale non è questo quanto la capacità di produrre risultati concreti per migliorare le condizioni di lavoro nostre e di tutti i colleghi. E allora, in questa prospettiva, non possiamo che ribadire che i nostri quadri sindacali e militanti più attivi sono sempre disponibili a collaborare, nei singoli punti operativi, con qualsivoglia iniziativa abbia finalità condivisibili e possa rivelarsi utile quanto meno ad un risveglio collettivo delle coscienze.

Riteniamo tuttavia di dover ancora una volta precisare che, quello che rende poco credibili le iniziative delle strutture locali dei sindacati “firmatari” sul tema delle pressioni commerciali non è né la tempistica né la (presunta) strumentalità e nemmeno la loro reale efficacia. E’ la profonda contraddittorietà con le scelte e le strategie delle “case madri” soprattutto se si è contribuito a sostenerle e non si è mai fatta alcuna autocritica.

Ci limitiamo a tre esempi macroscopici.

  • La recente “verifica” tecnica dell’accordo sui percorsi professionali dell’ottobre 2015 (che ha confermato la farraginosità e la totale unilateralità aziendale nella gestione dei meccanismi che lo governano) nonché le esperienze che cominciano a maturare dalla sua concreta applicazione in filiale non possono che rafforzare il giudizio negativo che ne abbiamo sempre dato. Per le tante nuove “opportunità” che garantisce alla catena di comando aziendale e, d’altro canto, per il peso di flessibilità, incertezze e ricattabiltà che scarica proprio sulla filiera di vendita esso ci è sempre apparso pienamente funzionale al rafforzamento dell’efficacia dell’esercizio delle pressioni commerciali.

 

  • Anche l’accordo che introduce le assunzioni “ibride” (metà dipendente e metà promotore) è tutt’altro che neutro rispetto ai problemi di “clima aziendale” e di “vendita malata” e questo persino a prescindere dalla valutazione complessiva che ne diamo in quanto potenzialmente devastante per il futuro della categoria. E ricordiamo che è un fatto scandaloso e senza precedenti che i sindacati “firmatari” non abbiano indetto le assemblee né per informare né (tanto meno) per votare.

 

  • E’ ormai all’ordine del giorno il legame tra “pressioni commerciali” e salute psicofisica dei lavoratori. Per contrastare l’azienda efficacemente occorrono anche RLS (Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza) autorevoli, liberi e riconosciuti. Eppure ancora pochi giorni fa abbiamo assistito allo scandalo di elezioni-farsa alle quali non solo hanno potuto partecipare esclusivamente le sigle “firmatarie” ma dove il loro inciucio preventivo non ci ha permesso nemmeno di selezionare i più meritevoli e scartare i più inutili di loro. X candidati per X posti. Disinteresse generale, percentuale di votanti bassissima, credibilità zero. Tutti eletti sia quelli bravi sia i nullafacenti.

 

E’ tempo di 730. Frotte di sindacalisti, di alcuni dei quali si erano perse le tracce dall’anno scorso, si aggirano tarantolati nel fare la spola tra scrivanie e CAF, con in tasca qualche tessera in bianco pronta alla bisogna. E’ l’occasione buona per chiedere loro cosa pensano di accordi sbagliati, assemblee sparite e diritti scippati.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo RSA Torino e Provincia

Cassa di Previdenza Sanpaolo: si vota dal 16 al 29 maggio. AMALIA PICCININO (titolare) e PIERGIUSEPPE MERLO (supplente) sono le candidature della CUB-SALLCA per il Consiglio di Amministrazione: ecco i motivi per cui sceglierle

La newsletter che recentemente hanno ricevuto tutte/i le/gli iscritte/i alla Cassa ci dice che, in base ai dati provvisori, il rendimento del patrimonio nel 2016 è stato del 6,25% circa. Nel 2014 il risultato era stato del 14,06%, nel difficile 2015 si era comunque arrivati al 2,85%. Indubbiamente anche nell’ultimo triennio non si può che dare un giudizio positivo sulla gestione finanziaria della Cassa, anche per la maggior oculatezza con la quale è stato gestito il comparto immobiliare che, come noto, ha portato invece parecchi dispiaceri in altri Fondi Pensione del Gruppo. Il patrimonio quindi continua a crescere e, a fronte dello strutturale sbilancio attuariale, c’è comunque la fidejussione con la quale la Banca garantisce i propri impegni.

Tutto bene, quindi, se non fosse che quello che ti chiede, un po’ preoccupato, il vecchio sanpaolino che incontri non è un qualche ragguaglio tecnico sul rendimento del comparto “growth” piuttosto che di quello “immunizzazione” quanto se è vero che i vertici aziendali e dei sindacati “firmatari” si sarebbero già accordati per procedere, in tempi brevi, allo scioglimento (“zainettizzazione”) della Cassa. Ed il perché ed il percome.

Di certo c’è solo che l’attuale CdA non ne ha mai formalmente discusso ma è significativo, tuttavia, che nessuno abbia mai voluto (potuto) smentire le voci che circolano. Né alcun candidato delle sigle, ovviamente, ha ritenuto di dire la propria opinione sull’argomento, cosa che sarebbe quanto meno doverosa in campagna elettorale!

Da parte nostra non possiamo che ribadire quanto già affermato in precedenti occasioni. Qualsivoglia “progetto”, per poter essere discusso, deve partire dall’integrale rispetto degli interessi e delle aspettative di tutte/i le/gli iscritte/i alla Cassa (ivi compresi gli attuali Pensionati) e quindi prevedere la volontarietà della scelta e non comportare alcun risparmio per la Banca rispetto a quanto coperto dalla fidejussione.

E, ovviamente, a prendere la decisione finale non potranno che essere le/gli iscritte/i che dovranno ricevere un’informativa chiara, esauriente e tempestiva.

Quello che ci preoccupa maggiormente è la “tentazione” che potrebbero avere i vertici aziendali e sindacali di operare qualche scambio improprio (non sarebbe certo una novità) con altre partite aperte e, in particolare, nella prospettiva di un nuovo ricorso al “fondo esuberi”.

Da questo punto di vista il nostro ruolo di controllo e, nel caso, di denuncia è più che mai essenziale. Da sempre, per i CdA degli enti previdenziali, abbiamo scelto di candidare persone in primo luogo competenti sul piano tecnico e professionale ma anche dotate di autonomia di giudizio e prive di quei “conflitti di interessi” nei quali sono immersi i consiglieri che vengono nominati dalle gerarchie aziendali e sindacali cui devono alla fine rispondere.

Nel contesto descritto ci pare che solo un vistoso successo delle candidature proposte dal sindacalismo di base (come peraltro avviene ormai dal 2008) possa essere un imprescindibile elemento di garanzia per tutti.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A.  Intesa Sanpaolo

RUOLI PROFESSIONALI IN INTESA SANPAOLO: L’ALGORITMO SOSTITUISCE LA CONTRATTAZIONE

In aprile Intesa Sanpaolo e sindacati firmatari hanno “verificato” l’applicazione dell’accordo sui ruoli professionali siglato nell’ottobre 2015 e rivisto le norme sul consolidamento delle indennità di ruolo.

Intanto venivano ricalcolati gli indici di complessità di filiali e portafogli, comunicando a tutti i gestori la nuova situazione. Le slides rese note consentono un primo bilancio di questo accordo sperimentale, che scadrà il 31.12.2017, con evidenti riflessi sulla contrattazione in sede nazionale.

Va detto innanzitutto della parzialità dei dati forniti: per 99 filiali oggetto di interventi organizzativi nel periodo novembre-dicembre 2016 la complessità non è ancora disponibile; inoltre si afferma che “nel ricalcolo dell’indice di complessità delle filiali si è tenuto conto dell’impatto negativo che il contesto macroeconomico ha avuto sull’andamento dei ricavi medi per cliente”, ma non si spiega come è stato cambiato il meccanismo di calcolo, o quali parametri siano stati utilizzati.

Non si può negare l’impressione che l’azienda faccia quello che vuole, assuma le variabili che ritiene utili, informi i sindacati di decisioni già prese e che non di contrattazione si tratti, quindi, ma semplici comunicazioni di servizio.

Il confronto tra la situazione di partenza in sede d’impianto e ricalcolo all’1.1.2017 risente quindi di corposi difetti comparativi, tuttavia si può provare ad imbastire una griglia di lettura per provare a spiegare meccanismi che restano nebulosi ed astratti.

L’interesse dei colleghi per queste vicende è sempre alto, mentre la loro possibilità di capire sempre più scarsa. Ad aprile alcuni colleghi hanno avuto la gradita sorpresa di vedere salire il livello di complessità gestita, e magari anche ottenere qualche forma di riconoscimento economico e professionale (il più delle volte parziale, tardivo e non consolidato); altri invece hanno visto questo livello ridursi e magari anche subire uno storno, in sede di conguaglio, di spettanze non più dovute a partire da febbraio-marzo 2017.

Cominceremo con un ripasso: mentre la complessità di filiale tiene conto di dati organizzativi e di dati commerciali, la pesatura dei portafogli individuali viene eseguita nel modo che segue.

Ogni cliente viene classificato in un sotto segmento (es. argento full), ogni  sotto segmento ha un peso in base alla complessità di gestione ed ogni tipologia di portafoglio (es. retail) ha un suo  moltiplicatore che tiene conto della competenza richiesta per seguire quel cliente. Moltiplicando:  (Numero di clienti)  x  (sotto segmento di appartenenza) x (peso associato al “territorio”) =   COMPLESSITA’ DEL PORTAFOGLIO.

Se proviamo a quantificare, vediamo che a livello di filiali non è successo molto: l’84% circa è rimasto dov’era, mentre un 8% è salito di livello ed un altro 8% è sceso. Più intenso il movimento nelle filiali imprese, dove solo il 7,5% è salito, mentre il 14,5% è sceso. Nel retail/personal si riscontra più stabilità, ma se avessimo il dato di quelle 99 filiali “razionalizzate” probabilmente vedremmo situazioni in movimento anche qui.

Le cose cominciano a farsi più interessanti se esaminiamo la platea dei direttori e dei loro inquadramenti: qui vediamo che in meno di due anni sono calati di 45 unità i QD4, di 14 unità i QD3 e di 19 unità i QD2, mentre restano stabili QD1 e Aree Professionali. Chiusure, accorpamenti e destinazione ad altre mansioni di direttori “spompati” hanno presumibilmente abbassato il numero dei lavoratori meglio inquadrati e  meglio pagati. Anche tra i Coordinatori Commerciali è accaduto lo stesso: calo di 44 unità tra i coordinatori con inquadramento compreso tra QD1 e QD4.

Se poi entriamo nel dettaglio dei 20.062 gestori PAR e Imprese, vediamo altri dati meritevoli di attenzione: ben il 38% ha “goduto” di un innalzamento di complessità del portafoglio gestito. Questa media è molto sventagliata tra le tre filiere: 31% nel Retail, 47% nel Personal, 57% nelle Imprese. Addirittura sono saliti dal 4,2% all’11,5% i gestori che hanno per le mani un portafoglio “A”, per un totale di 2308 colleghi. L’incremento più significativo si è verificato nelle Imprese (dal 2,9% al 11,2%) e nel Personal (da 13,1% al 32,9%). Dato questo generale innalzamento di complessità, sarebbe logico aspettarsi un generale avanzamento di ruolo. Invece i dati parlano di ben altro.

Infatti,  tra i gestori PAR la fascia di lavoratori dal QD1 al QD4 è calata di 107 unità, quella dei   3A/4L di 126 unità, quella dei 3A/3L di 61 unità e così via. Pare dunque di assistere a un fenomeno largamente contraddittorio, sebbene prevedibile: saturando i portafogli e le filiali, aumenta la complessità gestita, ma diminuisce la professionalità riconosciuta e pagata. Lavori di più, ma ti pagano meno; l’azienda ti spreme meglio e risparmia pure.

A tutto questo vanno aggiunte alcune considerazioni/interrogativi che aumentano ancora, se possibile, le perplessità sul funzionamento dell’accordo:

  • Che impatto avrà la revisione dei portafogli che è stata attuata con decorrenza 18 gennaio 2017, per renderli più “puri” e coerenti?
  • Perché non viene spiegato nei dettagli, di volta in volta, l’algoritmo utilizzato per procedere al ricalcolo della complessità delle filiali?
  • Perché non viene fornita ai gestori e ai direttori una scheda dettagliata dei dati utilizzati?
  • Perché i responsabili aziendali (in particolare del Personale) brancolano nel buio quando sono richiesti di chiarimenti?
  • Perché non vengono corrette le numerose disparità evidenti tra portafogli A che includono bassi volumi di a.f.i. ed elevata dispersione di clienti in “sviluppo”, e portafogli B e C con clientela “pesante” molto più complessa e strutturata rispetto alla prima?
  • Quali meccanismi di raccordo esistono o vengono applicati quando al gestore viene proposto/imposto un trasferimento su pari mansione in altra filiale?

Concludendo, abbiamo la netta impressione che l’azienda abbia costruito un modello farraginoso, complicato, incongruente, rigido e meccanico e quindi non adattabile alle norme del buon senso. I sindacati firmatari  hanno “comprato a scatola chiusa”, senza alcuna padronanza o controllo dei meccanismi, utilizzati alla fine per abbassare il costo complessivo del lavoro di rete e soprattutto ottenere un generale ribasso dei livelli di inquadramento applicati.

Dagli uni e dagli altri, sarebbero gradite risposte e chiarimenti.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. INTESA SANPAOLO

INTESA SANPAOLO. FORMAZIONE: DOVE VUOI, QUANDO VUOI

Molti colleghi e colleghe avranno, forse, avuto la possibilità di vedere un video (contenuto in una mail inviata dal servizio Formazione) dove, tra le altre cose, appaiono signorine intente a fissare, con aria estasiata, un tablet aziendale mentre aspettano il bus o stravaccate sulla poltrona di casa.

L’idea che viene suggerita è che con i tablet dedicati alla formazione sarà possibile effettuare la stessa in ogni momento ed in ogni luogo. Peccato, aggiungiamo noi, che questa straordinaria opportunità dovrebbe essere in sostituzione delle ore di lavoro nel proprio punto operativo e non in aggiunta, come il filmato sembrerebbe suggerire.

 

Questa notizia va abbinata con quella per cui l’azienda ha illustrato, il 30 Marzo, ai sindacati firmatari, il progetto sulla distribuzione dei tablet ai colleghi per la formazione da casa.

Si tratta di 8000 tablet mentre per il 2017 l’azienda si propone di acquistarne altri 16000 per estendere sempre più questo sistema innovativo.

In un suo comunicato al riguardo, la Fisac Cgil afferma  che “è  stato ovviamente ribadito che la formazione flessibile” da casa va svolta in orario di lavoro.

 

Dirlo però non è sufficiente. Tutti sanno che il lavoro supplementare non compensato è un fenomeno diffuso, Basta leggere i resoconti sindacali dai territori per capire che la causale NRI imperversa. Anche lo smart work (lavoro da casa) si presta ad abusi difficilmente controllabili.

La soluzione del problema non è agevole, non sempre le denunce agli organismi che dovrebbero vigilare vanno a segno.

 

Nel caso dei tablet però si poteva, forse, fare qualcosa di meglio. Sempre dai comunicati dei sindacati firmatari si apprende che l’acquisto degli stessi è avvenuto con l’uso dei fondi del FCA.

Se non andiamo errati l’utilizzo di questi fondi richiede la firma di accordi sindacali. Ma allora, visto che per una volta un po’ di potere i sindacati firmatutto al tavolo lo avevano, perché non lo hanno usato per imporre clausole e vincoli sull’uso dei tablet in modo da garantire che la formazione a casa sia sostitutiva e non aggiuntiva rispetto all’orario di lavoro?

 

Inutile ricordare che la formazione è diventata un requisito indispensabile, in base all’ultimo contratto aziendale, per chi deve consolidare il proprio ruolo.

Dopo le assunzioni miste, in parte  come dipendenti e in parte come consulenti finanziari, che risolvono il problema per l’azienda delle pressioni commerciali (perche’ i consulenti pagati in base ai risultati si spremono da soli), questa “innovativa” iniziativa potrebbe risolvere per la banca il problema di come erogare formazione senza distogliere i dipendenti dal lavoro: semplicemente potrà essere una formazione fai da te, pagata dal dipendente con il suo tempo di vita, che si confonde e si unifica con il tempo del lavoro.

 

Per evitare tale esito, vista l’assenza di segnali di vita da parte dei sindacati  “ufficiali” che ormai nelle loro dichiarazioni evidenziano la loro impotenza, è necessario che i lavoratori si autorganizzino per far rispettare le regole. Non dubitiamo vi siano responsabili coscienziosi che stabiliranno turni per stare a casa a fare la formazione. Ma immaginiamo anche che vi sarà chi si limiterà a ricordare che la formazione va finita entro una certa data.

 

Dobbiamo vigilare e segnalare situazioni anomale: fare la formazione a casa, al posto di andare al lavoro e nel limite delle 7 ore e 30 minuti di adibizione dovrà essere la regola. Ricordiamo, inoltre, a chi non ha problemi di consolidamento del ruolo, che la formazione “obbligatoria” è da intendersi come obbligo a carico non del lavoratore, ma dell’azienda, che deve metterci nelle condizioni di fruirne durante l’orario di lavoro.

Deve diventare un impegno collettivo, responsabili … più “responsabili” compresi, quello di mettere un freno al lavoro supplementare non compensato e riprenderci gli spazi di vita che ci spettano, senza più  regalare ore di lavoro gratuito.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo

INTESA SANPAOLO: QUESTIONARIO SULLE PRESSIONI COMMERCIALI SULLA RETE DI TORINO E CINTURA

Alla fine del 2016, su un buon numero di filiali di Torino e cintura, è stato distribuito un questionario, con poche domande (una decina) legate al tema delle pressioni commerciali e dei relativi problemi di salute.

Il questionario aveva l’obiettivo di raccogliere alcuni informazioni e fare conoscere meglio il lavoro del nostro sindacato, non aveva pretese scientifiche come un recente studio dell’Università di Pisa (reso noto dall’articolo di Gramellini, “stressato come un bancario”, comparso sul Corriere della sera del 15.03.2017), ma verosimilmente era più attendibile degli studi commissionati da Intesa Sanpaolo all’Università di Milano, che si concludono immancabilmente senza rilevare particolari criticità.

La distribuzione ha ricalcato quella di un precedente giro dei nostri quadri sindacali sulle filiali, durante il quale era stato diffuso il volantino “Lettera aperta a Stefanio Barrese” (infatti la prima domanda chiedeva se il testo era stato letto). Il recupero dei questionari compilati è stato affidato (salvo rari casi), all’”autogestione” di ogni punto operativo, con buoni risultati  in termini di tasso di restituzione.

Infatti il numero dei questionari compilati e ritornati è stato rilevante, superando le 300 unità.

Dati i criteri di distribuzione, non stupisce che il 92% abbia dichiarato di avere letto il nostro volantino e che di questi l’86% ne abbia condiviso i contenuti (evidentemente abbiamo rappresentato in termini realistici la situazione spesso drammatica del clima aziendale).

Subito dopo si passa alle domande sulle spinte verso gli obiettivi commerciali.

E’ interessante notare che, in una scala da 1 a 5,  il 52% colloca le pressioni del proprio punto operativo tra il 4 ed il 5 (e comunque con un 31% a livello 3), ma oltremodo significativo che questo dato aumenti ancora quando la domanda è riferita ai direttori di area:  il 62% dei colleghi  crocetta 4 e 5 (per un 20% di loro le pressioni sono intollerabili) ed il 26% si attesta sul livello 3.

Non è stato tempo perso ricordare ai lavoratori e alle lavoratrici che l’accordo sul sistema incentivante riferito al 2016 aveva alzato consistentemente la quota spettante ai direttori di area: il 63% non ne era conoscenza e supponiamo che non l’abbia presa bene…

I dati evidenziano qualche differenza tra filiali retail, personal e imprese, con le ultime due che danno risultati leggermente meno critici. Sarebbe peraltro interessante ripetere le domande oggi, dopo l’inizio scoppiettante del nuovo anno commerciale, per vedere se nel frattempo qualcuno non abbia già cambiato idea e si allinei al retail…

Interessante anche il dato sui problemi di salute legati allo stress lavoro correlato. In una scala da 0 a 5, la diffusione di questi problemi viene collocata dal 67% dei rispondenti tra 3 e 5 nel proprio punto operativo e la percentuale aumenta al 87% se riferito alla banca nel suo complesso. Anche in questo caso, nessuna pretesa di scientificità, ma una “percezione” molto forte della gravità del problema.

Alla domanda se i lavoratori e le lavoratrici dovrebbero coalizzarsi contro politiche commerciali troppo aggressive, il 64% risponde che sarebbe utile ma difficilmente praticabile, mentre quasi il 33% dice di sì e ci pare un bel dato da cui partire.

Allo stesso modo, alla domanda se la situazione lavorativa in azienda richiederebbe la risposta di un’azione di sciopero (e, soprattutto se c’è disponibilità ad aderirvi) oltre il 56% risponde in modo affermativo.

Quest’ultimo punto, che rappresenta un po’ il culmine di tutta l’indagine, è in sintonia con una voglia piuttosto diffusa di reagire, anche se questa si accompagna ad una richiesta di azione unitaria con sindacati che, a partire dalla fallimentare esperienza della casella “iosegnalo”, non mostrano una reale volontà di opporsi ad un sistema che, strutturalmente, poggia su un modello di servizio orientato a politiche commerciali aggressive. Ci riferiamo qui ai vertici dei sindacati firmatutto, restando ferma la nostra disponibilità a discutere e fare iniziative comuni con delegati di base degli altri sindacati che vogliano impegnarsi seriamente su questo terreno. Non a caso, anche nell’assemblea fuori orario del 9 marzo a Torino questo argomento è stato toccato più volte.

E’ ineludibile ormai un’iniziativa vertenziale, ben costruita da una tornata di assemblee, sul tema delle pressioni commerciali e del clima aziendale. Chiediamo ai lavoratori ed alle lavoratrici di aiutarci a spingere le organizzazioni sindacali, che hanno il potere di indirle in orario di lavoro,  di farsi carico di questo compito e passare dalle parole ai fatti.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A.  Area Torino Intesa Sanpaolo