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INTESA SANPAOLO. NUOVO FONDO PENSIONE A CONTRIBUZIONE DEFINITA PARTE 2 – LA GOVERNACE VA RIDISEGNATA

 

Ci sono molte cose ancora da fare, ma ci sono due punti in particolare sui quali vogliamo concentrare la nostra attività: sono quelli che caratterizzano la nostra presenza e che rappresentano la cartina di tornasole sulla quale andremo a valutare la nostra permanenza negli organi del Fondo.

Il primo aspetto è certamente quello di esercitare la massima pressione affinché questo CdA di nominati lasci spazio ad una rappresentanza realmente elettiva. Siamo infatti assai preoccupati che sia passato ben più di un anno ed ancora non siano nemmeno iniziati i contatti per definire modalità e tempi con cui indire democratiche elezioni dei rappresentanti dei lavoratori, come peraltro previsto negli accordi del 2015. Ricordiamo ai colleghi meno addentro alle questioni sindacali che tale contrattazione spetta unicamente alle organizzazioni che si autodefiniscono “istitutive” e non al CdA. Il termine istitutive è in realtà sostitutivo di “firmatarie di contratto”, in quanto è ormai ben chiaro a tutti (azienda in primis) che la nostra organizzazione sindacale è quantomeno altrettanto istitutiva delle altre, anche se ai tempi della nascita dei primi fondi pensione aziendali non eravamo presenti semplicemente perché ancora non esistevamo. Sono le antidemocratiche regole della rappresentanza sindacale, quindi, che non ci consentono di incidere direttamente su questo aspetto, anche se il nostro impegno sarà ovviamente rivolto a far si che le regole elettorali del nuovo Fondo consentano la più ampia partecipazione dei colleghi che vogliano auto-organizzarsi e una rappresentanza democratica e proporzionale.

Un secondo aspetto che riteniamo fondamentale cambiare è quello relativo alla gestione delle strutture del Fondo pensione. Nonostante la Banca abbia l’onere di garantire e finanziare le spese di struttura, occorre che venga data maggiore autonomia gestionale in capo all’ente previdenziale. Se è ovvio che la Banca voglia mantenere il controllo delle risorse, il CdA non può essere privo di voce in capitolo nel valutare l’adeguatezza delle strutture a disposizione e deve poter valutare l’operato quantomeno delle figure apicali (Direttore e primi riporti). A partire dalla nomina del Direttore, che come da consuetudine viene proposto dall’Azienda e sul cui nominativo si è sostanzialmente “liberi di essere d’accordo”, la stessa componente aziendale afferma che le risorse distaccate presso il Fondo Pensione sono in tutto e per tutto alle dipendenze del Fondo stesso. Se però le valutazioni, i premi, la carriera sono elementi che vengono gestiti unicamente dalla Banca, come tuttora avviene, è chiaro che, nella sostanza, il riferimento per chi lavora è l’Azienda e non il CdA.

Dopo aver ottenuto che vi sia l’alternanza nella nomina del Presidente del CdA (una volta appannaggio esclusivo dell’Azienda), occorre ora che anche la componente sindacale sia coinvolta nel processo di gestione delle risorse, in modo da consentire un effettivo controllo delle stesse, a prescindere da chi sostiene la spesa. Teoricamente, l’Azienda dovrebbe dichiarare il budget disponibile e poi lasciare che sia il Fondo stesso ad amministrare le risorse distaccate. Più concretamente, e come minimo, all’interno del CdA si dovrebbe costituire una commissione che si occupi delle questioni relative all’organizzazione ed alla gestione del personale, che svolge un ruolo fondamentale nella vita del fondo (i consiglieri passano, loro restano), e che dovrebbe contraddistinguersi per la piena autonomia operativa, senza alcun legame specifico con questa o quella componente. Potrebbe sembrare una questione marginale, ma in realtà l’indipendenza delle strutture, e dell’ente previdenziale in generale, è una garanzia per tutti e consentirebbe di conseguire una reale equiparazione tra le componenti aziendale e sindacale.

 

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INTESA SANPAOLO. NUOVO FONDO PENSIONE A CONTRIBUZIONE DEFINITA. PARTE 1 – DOVE SIAMO E COSA SI STA FACENDO

Habemus papam. Iniziano così due mail che ci sono arrivate successivamente alla riattivazione del sito del fondo pensione. Altre parlano di parto “trigemellare”. In effetti, come spesso succede per molti progetti di questa Banca, alle roboanti ed entusiastiche affermazioni dei grandi capi seguono poi lunghi e faticosi percorsi per chi deve nella realtà dei fatti far funzionare le cose. Trasferire decine di migliaia di posizioni previdenziali che si sono consolidate negli anni, soggette a legislazioni tempo per tempo vigenti, è stato ovviamente un percorso tutt’altro che semplice e lineare. Ad oggi sono pochissime le posizioni ancora oggetto di verifica e questo dimostra che presto e bene raramente si possono accoppiare. È facile firmare accordi, mentre attuarli è, sempre più spesso, quasi impossibile. In questo caso la presenza di precise regolamentazioni non ha consentito, come per altri accordi, di sorvolare sulle questioni più scomode e spinose ed ha imposto un rigido protocollo di realizzazione.

Se un primo passo è stato fatto, ora diventa necessario concludere il lavoro attivando anche la parte dispositiva, ma molto probabilmente questa non verrà resa disponibile prima dell’introduzione dei nuovi comparti di investimento ai quali i colleghi potranno aderire.

La costruzione delle Asset Allocation dei comparti ha richiesto un percorso molto complesso ed anche in questo caso si è dovuto imporre una calendarizzazione dei lavori più estesa rispetto a quella inizialmente prevista. Anche in questo caso la fretta ed il rispetto dei tempi imposti dagli apparati hanno spesso condizionato il processo di definizione dei nuovi comparti ed è nostra opinione che alcune decisioni avrebbero meritato un maggiore approfondimento.

Ad esempio, la scelta di rinunciare al veicolo Sicav, è stata effettuata sulla base di considerazioni più politiche che tecniche e senza una valutazione prospettica di lungo periodo, privilegiando una soluzione che contiene i costi, ma che impone di rinunciare ad una maggiore efficienza operativa ed a una struttura di controlli più articolata. Purtroppo alcuni tentativi esterni di vincolare le scelte del CdA e la necessità di una revisione del veicolo lussemburghese “ereditato” dalla gestione del fondo ex SanpaoloImi, hanno sostanzialmente imposto di rinunciare a questo percorso. Siamo comunque convinti che la costituzione di una Sicav garantisca sia una maggiore efficacia nell’accesso dei mercati attraverso mandati specialistici, che di mantenere un maggiore controllo da parte del Fondo sull’allocazione strategica, piuttosto che demandarla a gestori multiasset. Per questi motivi auspichiamo che, una volta avviato il Fondo Unico e costituito un nuovo CdA, si possano ripensare e rivedere le scelte attualmente fatte.

Inoltre, la decisione di non attivare un comparto etico toglie un elemento distintivo dell’offerta agli aderenti ed è stata un’occasione persa per trasformarlo in un più moderno comparto “socialmente responsabile” ma anche su questo punto crediamo sia possibile, in considerazione della sensibilità dimostrata da molti consiglieri, intervenire nel prossimo futuro.

Anche la scelta di investire in azioni Banca d’Italia è avvenuta in maniera affrettata, senza alcuni dovuti approfondimenti, che sono stati richiesti, ma ancora non soddisfatti, e sulla base di ipotesi di adesione ai vari comparti che potrebbero essere anche smentite dal comportamento dei colleghi. Su questo tema abbiamo ricevuto diverse richieste di chiarimento da parte di colleghi giustamente sospettosi.

Al fine di supportare il processo di ricollocazione delle quote di partecipazione e di garantire appetibilità agli investitori, sono stati predisposti dei meccanismi (riserve) che dovrebbero consentire di stabilizzare nel tempo gli utili netti. L’obiettivo è mantenere un livello di remunerazione minimo intorno al 4-4.5% e tale valutazione è supportata dalla sostanziale stabilità patrimoniale e reddituale di BdI. Tecnicamente, quindi, i flussi finanziari dell’investimento sono molto simili ad una obbligazione perpetua, piuttosto che ad un’azione tradizionale, ed il rendimento, almeno nel breve termine, è interessante, se equiparato a titoli governativi di pari standard. Per questo motivo è stato previsto che tali posizioni siano prioritariamente utilizzate nei comparti con maggiore componente obbligazionaria, al fine di migliorarne il profilo reddituale. Per quanto riguarda le perplessità legate alla liquidabilità della posizione, a valle del complessivo consolidamento della partecipazione azionaria, è stato previsto l’avvio di un mercato secondario nel quale 3 operatori garantiranno sia la formazione del prezzo, sia la scambiabilità, almeno fino ad un certo ammontare per settimana.

Il principale rischio di questi titoli è legato al limite di redditività ovvero al limite del 6% previsto come remunerazione massima del capitale. Infatti, in caso di rialzo dei tassi, è come avere un titolo a reddito fisso a lunga/lunghissima scadenza ed ovviamente in tali casi il prezzo ne risentirebbe ma la patrimonializzazione implicita (post aumento di capitale) dovrebbe garantire la tenuta. Un’altra variabile da tenere in considerazione è legata all’attuale struttura dei proventi che derivano in buona parte dalle operazioni di supporto al sistema … non è detto che dureranno per sempre! Per questi motivi, la posizione deve essere gestita con attenzione nel tempo, monitorando con attenzione i principali fattori di rischi impliciti.

In sintesi, in questo caso, non ci pare di ravvisare rischi particolari rispetto a quelli che già tutti sosteniamo nel momento in cui accettiamo che i nostri risparmi previdenziali siano esposti alle follie dei mercati finanziari …

Smarcate (in qualche modo, e si sarebbe potuto fare meglio) le tematiche più tecniche relative alla costruzione dei profili di investimento, sta per iniziare la delicata fase della scelta dei gestori a cui affidare i vari “pezzi” (la “asset class”) in cui è suddiviso il portafoglio di investimento. Anche in questo caso si prospetta una calendarizzazione serrata, che dubitiamo consentirà di analizzare a fondo i risvolti tecnici di alcuni complessi mandati, soprattutto a quei consiglieri con minore sensibilità e competenza sui temi finanziari.

Per nostra fortuna le masse investite sono così “appetibili” che molte tra le più grandi case di investimento hanno dimostrato il loro interesse ad acquisire i mandati sui quali è stata effettuata una pubblica offerta. Insomma qualunque sarà la scelta, essa non potrà che ricadere su primari intermediari ed il percorso stesso garantirà il rispetto di precisi standard. La definizione di un limite di concentrazione consentirà di differenziare i gestori e garantirà una almeno teorica concorrenzialità tra gli applicanti. Inoltre, il meccanismo di determinazione del gestore a cui affidare i nostri soldini è stato differenziato e, per alcune casistiche, il confronto avverrà analizzando più le performance e la qualità dell’operatore di mercato, che il mero profilo commissionale. Se ciò consentirà di scegliere il migliore, dipenderà dalle scelte dei consiglieri aziendali ed elettivi e dalle loro competenze …

L’attuale pianificazione prevede che già in estate i nuovi profili di investimento siano operativi e si avvicina quindi il momento nel quale ognuno di noi dovrà decidere se il nuovo comparto che gli verrà proposto in sostituzione all’attuale sarà di suo gradimento o meno. Restiamo comunque scettici sulle tempistiche, ma sarà nostra cura fare in modo che le scelte degli iscritti al Fondo possano avvenire nel modo più informato possibile, così da garantire ad ognuno la possibilità di decidere in modo razionale.

Diversamente da alcune altre sigle, che si sono arbitrariamente appropriate della primogenitura di alcuni passaggi della vita del Fondo, vogliamo sottolineare che praticamente tutte le scelte sono state largamente concordate. Non possiamo certo dire che sia stato semplice o indolore, ma sicuramente molte decisioni sono state assunte anche grazie alla nostra partecipazione, alle competenze anche tecniche che abbiamo garantito ed alle sensibilità che abbiamo rappresentato. Il nostro rappresentante ha dovuto, non raramente, ingoiare rospi indigesti; ma riteniamo che in alcuni passaggi la nostra presenza abbia avuto un ruolo tutt’altro che secondario ed il risultato finale ne esca sensibilmente migliorato.

 

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Ciao Piergorgio

DA CUB SALLCA A ISCRITTE/I

Sabato 18 marzo si è spento a Milano all’età di 78 anni Piergiorgio Tiboni, storico dirigente sindacale e fondatore della CUB. Tiboni è stata una figura di riferimento importante per intere generazioni di militanti sindacali. Entrato alle acciaierie Falck ancora ragazzo, dopo 8 anni di fabbrica si licenzia per diventare operatore sindacale a Brescia nella FIM-CISL e poi diventa segretario della federazione milanese, un vero e proprio laboratorio capace di rappresentare al meglio il grande fermento sociale che matura tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. E’ l’autunno caldo, con il sindacato che si apre alle nuove lotte e alla nuova composizione sociale di classe, che pratica il conflitto per contrattare da posizioni di forza, il sindacato che porta alle grandi conquiste, come lo Statuto dei Lavoratori. Si realizza una grande saldatura tra le lotte operaie, le  istanze dei tecnici, le esigenze degli impiegati e ceti medi che aderiscono per la prima volta alle agitazioni.

Insieme all’organizzazione sindacale, Tiboni si occupa anche di comunicazione, di informazione e di cultura, fondando Radio Popolare e la rivista Azimut. La FIM-CISL milanese e lombarda provano a resistere alla normalizzazione degli anni che verranno, ma alla fine degli anni ’80 la situazione diventa intollerabile e Tiboni con il suo gruppo esce dalla FIM-CISL per fondare la FLMU e subito dopo la CUB.

E’ la scommessa di un sindacato plurale e democratico, capace di aggregare militanti e lavoratori di diversa provenienza e fede politica, culturale, religiosa. Tiboni è un leader carismatico e pragmatico al tempo stesso, che riesce a fare sintesi senza mai alzare la voce.

Ha attraversato da militante e da dirigente sindacale 60 anni di conflitto, legando l’esperienza del sindacato dei consigli alla nuova avventura del sindacalismo di base. Ha lottato fino alla fine con una determinazione e una passione davvero rare, lasciando un’impronta indelebile. Non sarà facile sostituirlo, impossibile dimenticarlo. Ciao Piergiorgio.

Il funerale si terrà mercoledì 22 marzo alle ore 14,45 a Milano,  presso la parrocchia San Gerolamo Emiliani, Via Giovanni Calabria 36. Successivamente si terrà un saluto al Cimitero di Milano Lambrate (servizio navetta autobus di andata e ritorno). 

8 marzo di lotta

DA SEGRETERIA NAZIONALE CUB SALLCA 

A ISCRITTI/E, LAVORATORI/TRICI 

L’8 marzo le donne di tutto il mondo scioperano ma noi non possiamo!

Nell’ottica di ottemperare al “soddisfacimento delle necessità della vita attinenti ai diritti della persona costituzionalmente garantiti…

Le Organizzazioni sindacali firmatarie  si impegnano a non proclamare scioperi nella giornata di mercoledì…”

L’autoregolamentazione del diritto di sciopero nel settore bancario risale agli anni 80 e tale è rimasta sino ad oggi.

Al fine di consentire l’erogazione, durante lo sciopero, delle prestazioni ritenute indispensabili, quali il pagamento degli stipendi e delle pensioni, i sindacati firmatutto hanno sottoscritto un codice di autoregolamentazione che, tra le altre cose, vieta ai bancari l’indizione di sciopero per la giornata di mercoledì. Per il diritto di sciopero siamo considerati servizio pubblico essenziale ma questa caratteristica l’abbiamo persa da tempo sia per la possibilità di accedere all’erogazione di denaro attraverso altri canali, sia per la riduzione di sportelli e casse con la conseguenza di fornire un servizio sempre più scadente a chi non usa internet e bancomat.

Il nostro settore non è certo esente da discriminazioni di genere in particolare rispetto alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; alle donne è comunque assegnato il ruolo di cura e assistenza e sono poche quelle che possono delegare a pagamento tale ruolo. 

Un esempio per tutti sono le risposte assurde alle richieste di part-time delle lavoratrici: articolazioni di orario che mettono in seria difficoltà la possibilità di seguire i figli, pena il trasferimento.

Condividendo i contenuti di questa manifestazione che, ricordiamo, ha carattere mondiale, non possiamo che invitare, chi può, a partecipare alla

CHIAMATA ALLO SCIOPERO INTERNAZIONALE DELLE DONNE  8 MARZO 2017 DI “NI UNA MENOS” 

L’iniziativa nasce dalle donne argentine che hanno deciso di incrociare le braccia l’8 marzo: se le nostre vite non valgono, noi non produciamo. Ci fermiamo per esprimere dissenso e disobbedienza, per rifiutare ogni forma di violenza sessista, razzista, di sfruttamento e oppressione.

Dalla manifestazione del 26 novembre 2016 a Roma si sono moltiplicati in tutte le città italiane le iniziative, i tavoli di discussione, i dibattiti in preparazione della manifestazione: Povertà e precariato, diritti Lgbt e discriminazioni verso le donne migranti, discriminazione sul lavoro.

La violenza non è solo quella che avviene nelle relazioni di intimità: c’è la violenza di interventi politici che rispondono alla crisi erodendo diritti, tutele, welfare, dando per scontato che siano le donne con il loro lavoro di cura a sostituire politiche sociali assenti. 

E’ ancora violenza quella di Stati che costruiscono muri contro l’immigrazione o promulgano leggi per respingere e deportare. E’ ancora violenza quella di uno Stato che smantella  i consultori e continua a lasciare la legge 194 ostaggio dell’obiezione, cosiddetta “di coscienza”, che spesso cela l’ipocrisia di ginecologi che attuano una volontà di controllo dei corpi delle donne o sono mossi da opportunismi di carriera.

A supportare l’agitazione saranno i sindacati USB, CUB, USI e SGB. 

Potete trovare i volantini delle varie Federazioni della CUB sul sito nazionale e su quelli locali o di settore, mentre per il dibattito generale vi invitiamo a visitare il sito nonunadimeno.wordpress.com dove potrete seguire le varie iniziative.

INTESA SAN PAOLO: OLTRE IL LIVELLO DI GUARDIA

L’inizio del nuovo anno ha comportato in Intesa Sanpaolo un altro giro di vite sulle pressioni commerciali. Archiviato il 2016 con le ultime operazioni straordinarie, spostati centinaia di direttori e capi area per tenere sotto pressione la truppa ed alta la motivazione dei manager, respinte le richieste governative d’intervento per tenere in piedi qualche altra banca fallita, i vertici aziendali hanno  ripreso a fare quello che sanno meglio: martellare il personale per aumentare le vendite.

Mentre matura l’o.p.s. amichevole sulle Generali per evitare che l’ennesimo gioiello italiano  prenda la strada dell’estero, c’è il problema di restare forti per non essere a propria volta scalati. Occorrono fatti concreti, non basta affabulare gli azionisti promettendo 3,4 miliardi di dividendi per il 2017. Per fare profitti record in un paese stremato, si può solo pigiare l’acceleratore sulla rete di vendita e continuare ad “estrarre valore” da una clientela il più delle volte  esausta, delusa, impaurita, sfruttata. Non solo le filiere personal o retail, ma anche le filiali imprese sono investite da un tornado di richieste impressionanti.

L’azienda ha voluto l’accordo sulle assunzioni ibride, per introdurre un precedente che modifica in prospettiva tutto l’assetto contrattuale: la banca si riduce a rete di vendita e lo stipendio si riduce  a commissione sul venduto. Il programma ABI del 2013 diventa realtà: s’introducono forme di lavoro autonomo, retribuite a provvigione. Al calo di redditività si risponde con un abbassamento dei costi fissi. L’incertezza e l’instabilità economica si scaricano sulle spalle dei dipendenti.

Il riposizionamento sul mercato procede anche attraverso nuovi salti in avanti: per allargare il giro di ricavi e clienti arriva la Banca dei Tabaccai  (la nuova “Banca 5”, che segna, di fatto, il fallimento dell’esperienza). La novità, poco sorprendente, è che bisogna vendere più di prima (molto più di prima) i favolosi prodotti del risparmio gestito  e della filiera assicurativa.

Detto, fatto: parte la campagna sulla priorità delle priorità con centinaia di clienti da contattare entro una settimana per raggiungere gli ennesimi obiettivi sfidanti, in primis  un miliardo di ricavi in più entro il 31 marzo! Si sa, c’è la trimestrale, e non  ci si può presentare  agli analisti con dei dati deludenti…

A inizio febbraio è trascorsa così la settimana più allucinante per i consulenti Intesa  Sanpaolo, che hanno dovuto abbandonare tutto il resto per concentrarsi sulle priorità: prestiti, a.f.i. e soprattutto risparmio gestito. Ordine di scuderia: contattare tutti i clienti in campagna entro venerdì 11 febbraio.  Prodotto d’eccellenza da offrire ad una selezionata platea di clienti:  una polizza ridicolmente denominata “La tua scelta”. Si tratta di una polizza mista, un po’ ramo I e un po’ ramo III, a vita intera  ed una protezione del capitale al 91% su un arco temporale di 7 anni: un prodotto adattissimo da proporre ad una clientela terrorizzata, che non se la sente neanche di investire in prodotti garantiti, con orizzonti temporali cortissimi!

L’ordine di scuderia “è già stato eseguito”: impossibile per i consulenti sottrarsi ai comandi, perché le Direzioni di Area, impegnate a monitorare giornalmente le percentuali di lavorazione, hanno minacciato di entrare sulle agende e sui clienti in campagna (come se non l’avessero mai fatto…), per verificare l’autenticità dei contatti!

Ci piacerebbe sapere come vengono selezionati i responsabili della fabbrica prodotti e soprattutto quelli che individuano i potenziali target di clientela interessata… sarebbe bello se venissero ogni tanto a farsi un giro in filiale e parlare con un cliente non solo “potenziale”!

E’ assurdo lavorare in questo modo, pretendere l’applicazione rigida di un metodo commerciale ormai sterile, inefficace e controproducente. Sei appuntamenti al giorno possono rivelarsi del tutto inutili se legati ad algoritmi modellizzati: è meglio un appuntamento solo, ma ben preparato, efficace, fruttuoso. Funziona meglio un metodo che si affidi alla professionalità del consulente, alla sua conoscenza della clientela, alla sua capacità di trovare soluzioni sensate ad esigenze specifiche, rispetto ad un metodo quantitativo che schiaccia le reali necessità dei risparmiatori dentro il tritacarne del nostro conto economico e l’impellenza di “riempire le caselle”.

A cosa serve assegnare  venti diverse priorità, tra a.f.i., risparmio gestito,  nuovi clienti,  focus commerciale, sei ok, e via delirando, quando manca  il tempo per reggere il quotidiano, le incombenze amministrative, le pratiche di successione, non parliamo di curare la formazione e conoscere davvero i prodotti che si vogliono vendere?

A che serve continuare a correre all’impazzata dentro un  treno fuori controllo, con conduttori sempre più isterici, che chiedono di continuo dati che avranno comunque in automatico dopo qualche ora, con l’unico effetto di stressare ulteriormente una rete di vendita già provata da anni di pressioni insostenibili?

E’ ora di dire basta a tutto questo e provare a reagire con strumenti nuovi. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle il fallimento dell’accordo sulle pressioni commerciali siglato ormai 16 mesi fa. L’istituzione della casella iosegnalo@intesasanpaolo.com non è servita a nulla: nessuno ha mai chiarito dove finissero le poche mail spedite da colleghi sfiduciati e diffidenti, da chi e come venissero gestite, quali conseguenze avessero sui responsabili di abusi, quali sanzioni venissero applicate. Quello che non ha funzionato in Intesa Sanpaolo viene oggi esteso a tutto il sistema, con un accordo in sede ABI, ma solo l’ipocrisia generale può vantare come un successo quest’ ulteriore passaggio che rappresenta l’ennesima presa in giro.

Centinaia di delegati sindacali e strutture territoriali delle sigle firmatarie dell’accordo, hanno scritto migliaia di volantini  da cui traspare la sua sostanziale e diffusa disapplicazione: è  l’ammissione implicita della sconfitta. D’altronde, i vertici sindacali che hanno appena firmato l’accordo sulle assunzioni miste hanno perso ogni credibilità nel contrasto delle politiche commerciali aggressive.

Serve un salto di qualità. I lavoratori ed i rappresentanti delle altre sigle in buona fede devono, insieme a noi, operare per documentare nella maniera più precisa possibile comportamenti inappropriati e al di fuori dei princìpi etici, formalmente definiti dall’azienda, quando, addirittura, non sanzionabili sul piano legale.

Di fronte a fatti provati cercheremo di  inchiodare i vertici aziendali alle proprie responsabilità. In ultima istanza resta sempre la possibilità di ricorrere ad esposti e denunce alle autorità competenti.

Dobbiamo coalizzarci per resistere, quotidianamente, in ogni punto operativo, a richieste assurde ed insensate.

Perché non esigere la reale applicazione dell’accordo con l’unico rimedio davvero risolutivo: rendere i budget assegnati coerenti con la reale capacità del mercato di assorbirli e dei lavoratori di realizzarli?

Bisogna mettere testa in quello che si fa e non sparare a casaccio: in guerra vince chi si concentra su pochi obiettivi, utili, ragionevoli, raggiungibili. Puntare a vendere tutto a tutti, senza neanche conoscere in dettaglio quello che si vuole collocare, è sintomo di approssimazione e delirio di onnipotenza.

Come  lavoratori dobbiamo cominciare ad agire sul tema delle pressioni, che è per noi tutti la priorità delle priorità: ne va della serenità del clima lavorativo, dell’integrità della nostra prestazione professionale e della sopravvivenza dell’azienda in cui lavoriamo. E’ urgente parlarne con tutti, iscritti, lavoratori, responsabili,  delegati di altre sigle sindacali “di buona volontà”.

A Torino, il 9 marzo, l’assemblea cittadina (di cui comunicheremo a breve il luogo di svolgimento) sarà la prima occasione per provarci.

 

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f.i.p. 21.02.2017

Unicredit. La voce del padrone

“Se non puoi convincerli, confondili” (Harry S. Truman)

 

A tutti prima o poi nella vita capita di interrogarsi sui grandi quesiti esistenziali: chi sono, cosa sto facendo, perchè lo faccio, che senso ha la vita e via dicendo.

Lo stesso problema, se di problema si tratta, capita ragionevolmente anche sul posto di lavoro. Ed è veramente difficile non essere assaliti da dubbi esistenziali su base quotidiana nella realtà del nostro lavoro. Veniamo rassicurati quasi di continuo: siamo una banca paneuropea solida, scandisce con sguardo fisso e glaciale il nostro nuovo Amministratore Delegato, e supereremo indenni le piccole difficoltà presenti per incamminarci su un radioso futuro. Ma ciò che ci circonda e soprattutto il modo in cui si evolve è tale da far vacillare anche le certezze più salde.

Malfunzionamenti continui, continui disservizi, disorganizzazione, un piano industriale che contiene una sola grande sicurezza: altre migliaia di persone da estromettere con modesto e precario rimpiazzo, altre centinaia di agenzie da chiudere. Esternalizzazioni fatte, possibili e future, con conseguente scadimento della qualità della risposta alla Rete, ribaltata sul cliente finale. Una strategia commerciale basata unicamente sul mantra ossessivo delle vendite e della loro rendicontazione per settimana, per giorno, per ora. Un pressing costante sulle figure manageriali intermedie, perchè venga trasmesso da queste sulla base.

Cadute di tono scandalose, come colleghi che scoprono dal portale cosa dovranno fare dal primo di marzo; nemmeno più lo sforzo di scrivere lettere di trasferimento o fare colloqui, modifiche all’organigramma decise centralmente con l’accetta e comunicate in modo impersonale ai dipendenti, come fossero semplicemente dei pacchi da spostare da un punto all’altro.

Lo stesso avviene a molti clienti, che si troveranno chiuse le agenzie di riferimento ma ancora non hanno avuto comunicazioni ufficiali; abbiamo poi agenzie chiuse per ristrutturazione i cui colleghi sono inviati presso le agenzie in chiusura, senza porsi il problema di come possano lavorare.

La situazione non è migliore negli uffici di sede, dove ognuno si domanda per quanto rimarrà nel Gruppo prima di essere “incartato” e ceduto a qualche società creata ad hoc, o se la lavorazione di cui si occupa non sarà decentrata all’estero, stanti i noti successi di UPA Romania e delle lavorazioni affidate in esterno.

Il management attuale ha buon gioco ad attribuire le colpe alla “mala gestione del passato” e alla crisi che attanaglia il paese. In verità è qualcosa che abbiamo già visto: non a caso l’esordio al timone del precedente amministratore delegato è coinciso con altre perdite monstre seguite da esuberi, tagli al personale, ai premi, a tutto ciò su cui si poteva risparmiare. Ora la liturgia si ripete e c’è legittimamente da domandarsi quale sia il futuro di questo nuovo, ennesimo piano industriale. A leggere la descrizione che ne viene fatta nel prospetto informativo dell’aumento di capitale più imponente nella storia della borsa italiana l’unico punto fermo è la riduzione del costo del personale e speriamo che basti. La frase “fino a compromettere la sussistenza dei presupposti per la continuità aziendale” ricorre un po’ troppo spesso per parlare di nubi passeggere.

In questa situazione ci sarebbe da aspettarsi una presa di posizione decisa da parte di chi, finora, ci ha sempre esortato a chinare la testa e accettare “i migliori accordi possibili”, almeno finchè la testa l’abbiamo ancora attaccata al collo. E’ difficile imputare ai lavoratori qualcosa come 13 miliardi di perdite e tutti gli utili che si possono fare non potrebbero ripianarli in anni. Ma si esulta per successi clamorosi come l’ottenimento di qualche centinaio di euro di VAP, per lo sblocco della trattativa sugli inquadramenti, conclusa peraltro con risultati che hanno del ridicolo, per chi si prendesse la briga di leggere a fondo (per esempio, arrivano a garantire l’area 3 livello 3 a un consulente personal con SEI anni di esperienza).

In un’azienda che vacilla pericolosamente e soprattutto sembra avere le idee chiare su un unico punto, ovvero far pagare il conto a dipendenti e clienti, si gettano sulle briciole. Responsabilità, spirito di sacrificio o ennesimo tentativo di “tirare a campare” firmando qualsiasi cosa venga messa davanti?

Abbiamo perso già molto e molto possiamo perdere ancora. Noi crediamo che l’unica speranza per un vero cambiamento di rotta sia ricorrere ad ogni possibile strumento di tutela della nostra professionalità e della nostra stessa esistenza come categoria; veniamo continuamente messi in discussione da ogni nuovo piano industriale che prevede di “trasformarci” nelle cose più varie e fantasiose, quando le esigenze dei clienti sono sempre le stesse, come del resto le nostre.

Vi chiediamo di segnalarci scorrettezze, abusi, pressioni, intimidazioni; vi consigliamo di tenere gli occhi bene aperti, farvi e fare domande e non accettare nulla come una tragica, ineluttabile necessità. Tutto ciò che vediamo ora non è che il ripetersi in condizioni peggiorate di un pessimo film già visto, e considerando che cosa abbiano da perdere le singole parti in gioco domandiamoci a chi convenga davvero cercare di cambiare il finale.

 

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ACCORDO INTESA SANPAOLO SULLE ASSUNZIONI “MISTE”: COME PREPARARE LA DISTRUZIONE DELLA CATEGORIA RIVENDICANDO LA TUTELA DEI PROMOTORI

 

Il punto più importante e controverso dell’accordo sul Protocollo per lo sviluppo sostenibile del Gruppo Intesa Sanpaolo sono le nuove assunzioni di personale iscritto all’albo dei promotori. I
nuovi assunti lavoreranno part time come dipendenti, due o tre giorni alla settimana ed
i restanti come promotori, cioè lavoratori autonomi.

Quello che per i sindacati firmatutto è un positivo ed innovativo accordo, che consente ai lavoratori autonomi (i promotori assunti nell’occasione) di poter godere, in misura molto limitata, di malattia, infortunio e maternità, nonché del “welfare aziendale” (previdenza e sanità integrativa, ma solo nella “veste” di dipendenti), per noi è l’apertura di un processo che, nelle intenzioni aziendali, porterà ad avere lavoratori della rete commerciale con sempre meno stipendio fisso e garantito, su cui scaricare il rischio d’impresa (niente risultati, niente reddito) e risolvendo così il problema delle pressioni alla vendita (i nuovi assunti si “presseranno” da soli).

E’ il caso di ricordare che, in occasione dell’ultimo rinnovo del CCNL, nel documento sulle posizioni ufficiali dell’Abi era ben evidenziata la richiesta di utilizzo più ampio di rapporti di lavoro autonomo per gli addetti alla rete”.

Non ci pare un eccesso di dietrologia ipotizzare che questo accordo potrebbe essere la prima tappa per arrivare al risultato finale voluto dai banchieri. Altrimenti perché mai Intesa Sanpaolo ci teneva tanto a fare queste assunzioni stravaganti, mettendo insieme, nella stessa persona, le figure, totalmente diverse, del dipendente e del promotore?

La motivazione ufficiale dell’azienda di fare queste assunzioni come strumento per acquisire nuove masse gestite non ci convince, così come la possibilità per i nuovi assunti di chiedere, alla fine dei due anni, la conferma come dipendenti, che Intesa Sanpaolo potrà accogliere entro nove mesi con assunzione nell’ambito della regione o di quelle adiacenti.

La filosofia dell’operazione è ben visibile in queste dichiarazioni del segretario della Fabi Sileoni (ma immaginiamo condivise dagli altri firmatutto), rilasciate pochi giorni prima della firma dell’accordo  “In questi giorni, all’interno del gruppo Intesa, le organizzazioni sindacali stanno discutendo sull’opportunità di dare stabilità contrattuale e professionale a quei dipendenti assunti anche con contratto da promotori finanziari (in Intesa sono oltre 5mila, nel settore bancario italiano oltre 40mila). Prevedere nuove flessibilità contrattuali e nuove attività professionali sarà un percorso obbligato per mantenere gli attuali livelli occupazionali del settore e il movimento sindacale, tutto, se ne deve fare una ragione perché è nell’interesse del sindacato allargare il proprio campo d’azione e tutelare al meglio più tipologie di lavoratori, ad iniziare dai giovani. Il Contratto di lavoro scade a dicembre 2018 – conclude – ma le condizioni per un cambiamento radicale devono essere discusse ora perché, nei vari piani industriali, troppe aziende stanno andando in deroga al contratto collettivo nazionale di lavoro”.

E’ davvero grottesco che i sindacati al tavolo, incapaci di difendere i dipendenti di banca, si vantino di voler tutelare i promotori, finendo per agevolare l’obiettivo finale dei banchieri di avere una categoria sempre più debole e ricattabile.

Un obiettivo da raggiungere gradualmente, perchè i banchieri sanno che se la rana viene messa a cuocere nell’acqua tiepida, anziché bollente, non si accorgerà di cosa sta succedendo, ma gli scenari che si aprono sono inquietanti per tutta la categoria.

Grave il contenuto dell’accordo, grave il metodo: ancora una volta, senza consultare i lavoratori e senza chiedere alcun mandato, hanno fatto tutto da soli, come nel contratto del 2012, quando firmarono la manovra sugli orari, con le filiali aperte fino alle 20 ed al sabato mattina con i turni.

La democrazia sindacale è morta, la categoria è allo sbando, siamo rimasti solo noi a difendere il fortino. Aspettiamo i rinforzi.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Intesa Sanpaolo
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CREDIT AGRICOLE, L’ETICHETTA FRANCESE NON BASTA A NASCONDERE IL SOLITO CAOS ORGANIZZATIVO

CRONACHE DAL PIANETA CREDIT AGRICOLE
Bollettino periodico a cura della Federazione di Torino della CUB-SALLCA
n.ro 12 – febbraio 2017 – chiuso in redazione il 6-2-2017

Le carenze di organico, sempre più devastanti, stuzzicano la fantasia delle menti pensanti (?) che dirigono l’azienda.

La riportafogliazione della clientela è stata l’occasione per inventarsi l’idea di  cancellare la figura del gestore aziende, un’operazione che  rappresenta il classico caso di coperta corta che viene stiracchiata da tutte le parti.

Formalmente il lavoro dei gestori aziende è stato, in parte, girato ai direttori di filiale ed in parte raggruppato nel Polo Affari di Corso Traiano, che è stato potenziato con ben due risorse (anzi, una e mezza, visto che una collega è part time).

Gli altri, in parte sono in attesa di destinazione, in parte sono stati demansionati al ruolo di gestori famiglie e qualcuno diventerà uno e trino. Non solo dovrà magicamente affrontare il nuovo lavoro di gestori famiglie (per il quale non ha ricevuto nessuna formazione), ma continuerà a fare il lavoro precedente quando qualche suo cliente si presenterà in filiale, anzi nelle filiali.

L’ultima genialata è che questi colleghi dovranno dividersi su due filiali: nella stessa settimana, due giorni qui, tre giorni là, nel festival della flessibilità e della più totale discrezionalità aziendale.

Gira voce, peraltro, che a qualche gestore famiglie sia stato chiesto il maneggio valori (anche solo per la quadratura/caricamento del bancomat) in situazioni di emergenza (che peraltro stanno diventando l’ordinaria normalità), in una continua corsa a coprire i buchi, peraltro in un contesto di continuo scivolamento verso il basso delle mansioni e di mancanza di formazione: viene chiesto di caricare il bancomat anche a chi non lo ha mai fatto o la ha fatto molti anni fa e dovrebbe rivedere le procedure.

Non ci sono parole per definire questo ennesimo pastrocchio organizzativo, discutibile sul piano legale, inqualificabile dal punto di vista del buon senso e del rispetto della dignità dei lavoratori.

L’unica difesa è cercare di fare il proprio lavoro senza commettere errori, ma anche senza correre e affannarsi troppo per far funzionare quello che, palesemente, non funziona per carenze di organico e organizzative.

Ricordiamo, peraltro, che l’azienda ha l’obbligo di curare la formazione dei dipendenti e di fornirgli la conoscenza necessaria prima di adibirli a nuove mansioni.

Monte dei Paschi di Siena: un disastro costruito con metodo

“Oggi la banca è risanata, e investire è un affare. Su Monte dei Paschi si è abbattuta la speculazione ma è un bell’affare, ha attraversato vicissitudini pazzesche ma oggi è risanata, è un bel brand”. Matteo Renzi, Presidente del Consiglio dei Ministri, al Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016.

Una valutazione ragionata sul disastro Monte Paschi di Siena richiede almeno tre livelli di analisi.

Il primo livello attiene alla questione del “mercato” e del suo evidente fallimento nella soluzione della crisi, non solo del caso specifico e non solo del settore bancario, ma dell’intero sistema economico.

A dire il vero occorre estendere il ragionamento all’intera esperienza della privatizzazione delle banche italiane, per arrivare alla disarmante verità: il privato ha fallito e il pubblico ne deve pagare il prezzo. In estrema sintesi le banche pubbliche, trasformate in spa, privatizzate e quotate a partire dai primi anni ’90, sono diventate aziende come le altre, oggetto di contesa e speculazione, spremute per profitti di breve periodo, allontanate dalla originaria missione del fare credito e finanziare l’economia reale, infine abbandonate al loro triste destino. Malamente difese da scalate estere ostili, tramite barriere regolamentari anacronistiche e fusioni “difensive”, che hanno consegnato agli azionisti ricchi e intempestivi dividendi, frutto delle “economie di scala”, le banche italiane sono arrivate alla grande crisi con una struttura patrimoniale inadeguata per solcare mari in tempesta.

Avendo alle spalle uno stato finanziariamente debole e all’interno un management (strapagato) gravemente incapace e incosciente della gravità dei problemi, i banchieri (quasi tutti) hanno respinto sdegnosamente gli aiuti di stato (i famosi Tremonti Bond) per paura di  perdere potere. Mentre i crediti dubbi crescevano in modo esponenziale, le fondazioni faticavano a sorreggere gli aumenti di capitale resisi necessari e quindi si cercavano all’estero capitali di ventura (da Blackrock ai fondi sovrani arabi o libici), per racimolare capitale, possibilmente non troppo esigente nel pesare sugli assetti di comando.

Dieci anni di recessione hanno fatto esplodere i casi più disperati, che peraltro non sono frutto del caso, ma della combinazione perversa tra poteri forti, politica d’accatto, vigilanza latitante, elusione delle regole. Non dimentichiamo che Mussari (MPS) è stato per due mandati stimato presidente dell’ABI, con Berneschi (Carige) tra i vicepresidenti. Un parterre de roi, oggi indaffarato con inchieste penali non di poco conto. Mentre le banche tedesche, francesi, inglesi, olandesi, belghe venivano assistite dallo stato con centinaia di miliardi di euro, per restare in piedi dopo evidenti fallimenti tecnici, le banche italiane affermavano seriamente di essere solide e competitive sul “mercato”, tranne pochi casi isolati, opportunamente commissariati. Si diceva che presto anche per loro sarebbe arrivata una “soluzione di mercato”.

Si  procedeva così al recepimento, anche in Italia, della normativa europea del “bail-in”, che significa rifiutare gli aiuti di stato alle banche in difficoltà e azzerare il valore di azioni e obbligazioni subordinate, per passare poi, se necessario, alle obbligazioni senior e ai depositi sopra i 100.000 euro. Ricetta prontamente applicata al caso delle quattro banche fallite nel novembre 2015, scadenza che ha di fatto aperto le porte del baratro al sistema bancario italiano e scatenato una crisi che si cerca ora disperatamente di tamponare con l’intervento pubblico da 20 miliardi, per prevenire crisi sistemiche incombenti.

Le “soluzioni di mercato”, mantra ideologico martellante ma inservibile quando si tratta di scucire miliardi privati per scongiurare disastri imminenti, non si sono viste: Mediobanca e JP Morgan hanno fallito nel trovare compratori per MPS e il fondo del Qatar ha scelto di starne fuori. Il cerino in mano è rimasto ai piccoli risparmiatori, pieni di obbligazioni subordinate, e in ultima analisi ai contribuenti italiani, che dovranno ristorarne le perdite, sempre che l’UE non si metta di traverso, come già stanno facendo i falchi tedeschi e i custodi dell’ortodossia “di mercato”.

Ed è solo l’inizio di una partita lunga, che servirà da battistrada per altri dossier scottanti, che stanno ancora bollendo in pentola. Attaccare il nostro sistema bancario, fragile per i suoi 85 miliardi di crediti deteriorati netti, per la perdita di 5,6 miliardi di ricavi in 10 anni e per il crollo degli utili (dai 22,7 miliardi di euro nel 2007 ai 3,7 miliardi nel 2015) è lo sport preferito negli ambienti finanziari europei: farlo a pezzi è funzionale per chi punta magari a prendere il controllo di questo contenitore, che ingloba pur sempre il corposo risparmio degli italiani, uno dei più alti al mondo.

E arriviamo così al secondo livello del ragionamento, che prende in considerazione la disastrosa gestione politica della crisi bancaria italiana. Non è fuori luogo ricordare le “porte girevoli” che vedono circolare sempre gli stessi personaggi, tra aule universitarie, C.d.a. delle banche e poltrone di governo: Passera, Fornero, Monti, Profumo (Alessandro e Francesco), l’immarcescibile Bazoli, l’impresentabile Verdini, le telefonate compromettenti degli ultimi arrivati (“Abbiamo una banca?”), il conflitto di interessi della Boschi e tanti altri personaggi da operetta, che si sono trovati quasi casualmente a ricoprire ruoli di responsabilità in settori delicatissimi. Basti pensare al duo Renzi-Padoan, cui va attribuita, per intero, non tanto l’origine della crisi di Monte Paschi, ma certamente la sua incredibile e fallimentare gestione finale. Già nel 2013 il Fondo Monetario (avete letto bene, il Fondo Monetario…) aveva suggerito la nazionalizzazione della banca, ma il governo italiano riuscì a far depennare la frase nel documento finale!

E per tutto il 2016, a crisi ormai conclamata, sotto i colpi devastanti della vigilanza europea (che sorvola sui derivati delle banche dei paesi “core” ma sbertuccia le banche dei paesi “piigs”) Renzi e Padoan hanno rimandato tutto all’esito del referendum (per fare cosa?), affidandosi alla JP Morgan, che ha imposto a luglio il cambio di direzione, con la defenestrazione di Viola e l’intronamento di Morelli, capo di JP Morgan Europa e già direttore finanziario MPS all’epoca dell’acquisto scellerato di Antonveneta. Intanto i risparmiatori votavano con i piedi, ritirando 20 miliardi di depositi dalle casse del Monte, mentre gli obbligazionisti subordinati, terrorizzati dalla possibile perdita integrale del capitale come nel caso Etruria, accettavano obtorto collo di convertire i propri titoli in azioni. Tutto inutile, tutto da rifare…

Adesso il decreto del governo apre una difficile transizione: lo stato salirà al 70% del capitale, la banca emetterà 15 miliardi di titoli per rifinanziarsi nel 2017, ma non è affatto chiaro cosa significhi il modello di salvataggio prescelto (“burden sharing” in luogo del “bail-in”). Perché non parlare in italiano e spiegare bene ai risparmiatori come funzionerà la conversione delle loro obbligazioni subordinate prima in azioni e poi dopo di nuovo in obbligazioni senior? Quanto perderanno? Quanto costerà l’operazione alle casse dello stato? Perché si insiste già sul ruolo “provvisorio” dello stato, da non protrarsi oltre i 12-24 mesi? Perché bisogna fare intervenire lo stato per evitare casini e poi restituire tutto ai privati quando si può ricominciare a guadagnare?

Sono interrogativi retorici, che denunciano l’avvenuta e totale perdita di sovranità, in cambio dei diktat che recepiscono le direttive “del mercato”…

E così arriviamo al terzo livello, quello che alla fine ci interessa di più: le conseguenze sui lavoratori di questa situazione kafkiana, che vede uscire sconfitti tutti i soggetti “deboli”, mentre i giocatori d’azzardo avranno fatto affari memorabili, puntando prima sui ribassi e poi sul salvataggio pubblico. Negli anni i lavoratori MPS hanno subito svariati piani industriali che hanno pesato enormemente sugli organici, sulle condizioni retributive, sui diritti normativi, sul welfare aziendale. L’esternalizzazione di 1.000 lavoratori in Fruendo è stato il passaggio più traumatico, ancora oggetto di vertenze legali controverse. I diritti sono stati calpestati in nome della sopravvivenza dell’azienda, ma le rinunce non sono bastate per evitare il peggio.

L’ultimo piano industriale, varato a ottobre, prevedeva 2.900 esuberi e 500 chiusure di filiali, ma non è stato mai discusso veramente, dato che tutto dipendeva dalla ricapitalizzazione, poi fallita. L’accordo ponte firmato il 23 dicembre è poco più di un pannicello: manda a casa 600 addetti che maturano i requisiti pensionistici entro il 31.5.2022 e qualche decina di colleghe con “l’opzione donna”. Per gli altri passeranno altri mesi di angoscia e di incertezza, prima che un nuovo e più draconiano piano industriale emerga dalle nebbie dell’intervento pubblico. E’ grave che il management, Morelli in testa, sia stato riconfermato, a prescindere dal fallimento del suo “progetto”. Per i lavoratori MPS si apre una stagione durissima, come già si intravede per i casi più noti (fusione Veneto Banca – Pop. Vicenza, fusione Banco Popolare – BPM, vicenda Carige, accordo Cariferrara e  risoluzione delle altre tre banche fallite).

Di fronte ad una riproposizione seriale di piani lacrime e sangue, solo l’unità della categoria e la solidarietà di sistema possono garantire soluzioni accettabili. Non sarà una passeggiata, ma la mobilitazione e la lotta hanno dimostrato, in altre situazioni e in altri settori in crisi, di pagare sul piano dei risultati concreti. Nel contempo bisogna aprire la discussione sul bilancio da trarre da questi 25 anni di privatizzazione del credito e sui caratteri e le prospettive della sua ri-nazionalizzazione.

Ed anche sul ruolo dei rappresentanti sindacali dei lavoratori bancari, che hanno spesso condiviso l’entusiasmo per le privatizzazioni, convinti di avere così un maggior potere negoziale (magari con forme di cogestione), e devono oggi prendere atto di un clamoroso fallimento, dalle conseguenze pesantissime. Non sarà mai troppo tardi per cambiare registro e ricostruire sulle macerie l’idea di un sindacato diverso che, anziché concertare e collaborare con i vertici aziendali, faccia dell’autonomia la propria bandiera ed usi il conflitto per difendere gli interessi di chi rappresenta.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Monte dei Paschi di Siena

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Banco di napoli: filiali al freddo INACCETTABILE

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Come accade almeno due volte l’anno, ancora una volta assistiamo alla pantomima dell’aria condizionata. Locali caldi in estate e freddi in inverno. Decine di telefonate alle strutture aziendali competenti, elenchi lunghissimi di punti operativi da visitare, attese di giorni e i disagi per i lavoratori persistono.

La risposta più irritante, in tali casi, è: se fuori aumenta il caldo evidentemente anche all’interno aumenta la temperatura. Viceversa con il freddo. Figuriamoci con il gelo di questi giorni.

Replichiamo a queste opinabilissime eccezioni che, in casa di ognuno di noi (almeno tra tutti quelli che hanno il privilegio di possedere climatizzatori) questo differenziale non esiste: se all’esterno la temperatura è caldissima, all’interno si regola il condizionatore in modalità corrispondente e non si avverte il picco esterno, seppur limitato nel tempo. Se all’esterno la temperatura è rigida e va sottozero, all’interno si può anche stare in maniche di camicia.

Perché tutto ciò non può accadere nei luoghi di lavoro e, segnatamente, in tanti punti operativi del Banco di Napoli? Perché non consentire, dappertutto incondizionatamente, che i punti operativi possano calibrare la temperatura interna sulla scorta delle proprie esigenze?

E‘ utile richiamare il codice etico (approvato dal CdA del gruppo) che al capitolo “Principi di condotta nelle relazioni con i collaboratori”, paragrafo “il rispetto delle persone”, al penultimo alinea così recita: “rendiamo più agevole il lavoro semplificando prodotti, procedure e forme di comunicazione e garantiamo la salute e la sicurezza con misure sempre più efficaci”.

E’ utile richiamare il D. Lgs. 81/2008 (T.U. sulla salute e sicurezza sul lavoro) che al Titolo II Capo I  All IV (requisiti dei luoghi di lavoro) al punto 1.9 (microclima) comma 1.9.2 (temperatura nei locali) così recita:

“la temperatura nei locali di lavoro deve essere adeguata all’organismo umano durante il tempo di lavoro, tenuto conto dei metodi di lavoro applicati e degli sforzi fisici imposti ai lavoratori. Nel giudizio sulla temperatura adeguata per i lavoratori si deve tener conto della influenza che possono esercitare sopra di essa il grado di umidità ed il movimento dell’aria concomitanti. Quando non è conveniente modificare la temperatura di tutto l’ambiente si deve provvedere alla difesa dei lavoratori contro le temperature troppo alte o troppo basse mediante misure tecniche localizzate o mezzi personali di protezione”.

E’ utile richiamare l’ l’INAIL che  raccomanda di mantenere negli uffici una temperatura di almeno 18° e massimo 22° in inverno. In estate la differenza tra temperatura esterna ed interna non deve superare i 7°.

Dobbiamo ancora fare leva sulla pazienza e tolleranza dei lavoratori, vederli in canottiera in estate e con i giacconi in inverno, o possiamo pretendere il rispetto delle norme vigenti e dell’esercizio del buon senso ?

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni Federazione Campania

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