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La CUB-SALLCA è ovviamente al fianco delle lavoratrici e dei lavoratori francesi da mesi, ormai, in lotta contro la Loi Travail, il loro Job Act per capirci.
Stridente è il contrasto con il nulla che è successo in Italia in primo luogo a causa della passività dei sindacati concertativi.
Allucinante il velo di silenzio che i principali mass media tentano di stendere su quanto sta accadendo.
Anche la maggior parte dei nostri colleghi ha un livello di informazione e conoscenza dei fatti del tutto inadeguato.
A SEGUIRE (e in allegato) TROVATE UN EFFICACE DOCUMENTO PREDISPOSTO DALLA NOSTRA STRUTTURA DEL MONTE PASCHI.
Naturalmente la situazione è in costante evoluzione (si parla di casse di resistenza internazionali, di manifestazioni di fronte alle ambasciate francesi,…) e, per quanto possibile, cercheremo ancora di informarvi su eventuali iniziative che coinvolgano direttamente la nostra organizzazione ed il sindacato di base in generale.
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SOSTENERE LA LOTTA DEI LAVORATORI FRANCESI, RIPRENDERE QUELLA IN ITALIA
La grandiosa mobilitazione della classe lavoratrice francese per il ritiro della Loi Travail, dopo aver mostrato la forza della compattezza e della determinazione, inizia ad essere attaccata dal capitale e dai suoi mestatori politici e mediatici, con le consuete formule ideologiche che fanno perno sull’incompatibilità di quanto richiesto dai lavoratori, con le esigenze relative alla competitività del Paese sullo scenario internazionale. È una commedia già vista fin troppe volte, seppur con declinazioni diverse. È, in fondo, lo stesso ricatto posto al popolo greco al tempo del referendum.
La Loi Travail per alcuni aspetti ricalca il Jobs Act del governo Renzi, per altri anticipa quelle che sono le richieste presenti nell’agenda della Confindustria.
Il provvedimento del governo Hollande pone gli accordi aziendali in posizione prevalente rispetto ai contratti collettivi, estende la possibilità dei licenziamenti economici anche per l’abbassamento significativo degli ordinativi o per una riorganizzazione aziendale, offre al datore di lavoro la possibilità di imporre per cinque anni riduzioni di salario e aumenti dell’orario di lavoro.
La lotta dei lavoratori francesi riafferma la centralità del lavoro nei processi di trasformazione sociale, rompendo la cortina che ne aveva relegato il ruolo a mera appendice di dinamiche economiche e finanziarie autoreferenziali.
Questa volta noi lavoratori europei non possiamo fallire. Nostro compito è quello di delineare una chiara strategia di sostegno alla protesta francese.
Alcune organizzazioni sindacali e politiche hanno proclamato giornate di mobilitazione con manifestazioni e presidi davanti ai consolati francesi, in diverse città d’Italia.
Accanto a queste iniziative, noi proponiamo l’istituzione di una cassa di resistenza a supporto dei lavoratori francesi, che dopo un periodo di intensa mobilitazione, si apprestano ad affrontare il peso dello sciopero illimitato, proclamato dal fronte sindacale che si oppone alla controriforma del lavoro.
La cassa di resistenza va collocata in una prospettiva a lungo termine, nella quale si dovranno sviluppare forme maggiormente strutturate di lotta su scala sovranazionale, forme che finora si sono realizzate per quanto concerne l’Europa, attraverso la fusione a freddo dei vertici burocratici sindacali, senza alcun reale peso sulla dialettica tra imprese e lavoratori.
Da ciò l’inevitabile marginalità politica del lavoro, con il proliferare di “riforme” ostili attuate da governi di destra o di “sinistra”.
Le condizioni dei lavoratori – strette tra la morsa delle politiche deflattive assunte dalle autorità europee e la posizione di forza del capitale, determinata dalla sua ampia capacità di spostarsi alla ricerca di un costo del lavoro inferiore – stanno progressivamente tornando ad essere quelle preesistenti alle conquiste del movimento operaio del secondo dopoguerra.
Con la cassa di resistenza, oltre a perseguire lo scopo di un sostegno concreto alla lotta dei lavoratori francesi, possiamo esprimere la nostra distanza dai vertici dei nostri sindacati collaborativi e dalla loro inerzia complice.
Che continuino a non proclamare scioperi per riforme come quella della Fornero o il Jobs act, passate come noto, senza colpo ferire. Che perseverino sulla strada dell’ammiccamento con un potere politico, che non si sbarazza di loro definitivamente, solo per il ruolo di ammortizzatori del conflitto sociale che continuano a svolgere. Lasciamoli soli a raccogliere firme per una Carta dei diritti universali che mai nessun parlamento nazionale approverà, visto che dovrebbe verificarsi una completa inversione di tendenza, degli stessi rappresentanti che hanno provveduto a smantellare il perno su cui si reggeva lo Statuto dei lavoratori, attraverso la cancellazione dell’articolo 18, di cui le imprese richiedono ora l’applicazione nella nuova forma senza reintegro, anche per gli assunti prima dell’entrata in vigore del Jobs Act…
Cruciale diviene allora porci al fianco dei lavoratori francesi, per sostenere la loro lotta e per riprendere quella in Italia. Tutto deve contribuire a materializzare la nostra presenza al loro fianco, anche per rompere il muro di silenzio che i nostri asserviti mezzi di comunicazione di massa hanno innalzato su tali vicende.
Il limite del contesto nazionale si può abbattere così.
Oggi il fuoco divampa in Francia. Domani sarà di nuovo in Grecia o in Portogallo. Chissà forse in Italia.
E avremo solo una certezza: quanto faremo adesso, verrà metabolizzato dal soggetto collettivo in fieri, di respiro europeo, che accrescerà sé stesso.
La lotta di ci dirà il resto.
In questo numero proponiamo l’ultimo contributo che ci arriva dall’Emilia, che ironizza sulle aspettative aziendali rispetto alle performance dei bancomat di ultima generazione. Spesso i dati sul loro reale utilizzo vengono taroccati con vari stratagemmi, che non staremo qui a svelare, visto che questa rubrica pare essere letta anche ai “piani alti”.
Accanto a questo contributo spassoso, vogliamo provare a rispondere alle tante richieste di “gestori in crisi di vocazione”, che ci chiedono come fare a resistere alle pressioni commerciali sempre più asfissianti.
La soluzione non è certo a portata di mano e, accanto alle nostre iniziative di denuncia in varie sedi, l’unico comportamento che possiamo consigliare è quello di lavorare secondo coscienza, restando, per quanto possibile, indifferenti alle pressioni improprie.
Va fatto un grande sforzo mentale per convincersi (potremmo suggerire di mettersi davanti ad uno specchio e ripetersi più volte queste considerazioni) che chi lavora secondo coscienza (per chi ce l’ha naturalmente) lavora bene, mentre chi lavora in modo superficiale e spericolato, pur di raggiungere o superare gli obiettivi fissati, lavora male, nonostante vari responsabili cerchino di convincerci del contrario.
Al di là del fatto che, contrattualmente, noi abbiamo un orario di lavoro definito, nel corso del quale dobbiamo operare al meglio per eseguire le disposizioni aziendali (quelle vere, non quelle inventate) e non ci sono budget da raggiungere obbligatoriamente, ricordiamo che la miglior tutela ce la fornisce l’azienda, quando nelle norme relative agli investimenti ci ricorda che, in caso di conflitti tra l’interesse del cliente e quello della banca, va privilegiato quello del cliente.
Inutile ribadire, anche, l’attenzione al fatto che, nella foga di raggiungere gli obiettivi assegnati, si possono fare forzature e violazioni alla normativa che, una volta emerse, possono fare scattare sanzioni disciplinari.
Questo va tenuto presente perchè spesso i responsabili tendono a stilare classifiche, per chiedere poi spiegazioni a chi resta più indietro nelle “vendite”. In questo caso torniamo a quanto scritto all’inizio (e da ripetere davanti allo specchio).
Il nostro consiglio finale, quindi, è di lavorare in modo sereno e secondo coscienza (per chi ce l’ha naturalmente), rivendicando con fermezza la correttezza del proprio operato, rispettando le normative e restando indifferenti a pressioni improprie ed all’assegnazione di obiettivi tanto improbabili, quanto non vincolanti. Così facendo, state pur certi, lo stress lavoro-correlato non verrà a voi, ma a qualche responsabile troppo zelante.
Torneremo su questo tema con analisi più approfondite e qualche proposta più forte. Intanto consigliamo di tenere traccia di tutto quello che accade. Alleghiamo un volantino dei sindacati firmatari che esplicita un caso di utilizzo della casella “Iosegnalo”. Le parole del direttore in oggetto non meritano commenti. Vediamo cosa farà l’azienda a fronte di una denuncia così precisa. Purtroppo la maggior parte dei responsabili che “esagera” non è così sprovveduto da mettere in forma scritta certi discorsi, però sarà interessante verificare gli sviluppi di questo caso.
In una recente riunione dell’Area Torino è stato richiesto ai gestori l’obiettivo di “produrre” 2.200 Euro di commissioni al giorno. Qualche lavoratore, allarmato, ci ha contattati per segnalare l’episodio.
Vorremmo rassicurare tutti/e: l’azienda può lecitamente fare una richiesta del genere ed i lavoratori, altrettanto lecitamente, possono non esaudirla.
L’azienda può richiedere qualsiasi cosa che non violi le leggi. Tale richiesta rientra nella categoria, al massimo, di quelle che violano elementari norme di buon senso.
Per capirci, l’azienda potrebbe anche chiederci di raggiungere la luna in bicicletta ed a noi non resterebbe che metterci a pedalare (senza fretta) e verificare giorno per giorno dove siamo arrivati…
Il punto che deve essere chiaro è che non esiste alcuna norma che imponga di fare 2.200 Euro di commissioni al giorno. Quindi non raggiungere questo fantasioso obiettivo non costituisce violazione di nessun obbligo contrattuale o regolamentare.
Troppo spesso qualche responsabile “creativo”, messo sotto pressione da chi sta sopra di lui nella scala gerarchica, lancia obiettivi “sfidanti” inducendo i lavoratori a credere di lavorare a cottimo o per obiettivi. Non funziona così: abbiamo un orario di lavoro definito, nel corso del quale dobbiamo operare al meglio per eseguire le disposizioni aziendali (quelle vere, non quelle inventate) e non ci sono budget da raggiungere obbligatoriamente.
Al contrario, nella foga di raggiungere gli obiettivi assegnati, si possono fare forzature e violazioni alla normativa che, una volta emerse, possono fare scattare sanzioni disciplinari.
Questo va tenuto presente perchè, spesso, i responsabili tendono a stilare classifiche, per chiedere poi ragioni del loro comportamento a chi resta più indietro nelle “vendite”. Premesso che tale pratica è scorretta e viola le norme sullo stress lavoro-correlato, resta il fatto che chi lavora in modo corretto e con coscienza può ben rivendicare la bontà del proprio operato, rispetto a chi agisce in modo spericolato e poco rispettoso delle normative pur di raggiungere gli obiettivi.
Il nostro consiglio finale, quindi, è di lavorare in modo sereno e secondo coscienza (per chi ce l’ha naturalmente), rispettando le normative e restando indifferenti a pressioni improprie ed all’assegnazione di obiettivi tanto improbabili, quanto non vincolanti. Così facendo, state pur certi, lo stress lavoro-correlato non verrà a voi, ma a qualche responsabile troppo zelante.
La “narrazione” che emerge dai comunicati dei sindacati firmatari asseconda la tesi che gli accordi sono buoni, ma l’azienda non li applica come si deve. Il tutto ricorda le giustificazioni rispetto al problema degli orari estesi: in quel caso, nel contratto nazionale, senza consultazione preventiva dei lavoratori, era stata introdotta l’apertura degli sportelli dalle 8 alle 20, più il sabato mattina, senza nessun vincolo aziendale. Quando questa possibilità è stata attuata, praticamente ad organici invariati, la “colpa” era dell’azienda che l’applicava senza criterio.
Ora la storia si ripete ed il 7 aprile un comunicato unitario affermava perentoriamente: “chiediamo all’azienda impegni precisi sull’applicazione del Contratto di Secondo Livello e tempi definiti per le comunicazioni delle complessità e per l’erogazione delle indennità di ruolo e di quelle di direzione e sostituzione”.
Se ogni volta ci si deve lamentare della mancata/ritardata/maldestra applicazione degli accordi, o i sindacati firmatari sono sprovveduti (per usare un eufemismo), o forse il problema risiede negli accordi stessi e nella scarsa affidabilità della controparte (non ci siamo dimenticati del licenziamento, poi rientrato, degli apprendisti nel 2012, usato come arma di ricatto nella vertenza in corso).
Noi siamo stati gli unici a contestare gli accordi di secondo livello (peraltro approvati con un’ampia percentuale, sul piano nazionale, dai lavoratori che hanno partecipato alle assemblee), nel metodo e nel merito. Il metodo è stato quello di una piattaforma presentata solo dalla controparte, con proposte già definite, emendate per quanto possibile dai sindacati al tavolo e poi firmate. Parlare di trattativa, in questa situazione, ci pare azzardato. Nel merito gli accordi (non tutti nella stessa misura) lasciavano ampio spazio alla discrezionalità aziendale, oltre a presentare caratteristiche di scarsa chiarezza, elevata complessità, difficile esigibilità.
Dopo sette mesi dalla firma, possiamo verificare gli effetti dell’accordo, in particolare sui temi “caldi” del Premio Variabile di Risultato (PVR) e delle pressioni commerciali.
Sugli altri temi rimandiamo ai comunicati dei sindacati firmatari per i dettagli, ricordando solo gli inaccettabili ritardi aziendali rispetto alle comunicazioni sulla complessità dei portafogli, ai pagamenti di indennità per coordinatori Retail e Imprese, direttori di filiale, direttori di Area, alle tematiche della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Tutto questo senza dimenticare che sugli inquadramenti l’accordo fa passi indietro rispetto ai precedenti per quel che riguarda la rete filiali (peraltro, sistemata la parte che gli interessava, l’azienda si è dimenticata degli inquadramenti dei lavoratori del resto della banca) e che dai comunicati territoriali dei sindacati firmatari, emergono episodi di diniego nella concessione delle giornate di sospensione volontaria (la cui richiesta, complessivamente, ha raggiunto la quota di 95.000).
Sull’argomento del nuovo Fondo Pensioni torneremo con un volantino specifico.
Che succede sul Premio Variabile di Risultato (PVR), una delle “conquiste” del contratto nazionale, che supera la divisione tra Vap e sistema incentivante e pone le basi, secondo i firmatari, per controllare la discrezionalità aziendale sul salario variabile?
Qui lasciamo la parola al comunicato unitario, che sarebbe perfetto se non fosse che l’accordo l’hanno firmato loro:
“abbiamo inoltre denunciato che, dopo la pubblicazione della circolare sul Premio Variabile di Risultato 2015 (PVR) il clima nella filiali, già compromesso dalle pressioni commerciali, è ulteriormente peggiorato. Le schede (scorecard) in merito al riconoscimento della quota di eccellenza del PVR sono eccessivamente complesse (sembra infatti più semplice leggere e comprendere un geroglifico egizio!) ma, quello che è peggio, è la variazione delle “regole di ingaggio” per l’eccellenza.La mancanza di chiarezza e la variazione delle regole di ingaggio creano forte sfiducia tra i colleghi”.
Ritorna la domanda: dabbenaggine o malafede?
Disarmante è la situazione sulla parte delle pressioni commerciali. In buona sostanza, l’unico effetto dell’accordo è che le pressioni scritte (via mail) sono state sostituite da pressioni verbali. I colleghi sono restii a segnalare gli episodi anche con lo “schermo” sindacale. D’altronde cosa segnalare? L’unico esempio richiamato nell’accordo, cioè i continui report richiesti, è già stato ridimensionato dalle funzioni aziendali: i report non sono vietati, è vietata solo la loro “ridondanza”.
Noi stessi avevamo invitato i lavoratori ad usare la casella “Io segnalo”, per non dare l’idea che tutto andasse bene, ma fin dall’inizio sapevamo che sarebbe stato difficile e che l’accordo, in questi termini, non risolveva nulla, mentre regalava all’azienda una patente di “eticità”.
La questione vera è che le pressioni commerciali costituiscono ovunque l’essenza stessa dell’attuale modello di banca, con un paio di specificità di Intesa Sanpaolo.
La prima è un piano industriale ambizioso e irrealistico, perchè pretendere di fare utili a livelli mostruosi mentre l’economia ristagna (quella mondiale e ancor più quella italiana) non ci pare molto etico e certamente richiede di “spremere” oltre misura la rete.
La seconda è un modello organizzativo (il nuovo modello di servizio inaugurato il 19 gennaio del 2015) pensato “scientificamente” per mettere sotto pressione i gestori, attraverso filiali più piccole e la supervisione opprimente dei direttori di area.
Ovviamente un sindacato che scarta a priori l’idea del conflitto non può cambiare né un piano industriale, né l’organizzazione del lavoro che l’azienda si è scelta (e che è in continua mutazione) ma, oltre a negoziarne le ricadute (il che presupporrebbe, comunque, l’esistenza di una propria piattaforma da contrapporre a quella aziendale), dovrebbe almeno contrastare le violazioni di legge e contrattuali che le iniziative aziendali possono determinare.
Questo vuol dire che quando si crea un numero ingente di ore di lavoro straordinario giustificate con NRI (presenza senza prestazione lavorativa), per non parlare di altre forme di straordinario non dichiarate, occorre prendere atto e denunciare la verità: tutto ciò costituisce evasione fiscale e contributiva.
La divisione delle filiali tra Retail e Personal crea disagi ai lavoratori (sia per le difficoltà operative, sia per le clamorose carenze di formazione), fa aumentare le pressioni commerciali e lo stress lavorativo: tutto questo viola il DL 81/2008 sulla salute e sicurezza.
Se viene deciso che le casse debbano essere ridotte, non esitando a lasciare i clienti in coda per tempi interminabili, determinando costanti situazioni di tensione per il colleghi, bisogna dirlo: anche questo viola il DL 81/2008 sulla salute e sicurezza.
Se nonostante i ripetuti richiami, peraltro fatti anche dai sindacati firmatari, l’azienda persevererà con queste violazioni di legge, la denuncia alle autorità competenti sarà inevitabile.
La tensione verso risultati ad ogni costo sta creando un pericoloso stato di delirio di onnipotenza tra alcuni responsabili, il clima intimidatorio non si respira solo nelle filiali, ma anche nelle sedi. Si afferma un senso di impunità dei comportamenti gestionali scorretti e si afferma l’idea che tutto oramai sia lecito in nome dei risultati.
Questa deriva va contrastata con fermezza e sarebbe opportuno che, perlomeno, gli accordi non finissero per avallare certe scelte aziendali, che vanno respinte. Lo stato di malessere dei lavoratori, ormai generalizzato, può essere risolto solo con un’azione incisiva che contempli anche l’avvio di iniziative conflittuali.
Nel nostro Consorzio sono arrivate persone di ACCENTURE che stanno esaminando tutte le nostre attività lavorative,
ciò allo scopo di individuare quelle che, per caratteristiche di numerosità/ripetitività e standardizzazione,
sono più facilmente “robotizzabili”.
LA DITTA ACCENTURE, in collaborazione con alcune “software house”, ci sta vendendo un prodotto che introduce l’automatizzazione/robotizzazione delle attività operations, tipiche dei consorzi di servizi bancari-finanziari.
Dopo l’automatizzazione dei servizi di cassa, ormai praticamente completata (in BPI ci sono in questo momento 250 ex cassieri BNL “profughi”) ora si passa a quella degli uffici dedicati alle attività operations.
Tutto questo nel pressochè totale silenzio da parte sindacale.
La cosa sembra anche aver preoccupato molto il nostro corrispondente Capitan Libeccio (vedi sotto).
ROBOTIZZAZIONE –robotiżżazióne s. f. [der. di robotizzare, sul modello del fr. robotisation]. – Introduzione di robot in processi produttivi: r. di un’industria, di un reparto di una fabbrica, di un laboratorio di ricerca nucleare. In usi fig.: r. della mano d’opera, r. del genere umano. (Treccani)
Sono il nuovo bancario, mi muovo sempre, non mi distraggo mai e non ho orario.
Sono il nuovo impiegato, non sono pagato, mi hanno solo installato, non guardo lontano e non guardo di lato.
Fisso solo il monitor e mi muovo secondo il programma, ho alcuni padri e nessuna Mamma.
Sto fermo al mio posto, mentre con il lavoro vado sempre avanti, non sono solo, con i miei “fratelli” siamo tanti, siamo collocati qui, al posto degli umani che si stancano troppo spesso e fanno troppe pipì.
Siamo ovunque, nel Mondo di persone affollato, nelle fabbriche, nei trasporti, nelle banche, nei campi e nelle scuole…<<è il Progresso!>>, dicono i nostri padri per ogni dove, si rassegni dunque chi non ci vuole.
Sono arrivato un giorno all’improvviso, ho raccolto l’eredità di molti umani, di cui non ricordo il viso.
13.5.2016
CAPITAN LIBECCIO
secondo urlo/comunicato ospitato da SALLCA CUB BNL-BPI
CAPITAN LIBECCIO
Primo urlo/comunicato ospitato da SALLCA CUB BNL-BPI Milano, 27.4.2016
Assemblea dei lavoratori? Roba vecchia, rito evidentemente inutile a giudicare dalle decine di ore perse, per le assemblee non indette negli ultimi anni.
Solo se serve “recuperare” qualche approvazione, solo per “vidimare” ex post qualche verbale di accordo allora riappare questa “strana” usanza, questa “obsoleta” condizione, s’indice l’assemblea con tutti i sindacalisti schierati per l’occasione.
Nel quotidiano nulla più…, ci sono incontri con la direzione, vengono comunicati piani di sviluppo (o meglio di riduzione) o cambi di attività e di gestione? C…loro evidentemente, va di lusso se arriva qualche mail riservata ai soli iscritti all’unitario-carrozzone.
Qualche esempio? 1) Il contratto nazionale del Credito è stato da poco definitivamente firmato, a clamorosa distanza di 13 mesi dalla firma dell’ipotesi di accordo del 31 marzo 2015; 2) l’accordo in materia di Salute e Sicurezza (con nuove previsioni per l’elezione e per l’operatività dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza) è stato recentemente firmato (dopo quasi tre anni di trattative mai “spiegate” ai lavoratori); 3) In molte sedi della BNL e di BPI sono previsti enormi spostamenti di attività e di persone (con ulteriori previsioni di cambiamenti di operatività e di metodologie di lavoro); eppure nessuna sigla sindacale ha pensato bene di parlarne con i diretti interessati, con le lavoratrici e i lavoratori.
Vi pare normale? Vi sembra sensato? A giudicare dal torpore che si respira in tutti i piani dei palazzi, in ogni sede e agenzia, pare di sì…sono proprio c… loro, tutto qui!
A seguire alcune indicazioni utili per la scelta di Vap e premio per il venticinquesimo anno di servizio, in base alle opzioni “cash” o “welfare”. Altre notizie tecniche sono disponibili sul portale aziendale al seguente link:
In questi giorni è disponibile a portale la scelta su come percepire il premio aziendale (VAP) e, per chi non l’avesse ancora ricevuto, il rateo del premio per il 25° anno di servizio sospeso nel 2014 come da accordi al tempo firmati dai sindacati trattanti. Per entrambi la scelta è fra conferimento a welfare (con successivo passaggio a fondo pensione purchè si sia iscritti, e qualora non si sia usato il conto welfare) e corresponsione in busta di una somma ridotta.
Per il VAP la scelta è fra 650 euro in busta (lordi, ma con una tassazione agevolata al 10%) e 1.000 euro a conto welfare, successivamente trasferibili su fondo pensione se non utilizzati. Nel secondo caso l’azienda non versa la contribuzione previdenziale (24% circa).
Per quanto riguarda il premio 25° la casistica è diversa e individuale e dipende dall’anzianità di servizio a giugno 2014, oltre che dalla banca di provenienza (i trattamenti erano diversi). Si può visualizzare in procedura l’importo che comprende già un bonus del 20% riconosciuto dall’Azienda a chi richiede l’accredito a conto welfare (scomponibile in 3 tranches con due opzioni per l’anno di partenza che può essere il 2016 o il 2017). Qualora si richieda invece l’accredito in busta si riceverà a luglio una cifra lorda pari all’importo indicato decurtato del 17%. Anche in questo caso la scelta del conto welfare determina il mancato versamento della contribuzione previdenziale.
Sugli usi possibili del conto welfare ci siamo già diffusi in passato; suggeriamo di verificare attentamente la possibilità di utilizzare concretamente i fondi a scanso di brutte sorprese. Per quanto riguarda gli accantonamenti a fondo pensione (per chi avesse già la posizione aperta) ricordiamo che
– questi denari sono disponibili solo a cessazione del rapporto di lavoro, o possono essere anticipati ma solo in parte per specifiche casistiche;
– quando vengono smobilizzati, gli accantonamenti al fondo vengono tassati seppure con un regime agevolato
– bisogna fare attenzione al possibile superamento della soglia di deducibilità fiscale (5.165 euro) oltre la quale si viene tassati normalmente pur senza poter disporre delle somme. Per questo fine si tiene conto di tutti i versamenti fatti su fondo pensione, ovvero contributi del lavoratore e del datore di lavoro (non dell’accantonamento relativo a TFR).
Siamo a disposizione di coloro i quali desiderassero chiarimenti e suggerimenti soprattutto per quanto riferito alla quota premio del 25°, che rappresenta una somma generalmente non banale.
Nel novembre scorso il salvataggio delle quattro banche fallite e “risolte” dal governo ha innescato un ciclone di proporzioni gigantesche. La prima applicazione del “bail-in” ha prodotto un panico vero tra i risparmiatori e avviato una crisi sistemica altamente pericolosa.
Molte questioni sono ancora aperte, le nuove banche cercano compratori, altre banche sono a rischio fallimento o affrontano situazioni critiche. Il difficile aumento di capitale delle due banche venete ha spinto il governo alla rapida creazione del Fondo Atlante, con dotazione prevista di 6 miliardi, da parte di Intesa, Unicredit, CDP, Fondazioni e via via le altre banche minori. BPVI ha già assorbito 1,5 miliardi (l’aumento è stato un disastro, Atlante ha dovuto comprare tutto e la quotazione non è riuscita). Con Veneto Banca si rischia di replicare. Il resto delle risorse andrà a fare da paracadute ad altri casi aziendali problematici.
E’ ora di fare un bilancio critico di 25 anni di privatizzazioni del sistema bancario. Il disastro è sotto gli occhi di tutti. La ritirata del settore pubblico, la mancanza di investimenti privati, la ritrosia delle banche nel fare credito per concentrarsi su attività più remunerative, hanno prodotto una contrazione dell’economia e dei tassi di crescita. La crisi scoppiata nel 2008 ha dato il colpo di grazia e dopo la caduta non si vede ripresa all’orizzonte. Le banche italiane sono gravate da sofferenze nette molto pesanti (peraltro imputabili spesso al credito di “relazione”), quindi sono aggredibili e scalabili: quelle quotate e quelle in procinto di esserlo sono un obiettivo esplicito di interessi forti che puntano ad impossessarsene a poco prezzo dopo averle fatte a pezzi. Si impone una riflessione sul ruolo del credito e sul rischio di vedere il nostro sistema depredato, tramite scalate ostili, di una delle ultime risorse appetibili: il risparmio degli italiani. Anche come lavoratori bancari, quanto sta accadendo non ci può lasciare indifferenti.
In due situazioni complicate, dove siamo presenti con il nostro sindacato, MPS e Carige, abbiamo proposto la soluzione della nazionalizzazione. Il perdurare della crisi rende questo scenario (non solo per le due banche citate) sempre più probabile, per cui il vero problema non è se nazionalizzare, ma come farlo.
Nazionalizzare una banca non è più tabù neppure nel regno del pensiero liberista, persino USA e Gran Bretagna sono ricorsi in passato a queste misure per salvare importanti istituti di credito. Il problema è che questi interventi si sono tradotti nella classica pubblicizzazione delle perdite, con peso tutto a carico del bilancio dello stato e con le banche che hanno continuato imperterrite con le loro pratiche speculative: passata la bufera, sono ritornati anche i bonus stellari dei manager, i veicoli fuori bilancio e i comportamenti illegali nella manipolazione dei mercati (di cui le multe patteggiate sono prova concreta).
Quando suggeriamo (non più soli) la nazionalizzazione delle banche in crisi, non intendiamo certamente riproporre questi esempi. Un’operazione del genere deve essere l’occasione per introdurre un diverso modello di banca, tema rimosso troppo velocemente dal rinnovo del CCNL 2015: non un ritorno al passato, ma l’apertura verso un futuro dove il credito abbia un ruolo strategico.
Occorrono aziende di credito sganciate dal modello dominante, banche che facciano le banche, che tornino ad essere strumento di tutela dei risparmi dei cittadini e di impulso alle piccole e medie imprese, con un forte radicamento nel territorio, conoscenza del tessuto produttivo e corretta gestione del credito. Rompiamo con le pratiche clientelari e la collusione con i poteri locali che abbiamo visto negli ultimi anni: il nuovo modo di fare banca può e deve diventare alternativa concreta e concorrenziale ai banchieri attuali.
Questo richiede gruppi dirigenti responsabili e lungimiranti, non manager provenienti da società di consulenza con il sistema delle “porte girevoli”; devono conoscere davvero il lavoro del settore, saper valorizzare le professionalità e le capacità interne, non puntare forsennatamente ad utili trimestrali strabilianti e insostenibili.
L’obiettivo è la crescita di lungo periodo di tutto il sistema socio-economico circostante, l’opposto della politica predatoria fondata sulle pressioni commerciali, diventate ormai una drammatica costante, che impoveriscono la società.
Il circolo vizioso innescato dai tassi sottozero della BCE dimostra che l’uso della sola leva monetaria, in assenza di politiche di sviluppo della domanda, droga il mercato, favorisce il capitale finanziario e speculativo, non produce investimenti e mette a rischio i risparmi dei cittadini comuni: la maggior parte delle banche oggi non è in grado di proporre investimenti tranquilli, ancorché poco redditizi, ma spinge prodotti dall’esito incerto per i clienti e ricchi di commissioni per i collocatori.
I manager bancari non hanno interesse ad uscire da questo meccanismo, da cui estraggono corposi incentivi economici. Per cambiare serve un intervento, sia dall’alto che dal basso, che cambi un modello di banca dannoso per tutta la collettività e per il paese, oltre che per i lavoratori bancari, ridotti al rango di venditori sempre più stressati.
L’intervento pubblico per stendere una rete di protezione che tuteli le banche investite dal “bail-in” deve essere l’occasione per riaprire un dibattito franco su questo tema, senza le ipocrisie e le contraddizioni che vediamo nel rapporto tra governo e istituzioni comunitarie. Lo stato deve poter garantire il risparmio e la stabilità, quindi la normativa sul “bail-in” va rivista.
Le banche devono tornare a fare credito, le pressioni commerciali devono cessare e le rivendicazioni contrattuali devono sganciare lo stipendio dai risultati. I sistemi incentivanti vanno aboliti, non contrattati. Il credito è un’attività troppo delicata per lasciarla in mano ai privati.
Il suo esercizio va orientato per programmare, progettare, finanziare innovazione tecnologica e sviluppo sociale, crescita dell’economia e miglioramento del benessere collettivo. A cominciare dalla sicurezza dei risparmiatori e dal clima aziendale che vivono i lavoratori. Se puntiamo a questi obiettivi, anche il periodo turbolento che stiamo attraversando potrà acquistare un senso, in una direzione ben determinata.
Da un comunicato dei sindacati firmatari del 5 aprile, apprendiamo della volontà dell’azienda di procedere all’avvio “della fase di “valutazione approfondita” nell’ambito del processo di valutazione del rischio stress lavoro correlato previsto dal D.lgs 81/2008 – Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro.
Si può dedurre da questo impegno che, evidentemente, finora, la valutazione approfondita non lo fosse e che la nostra iniziativa di presentare un esposto alla Procura della Repubblica di Torino sull’argomento fosse fondata.
Il D.lgs 81/2008 è chiaro ed in tema di stress lavoro-correlato impone alle aziende di ridurlo il più possibile.
Cariparma, invece (seppure in buona compagnia), sembra impegnarsi in direzione opposta.
Particolarmente drammatica ed oramai cronica è la carenza di organici. Da qui discendono tutti i problemi perchè lavorare con la coperta permanentemente corta è inevitabilmente fonte di stress.
Su questa base, già fragile, l’introduzione di Agenzia per Te ha completato l’opera.
Gli stessi volantini dei sindacati firmatari confermano che le filiali ristrutturate secondo il nuovo modello sono un campionario di violazioni del D.lgs 81/2008, dal microclima all’ergonomia, dall’illuminazione ai problemi con i pc portatili.
Un particolare accanimento viene mostrato verso il cassiere superstite visto che, quasi sempre, la postazione dell’accoglienza e quella della cassa “light” sono negli angoli opposti della filiale. Così il cassiere deve correre avanti e indietro per tutta la filiale; d’accordo che un po’ di movimento fa bene, però….
Se quindi l’azienda volesse seriamente affrontare il tema dello stress lavoro-correlato, le prime cose che dovrebbe fare sarebbero assumere altri dipendenti, ridurre le pressioni commerciali e rivedere il progetto di Agenzia per Te.
Dubitiamo che lo farà, per cui ci prepariamo per nuovi esposti.
Ecco l’inevitabile effetto della trasformazione delle popolari in spa voluta dal governo con un decreto varato in fretta e furia e prontamente recepito da UBI Banca: siamo nelle mani dei fondi comuni.
Certo che, se Bergamo e Brescia avessero messo da parte antichi rancori e avessero unito le forze (al di là della lista comune presentata in assemblea), probabilmente la lista di Assogestioni non avrebbe raccolto il 51% dei consensi, ma ormai è tardi per piangere sul latte versato, anche se qualcuno a Bergamo sta gia’ pensando di rafforzare il patto dei soci per cercare di pesare di più e arrivare almeno al 5% (oggi vale il 3%).
Che la cosa debba preoccuparci o meno rispetto alla gestione precedente, quando sulle ‘’cadreghe’’ della stanza dei bottoni sedevano le ricche famiglie di Bergamo e Brescia, lo vedremo a breve, visto che a giugno sarà pronto il nuovo piano industriale e per fine anno è prevista la nascita della banca unica che farà definitivamente sparire ogni campanile che, da sempre, ha rappresentato valori, tradizioni ma soprattutto poteri locali che dal 02/04/2016, data dell’assemblea per il rinnovo del CDS, sono stati soverchiati dai vari Blackrock e Silchester di turno che, da soli, ora detengono il 10% del capitale azionario.
La presenza ingombrante dei fondi comuni nel capitale non sarà comunque ribaltata automaticamente nel nuovo CDS, in quanto solo 3 dei 15 consiglieri ne sono espressione diretta.
I vertici di UBI sono stati confermati, Moltrasio rimane il presidente e serafico afferma: ‘’una quasi sconfitta che fa piacere’’ e che dimostra la bontà della gestione precedente. Il fondo rimane sullo sfondo…ma la presenza e’ inquietante.
Ma cosa cambierà per noi lavoratori di questa azienda in questo nuovo contesto ?
Quali nuove strategie per vincere la sfida del mercato verranno ora attuate? Che influenza avranno ora questi fondi sulle decisioni di governance visto che ora i ‘’padroni’’ del capitale non sono più i nostri ricchissimi compaesani, ma qualche inafferrabile ed evanescente realtà rappresentata da circa 750 fondi?
Da tempo l’economia capitalista ha visto cambiare gli assetti proprietari, sempre più è gestita e controllata dal potere finanziario, che si esprime con nomi altisonanti come fondi sovrani, hedge funds, fondi comuni, sicav, ecc.. Questi organismi, spesso opachi nella loro attività, detengono grandissimi pacchetti azionari, sono presenti nelle più grandi aziende multinazionali del mondo e possono decidere le sorti di una società o dell’economia di uno stato semplicemente spostando i loro asset con un semplice click. Basti pensare che solo Blackrock è presente in vari settori per circa 4500 mld di dollari (il doppio del nostro debito pubblico).
Difficilmente costoro presteranno particolare attenzione per il territorio specifico cui appartenevano le banche o al benessere del personale (ammesso che prima lo si facesse) come ai tempi di Ubi ‘’popolare’’, se non sarà più che conveniente dal punto di vista economico, ma del resto questo è il mercato bellezza.
Insomma, dal modello paternalistico/clientelare rischiamo di passare direttamente al modello più spregiudicato di stampo anglosassone. Non pensiamo che per superare un modello sbagliato si debba passare ad uno ancora peggiore.
Questa vicenda deve indurre a riflettere su qual’è il modello di banca più utile per i cittadini e per il paese e la riflessione deve partire dall’alto, ma coinvolge anche noi lavoratori quando, in veste di “consulenti’’, proponiamo determinati prodotti.
I nodi irrisolti del sistema bancario italiano stanno venendo al pettine e le nostre idee su modello di banca e ruolo dei bancari sono sicuramente ben diverse da quelle di questi banchieri, ma anche da quello che hanno in testa i sindacati firmatari” che vorrebbero trasformarci tutti in una sorta di tuttologi, da commercialisti a fiscalisti a immobiliaristi e magari, un domani, perché no, anche agenti matrimoniali,,… vista la crisi di promesse nuziali di questi ultimi anni.